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Danza Nuragica

I principî giuridici sono molto importanti nella vita. Mi viene in mente un breve articolo letto qualche generazione fa, dove si ricordava una verità su un mondo di grassatori volti a tutto ciò che è animato e inanimato. Tutto è a rischio di furto e lucro privato. Una riflessione del diritto romano riguarda la… res omnium, che non può essere res nullius (le cose di tutti, poiché tali, non sono di qualcuno in particolare o, ancor meno, sono a disposizione dei più furbi).
Inoltre, godere in vita di un bene comune, inalienabile, non può dare il destro di assaltare a proprio uso e consumo la proprietà pubblica.
Il guardaboschi vivrà gran parte della vita fra alberi e animali selvatici, ma ciò non lo renderà mai padrone di quei beni naturali, che sono res omnium e non res nullius, ancorché egli li senta come suoi o vi sia profondamente affezionato.
Simile discorso si può fare per milioni di persone al servizio di privati e dello Stato.

Analogo discorso vale per l’usciere di un Museo o per i burocrati addetti alla tutela dei monumenti, per giochi politici o fatalità, dei quali beni si sentono certo i padroni e mostrano di fare di essi ciò che vogliono. Purtroppo, a volte occorrono secoli perché si conseguano norme giuridiche corrette.
Dunque: i monumenti preistorici, come le risorse naturali sono res omnium (o dovrebbero esserlo), nella loro fisicità e nell’importanza sociale, culturale e magari economica. Tutti sanno che è banale dirlo, lapalissiano… moltissimi ne sono certi, ma altrettanti no, sia perché l’argomento non li tocca sia perché asservono i beni archeologici come mezzi della propria ingorda carriera, sempre troppo lucrosa. Questi ultimi sono notevolmente i peggiori nemici dei beni archeologici; in loro prevale l’arroganza, la presunzione di un senso di potere assoluto: ne dispongono in nome di un vago diritto inesistente, solo preteso. Sono avvezzi alle scorciatoie per tessere di partito (le nuove chiavi elettroniche) e appartenenza alla nuova feudalità politica.
I monumenti preistorici, per loro stessa specificità, sono i più fragili davanti a tali bipedi narcisi, egocentrici e dunque insensati. Spesso, i giovani che lavorano al mantenimento e al godimento dei presidi turisticamente proponibili sono o hanno motivo per sentirsi sotto ricatto dalla superbia di questi tacchini tronfi, che spesso diventano aggressivi, impongono le loro amene favole da incapaci e minacciano ritorsioni… ove i giovani non manifestino sottomissione!

Invito al ballo
Casualmente, in una conferenza in quel di Ozieri, si parla di nuraghe. Un’attempata oratrice, fra le varie gaiezze da salotto disse che in un suo scavo archeologico – mi sfuggì dove – mise in luce una rampa gradinata nuragica a cielo aperto, posta fra due torrette. Sì è vero, non si disponeva ancora di questa casistica dacché mancò il Padre garante.
Oggidì ciascuno, sia pure con molte incertezze, ormai elabora per sé… lutto e disciplina.
Un mio fugace invito a specificare il fatto fu stroncato come lebbra: segreti di stato e… personali, soprattutto. Le domande non sono gradite: ¡nulla si concede ai rivali! C’è sempre qualcosa che sfugge a molti: la scala nuragica intermuraria a cielo aperto (sic?) mi mancava proprio, dopo mezzo secolo di visite attente ai monumenti nuragici. Urge tener conto di così acute novità.

Primo movimento
Per non cambiare pista da ballo… mi sovviene un’immagine lontana del nuraghe di San Nicola (ciò che ne resta), dell’omonima frazione distaccata di Ozieri, che fu svuotato nel cuore e nel “pericardio”.
Pressoché fagocitato dalle palazzine dell’abitato, sorprende per non essere ancora divenuto sede di una comoda discarica; per ora, qua e là, poche porcheriole eterogenee: ¡Un plauso al civismo dei popolani!
Davanti alla torre centrale è un piccolo cortile che accoglie le aperture di due torrette addossate e antistanti alla detta. È ben costruita… nella parte basale residua, più alta delle affiancate e foriera di curiosità per certa regolarità e ingiustificate aggiunte sopra e oltre l’architrave d’ingresso: ci sono anche tre filari elevati su tutti.
A Nord-Est del cortile si vedono gli esiti “a cielo aperto” di una rampa posta tra la torre centrale e l’edificio aggiunto intorno a Est; i blocchi ben martellati; tutto è in trachite e basalto.
Che sia quella la scala sotto le nuvole orecchiata alla conferenza? Indubbiamente, da qui puoi vedere le stelle… ora che l’edificio ha subito le chiudende ottocentesche e la frenesia dei grassi proprietari terrieri e chissà quali altri assalti per almeno tre quarti del Novecento.
Orbene, se all’archeologo manca una visione d’insieme della logica e dello spirito nell’architettura nuragica, per chi valuta, diviene difficile “vedere” la complessità originaria di un edificio con “scale aperte” e si è preda di idee naïves. Mi pare assurdo e non voglio credere… ma tutto è possibile!
Ricordo la patologica autostima dei burocrati per il ruolo rivestito, acuito davanti a un’eterogenea assemblea animata, legittimo campione del ben più ampio parco buoi produttore di biomassa, e così si affossa ancor più l’archeologia preistorica sarda.
Come quando ci si sente osservati, qualcosa nel San Nicola disturba equilibri e fascino antico.
È presto detto: al culmine della torre centrale è disposto in più filari, solo per un terzo del giro verso chi arriva, una sorta di placcaggio: una coroncina… da principessa, fatta di lastre affiancate poste di coltello e in altri modi: a un solo paramento per fortuna, fissato con zeppe e abbondante cemento… di ottima qualità.

Ci si accorge della genialità di tale realizzazione archeologica, certo freudiana, solo guardando alle spalle della chiostra di conci, dove – lieve sollievo – nessun muro di spalla sostiene tanta magnificenza: non ci speravo proprio e c’è da incrociare le dita.
La cosa ha prodotto, verso Sud-Est, un innalzamento regale del nuraghe centrale aprendo così cento altri inchini, come epiteti, adatti per i mai abbastanza “apprezzati archeologi/ghe” della soprintendenza: oserei dire ¡mai onorati/e abbastanza!
La prima piroetta introduce al diritto mondiale dei monumenti. Per esempio: ¿Chi autorizza i burocrati della soprintendenza a violentare in questo modo una reliquia della preistoria contro ogni dettato di leggi italiane e accordi internazionali in materia? ¿Ora il nuraghe è più bello?… ¿Scientificamente è più rilevante? ¡Buon Signore del cielo, guardi e lasci fare! ¿Mai un fulmine?…

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Numero 61 – II Semestre 2022

Disponibile da Novembre 2022, il nuovo numero 61 di Sardegna Antica

Il numero 61 della Rivista Sardegna Antica, si presenta denso di argomenti intreressanti, che ci sembrano adatti al periodo che stiamo attraversando: si parla infatti di Salute, come anche di Guerra Mondiale, senza dimenticare il nostro costante imperativo, che consiste nella corretta interpretazione della storia della Sardegna. Vediamo una breve rassegna delle ricerche e gli studi proprosti al vostro gradimento.
Per prima, M. Andreoni, con l’articolo Homo Patiens, accoglie egregiamente il lettore, accompagnandolo tra magia, religione e medicina del mondo antico: lo guida sicura tra le acque curative sarde di Fordongianus, attraverso l’Etrusca Disciplina, le pratiche medico-superstiziose greche e latine, fino alla nascita del simbolo del Caduceo, quasi alle soglie della scienza medica. Seguono due articoli di M. Feo, volti a ribadire i validi motivi dell’equidistanza di Sardegna Antica sia dalle imprecisioni dell’Accademia (Pietà religiosa e vanità terrena) su cronologia e interpretazione materiale), sia dalla “Fantarcheologia” di molti non addetti ai lavori (Gil Gamesh. L’eroe e la scrittura) circa l’invenzione della “scrittura nuragica”. A. Assorgia (Il Supramonte di Baunei) descrive e spiega le fascinose meraviglie geologiche, archeologiche e botaniche del Monte di Baunei, rivelandone alcune ignote e proponendo nuove prospettive di ricerca. G. Manca (Danza Nuragica) interviene con un’ulteriore sua critica – sarcastica e umoristica, come d’uso, ma sempre didattica e ben argomentata – verso l’atteggiamento superficiale e inconcludente dell’Accademia sarda nei confronti della civiltà nativa, cui restano dunque scarse possibilità d’essere compresa e conosciuta.
A. Atzeni (La prima alabarda in Sardegna) ci offre un sintetico, ma veramente ottimo esempio di archeologia interpretativa, dimostrando che essa è possibile anche in Sardegna: una fresca ventata di benvenuta razionalità, fonte di ottimismo.
Seguono due articoli d’argomento bellico, visti i tempi attuali: il primo è di G. Enna (La Grande Guerra e l’epopea della Brigata Sassari), che rievoca anche da un punto di vista sardo, rilevanti fatti storici, economici e di costume, che prepararono, accompagnarono e seguirono alla Grande Guerra; il secondo è di P. Pischedda (I Dimonios e Raimondo Scintu), che fa rivivere l’Eroe Scintu, la Brigata Sassari e aneddoti poco noti di valore, dedizione ed eroismo isolano. Insieme, i due articoli compongono un unico racconto in cui sembra d’intravvedere – per un momento – il genio di Emilio Lussu, che firmò un terribile diario resoconto (l’unico esistente!) della Prima Guerra Mondiale.
Quindi C. Maccioni (Il Fuoco. Francesco Ciusa e Sebastiano Satta) espone un ben documentato studio, veramente interessante e pieno di riferimenti, nel quale svela un parallelo tanto artistico, quanto profondamente umano tra i due amici e artisti nuoresi, partendo da un bassorilievo donato dal Ciusa al Satta e accompagnando quest’ultimo – il più anziano – oltre la prematura scomparsa per malattia, fino al monumento funebre dedicatogli dall’amico scultore.
Giovanni Graziano Manca (Marcello Serra nel cinema documentario sardo) descrive il Serra come un sardo che voleva far conoscere l’amata terra al vasto pubblico televisivo. Spiega che il suo modo di documentare l’isola come un luogo magico, forse mentiva un poco (certamente non quanto si mente oggi in costosissimi filmati infondati!), quasi mostrandosi in attesa di un fulgido futuro che, purtroppo, ancora non è arrivato.
Infine Nello Bruno (Su Irgu Marras) spiega, per gli amanti delle lingue e dell’etimologia, la derivazione forse semitica di una definizione dialettale sarda per un fenomeno naturale come i lampi a ciel sereno. A quanto pare la spiegazione passerebbe per quel simpatico e raro mammifero marino noto come “bue marino”, la foca monaca: altrimenti, la denominazione dialettale non troverebbe una plausibile spiegazione. Completa le pagine di questo numero la citazione di tre libri interessanti: uno è “Sorprendenti piante del Friuli” (di S. Costantini e A. Moro), un altro riguarda le “Statue di Mont’e Prama” (di P. Secci) e un terzo “1802, La rivoluzione che non ci fu” (di G. e A. Muzzeddu).

Si segnala che le opinioni espresse nelle relative recensioni sono valutazioni personali e che certo non avremmo perso tempo con analisi di libri che non meritano menzione. Infine, a proposito di libri, è forse il caso di annunciare l’imminente edizione di uno nuovo dell’archeologo G. Manca, che è tanto poco atteso quanto sarà sorprendente: “Archeologia dell’Isola Selvaggia: from an original idea by Duncan Mackenzie”, di cui si mostra la copertina. Il titolo bilingue allude al fatto che si tratta di un’affidabile traduzione – commentata e spiegata da Manca – dall’originale inglese dei testi dell’archeologo scozzese, inviato in Sardegna dalla British School of Rome. Lo stesso che Arthur Evans aveva scelto come compagno per scavare a Cnosso. Nel nuovo libro di Manca si descrivono gli eventi, talvolta contorti e complessi, che impedirono una pronta traduzione e divulgazione degli scritti originali. Si sottolineano gli errori in cui incappò lo scozzese, solo apparentemente bene accolto dagli archeologi sardi coevi. Si racconta come avvenne che tali errori di valutazione architettonica furono presi per veritieri in accademia e riproposti pedissequamente, senza alcun senso critico, né dubbi in altri testi.
Insomma, non è solo un libro di archeologia sarda: è anche – e soprattutto – un resoconto di storia dell’archeologia sarda degli ultimi anni, così come può legittimamente raccontarla chi quegli anni ha vissuto in prima persona. La veste grafica è curata da un ottimo tecnico di scuola moderna e richiama i contenuti attraverso gli schemi dei monumenti analizzati. Nel retro copertina è il ritratto di Mackenzie è reso con una tecnica elettronica attraverso i suoi stessi scritti inglesi. Il CSCM e la Grafica del Parteolla sono certi che l’opera sarà rivoluzionaria per l’Archeologia sarda.
Un libro che non prenderà polvere su uno scaffale…

Sommario

  • Homo patiens – Maura Andreoni
  • Pietà Religiosa e Vanità Terrena – Maurizio Feo
  • Ghilgaméš. L’eroe e la scrittura – Maurizio Feo
  • Il Supramonte di Baunei, nuove scoperte – Antonio Assorgia
  • Danza Nuragica – Giacobbe Manca
  • La prima alabarda preistorica in Sardegna – Alessandro Atzeni
  • La Grande Guerra e l’epopea della Brigata Sassari – Giovanni Enna
  • I Dimonios e Raimondo Scintu – Peppino Pischedda
  • Il Fuoco: Francesco Ciusa e Sebastiano Satta – Carlo Maccioni
  • Marcello Serra e il cinema documentario sardo – Giovanni Graziano Manca
  • Su Irgu marras- Nello Bruno

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Homo Patiens

Quindici anni or sono, la magistratura affidò in custodia giudiziale all’Antiquarium Arborense di Oristano alcuni materiali in bronzo: una brocca askoide nuragica in bronzo fuso, un frammento di tripode del Tardo Cipriota III e un gruppo di “strumenti chirurgici romani”, apparentemente provenienti da Forum Traiani (Fondongianus, 27 chilometri a nord-est di Oristano).
Il fatto del rinvenimento di strumenti chirurgici sarebbe stato davvero eccezionale perché poteva essere il primo contesto accertato dell’attività della chirurgia di un centro romano della Sardegna con medici che, a giudicare dai ferri rinvenuti, dovevano essere stati certamente di alto livello.

Il Professor Zucca dell’Università di Sassari parlò del rinvenimento alla stampa, evidenziando il rilievo della scoperta e accingendosi alla pubblicazione nella serie “L’Africa romana” dell’Università di Sassari insieme all’archeologo Tanino Demurtas. Contestualmente però, scoprendo il filone delle riproduzioni contemporanee di strumenti chirurgici romani provenienti soprattutto da Pompei e dalla Britannia, dopo un’ampia ricerca con il confronto tra gli oggetti sequestrati e i repertori provenienti da vari musei italiani ed europei, il professore si convinse dell’imitazione moderna e dunque rinunciò alla pubblicazione.

Morale della storia, gli unici rinvenimenti di “strumentazione chirurgica” in Sardegna al momento rimangono solo i singoli pezzi rinvenuti a Tharros e a Turris Libissonis (Porto Torres), secondo quanto tramandato dai dati ottocenteschi del Canonico Giovanni Spano, che però considerò “stromenti chirurgici” romani in bronzo quelli che oggi conosciamo essere rasoi punici, abbondanti a Tharros e Karales.
Forti di altre documentazioni sia letterarie sia archeologiche però (altre collezioni estremamente importanti sono state ritrovate in vari altri luoghi dell’impero, primo tra tutti Rimini, con la splendida strumentazione chirurgica rinvenuta nella c.d. Domus del Chirurgo), questa è comunque una bella occasione per fare alcune considerazioni sulla medicina e la chirurgia in età romana che, rinvenimenti a parte, anche nell’isola doveva senz’altro essere praticata.

A differenza della società greca, che riteneva la salute un fatto privato e personale, Roma con il tempo andò sempre più tutelando la sanità pubblica con l’istituzione di una serie di servizi igienici e sanitari per prevenire le malattie e migliorare le condizioni di salute: acquedotti, bagni pubblici, reti per le acque reflue, terme, sorveglianza igienica sugli alimenti, cloache e leggi sanitarie per la difesa della salute pubblica riconosciute e rinomate in tutto l’impero.
La medicina romana delle origini si connette alla medicina di altri popoli latini e, in particolar modo, all’etrusca disciplina, una pratica che consisteva nell’evocazione delle divinità attraverso oggetti, simboli, formule o altro.5 Medicina e religione erano strettamente interconnessi e gli aruspici rivestivano un ruolo fondamentale

“il maggiore esponente della medicina greca rimase Ippocrate (V/IV sec. a.C.), “il Padre della medicina”, che ebbe il merito di abbandonare l’approccio magico-religioso, far avanzare lo studio sistematico della medicina clinica riassumendo le conoscenze mediche delle scuole precedenti e descrivere le pratiche mediche attraverso il Corpus Hippocraticum e altre opere.”

I medici greci erano rinomati in tutto il mondo antico ma, leggendo le fonti, si nota che all’inizio non tutti a Roma erano ben disposti nei loro confronti. In fondo erano “barbari” che vantavano la capacità di guarire con metodi disinvolti, e spesso brutali, i malati.
Per i tradizionalisti, questa artificiosa medicina straniera sostituiva la buona vecchia medicina amministrata dal pater familias che generalmente, almeno nell’uomo adulto e libero, collegava le malattie del corpo ai mali dell’anima, il cui rilassamento rendeva il corpo meno attento e quindi più vulnerabile. Quella amministrata dal pater familias era una medicina domestica il cui fulcro erano il vino, alcuni frutti, parti di animali, l’olio, la lana e alcune piante, in primis il cavolo (brassica), ritenuto in grado di curare ogni tipo di malattia.

Nonostante tutto questo e la sfiducia dei tradizionalisti però, i medici greci continuarono ad arrivare. Secondo quanto attesta Plinio, il primo giunse a Roma dal Peloponneso nel 219 a.C.. Si trattava di Archagatos, figlio di Lysanias, che all’inizio fu così ben accolto che gli venne addirittura concessa la cittadinanza romana e un locale a spese dello stato. Esercitava come “vulnerarius”, specialista di ferite, effettuava amputazioni e incisioni e cauterizzazioni (secare, urĕre). Fu dapprima molto popolare, ma i suoi metodi energici gli fecero poi perdere la simpatia della popolazione che presto gli affibbiò il soprannome di carnifex (boia, macellaio).

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La prima alabarda in Sardegna

Prima alabarda preistorica ritrovata in Sardegna

Le cosiddette “alabarde” sono una particolare classe di armi, così denominate a livello archeologico, che nella pre-protostoria precedono e poi vengono completamente sostituite dalle spade nel ruolo bellico e rappresentativo.
La spada, infatti, è l’arma per eccellenza del guerriero, in quanto strumento appositamente progettato per il combattimento. A differenza di altre armi come lance, archi, frombole e asce, non esiste un uso secondario (come la caccia) per quest’oggetto, che vada aldilà dello scopo di ledere un altro essere umano. L’unica funzione alternativa della spada è quella di rappresentanza, ovvero quando assurge al rango di oggetto da esibire per rafforzare o sottolineare lo status, in vita come nella morte, del suo portatore.
Un ruolo somigliante dovette svolgere anche l’alabarda, infatti, quest’arma è ampiamente nota per aver preceduto l’invenzione della spada.
Di fatto, il suo utilizzo si colloca tra la fine dell’età del rame e l’inizio dell’età del bronzo nell’intera Europa, quando i pugnali e le daghe iniziano a svilupparsi in lunghezza, diventando vere e proprie spade.

Il termine “alabarda” non è esattamente corretto, ed è stato mutuato dalla nomenclatura delle armi medioevali.
Indica un’arma lunga, che si sviluppa intorno all’XI secolo A.D. per poi standardizzarsi intorno al XIV secolo A.D. È composta da una lama larga, solitamente più o meno parallela al manico su cui è inastata, dotata di una punta centrale, che prosegue idealmente lungo la direzione dell’asta, e da un “becco”, o una generica punta, usata per agganciare o bucare.

L’alabarda preistorica, invece, è più simile a un’ascia dotata di un’unica punta a forma di becco e solitamente asimmetrica, con uno dei lati taglienti maggiormente incurvato verso le mani dell’utilizzatore, probabilmente per accentuare il colpo di punta dato dall’alto. Sono famose le raffigurazioni di quest’oggetto sulle statue stele del Trentino, come quelle rinvenute presso riva del Garda, o le raffigurazioni rupestri della Val Camonica, dove l’arma è rappresentata numerose volte.

L’alabarda, infatti, era estremamente diffusa e viene ritenuta, a buon diritto, un’arma di rappresentanza.”

Considerate tutte le implicazioni di carattere sociale, e la considerevole mancanza di frequenti riscontri per questo oggetto in relazione alla Sardegna preistorica, è stato identificato dallo scrivente e pubblicato nella propria tesi di laurea magistrale un singolo esemplare di 25 cm rinvenuto negli scavi del Nuraghe Seruci di Gonnesa. Tale arma tuttavia, fu interpretata, a causa della semplicità estrema e della natura ambigua, come una “punta di lancia”. Singolare è che l’oggetto sia rappresentato nella cartellonistica del nuraghe e, tuttavia, le relazioni di scavo non fanno cenno alcuno a questo oggetto. In ogni caso può dirsi certa la sua provenienza dal monumento detto. Se dovesse essere accettato e condiviso che di un’alabarda si tratti, come qui sostengo, si avrebbe un rinvenimento straordinario e da esso deriverebbe una diversa ipotesi di lettura del tipo di società dalla quale esso proviene. Se appartenesse al gruppo umano che affrontò la costruzione e l’amministrazione dei monumenti propriamente nuragici, si dovrà mutare la valutazione che attualmente si vagheggia per esso…

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Ferralzos di Suni

Un nuraghe da primato

Alcuni monumenti nuragici sono più noti di altri per loro caratteristiche notevoli, come l’altezza residua maggiore, un diametro di camera fuori dal comune, oppure particolari architettonici dalle misure eccezionali, nei diametri basali o nell’altezza dell’ogiva che copre la camera del piano terra, ecc. per esempio, il nuraghe Is Paras di Isili è noto per avere con l’ogiva di camera più alta nell’Isola (m 11,18); il nuraghe S. Barbara di Villanova Truschedu è il nuraghe con la camera dal diametro più ampio finora ritrovato (7 m).
Risulta quindi eccezionale poter richiamare l’attenzione su un singolo monumento che eguagli o superi nelle misure i nuraghi con volta più alta e diametro di camera maggiore fra quelli finora conosciuti e misurati. Tale edificio esiste e si chiama Ferralzos: è sito in comune di Suni, provincia di Oristano.

Il monumento ha un’architettura complessa e, per le sue condizioni (ampiamente spietrato da un lato) e la vegetazione che l’avviluppa, appare subito di non facile accesso. Come spesso accade, anche questo monumento fu “bersaglio” per realizzare muretti a secco che segnano confini tra le proprietà d’imposizione sabauda, e proprio per questo in nostro amico e guida lo chiama “nuraghe Lacana”.

Il possente edificio nuragico è (fortunatamente) ignorato da clandestini, né mostra ulteriori azioni distruttive oltre le dette. Il seminterrato è avvolto da una folta macchia di rovi e arbusti, mentre grandi alberi svettano al colmo. Le ceppaie di questi ultimi pregiudicano la stessa stabilità dell’edificio e le radici ogni anno avanzano a “scombinare” vieppiù i muri.
Nelle immediate vicinanze, intorno a Nord-Est del nuraghe, è un pozzo con alcuni abbeveratoi, alimentati da una risorgiva che imbibisce la campagna basaltica circostante, fino a raggiungere il monumento.

In questa breve comunicazione, prendo in esame solo aspetti peculiari dell’ architettura della torre centrale del nuraghe e, in particolare, della sua camera basale:
  • Il vano è coperto da un’altissima e bellissima ogiva, che attualmente è raggiungibile solo da percorso a ostacoli. Ai fini della valutazione della reale altezza della volta è utile considerare che la grande camera di base del nuraghe Ferralzos mostra attualmente un accumulo di terra e pietre determinabile in circa due metri, chiaramente valutabile dal rapporto con l’architrave dell’ingresso esterno, ostruito quasi completamente. Tale misura si deve sommare, dunque, alle altezze misurate sul riempimento attuale.
  • Il vano scale intermurario è realizzato in modo davvero insolito o, se si preferisce, non canonico. Esso prende avvio dal lato della nicchia di camera posta alla destra di chi dovesse entrare in camera dall’ingresso esterno, oggi impraticabile per il fortissimo riempimento. Il detto particolare architettonico, assai raro nel panorama dei nuraghe, richiama, per esempio, l’avvio della scala diretta al piano superiore del nuraghe Longu di Padria, dov’è analogamente collocata, a partire dalla nicchia di camera di sinistra, ancorché in quest’ultimo esempio la scala sia decisamente più ripida e dunque meno agevole.
  • Il detto accumulo interno, naturalmente occulta in parte le stesse aperture presenti in camera, ciononostante, è possibile leggere distintamente la presenza di ben quattro nicchie, tutte aperte nella parte fondale della parete (un numero raro, riscontrato solo nei nuraghe Mura ‘e Figu di Bauladu, Sa Cuguttada di Mores, Columbus di Sedilo e Appiu di Villanova Monteleone).
  • L’attuale primato per la sala più ampia appartiene invece al nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu, con ben 7 m di diametro. È quindi lecito presumere che, allo sgombero del riempimento e toccato l’originale piano di calpestio, il nuraghe Ferralzos potrebbe eguagliare, se non superare, i sette metri di diametro nella camera di base.

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Numero 60 – I Semestre 2022

Disponibile da Aprile 2022, il nuovo numero 60 di Sardegna Antica

Il fascicolo 60 vuol dire 30 anni d’impegno culturale
Il n° 60 di Sardegna Antica significa ben 30 anni continuativi di lavoro per una divulgazione appassionata, condotta da una Redazione non retribuita, per una Rivista che si pregia di mantenere la propria completa indipendenza intellettuale e di non ricevere finanziamenti, pubblici o privati, salvo il sostegno dei nostri abbonati e dei lettori.
Oggi possiamo affermare che nessun’altra rivista concorrente in campo storico-archeologico, può vantare un analogo ragguardevole primato, che per noi è già un lodevole traguardo. A fronte – possiamo aggiungere serenamente – di un prezzo di copertina che resta più basso di qualsiasi altro e che corrisponde alle ineliminabili spese di stampa e di spedizione.
In più, Sardegna Antica può vantare di avere sempre proposto ai propri attenti lettori la più verosimile verità scientifica, frutto di piccole ricerche, laddove altre iniziative non esitano certo a inseguire le richieste di un pubblico di bocca buona, che predilige la favoletta mitica, l’interpretazione “identitaria”, o – peggio – la strumentalizzazione del fatto storico, o dell’informazione archeologica.
Ecco quale è oggi – per tutti noi – il vero significato di questo numero: si tratta di trenta anni continuativi di un sogno che continua, di un impegno nei confronti del Lettore e di amore per la verità della comune Storia trascorsa. Di quanto sopra, abbiamo esplicita conferma nel riscontro del pubblico di lettori, a cui va il nostro sentito, sincero ringraziamento.

Sardegna Antica n. 60 esce in tempo, malgrado tutte le difficoltà redazionali di questa incresciosa “temperie culturale”. Ci sembra un buon numero, nel quale si toccano tutti i temi cari alla nostra filosofia editoriale. La rivista apre con R. Perissutti, con molte profonde riflessioni antropologiche. Segue un’importante novità di A. Assorgia sul vulcanesimo a Baunei. M. Feo espone considerazioni importanti a proposito di dettagli poco noti dell’indagine a Duos Nuraghes. In un secondo articolo di archeologia, A. Atzeni documenta in modo gradevole e preciso i motivi per cui il Nuraghe Ferralzos di Suni merita qualche primato. Pia Avis, di M. Andreoni, fornisce un quadro completo delle disavventure biologiche e delle imprese letterarie della cicogna bianca, in anticipo con la sua stagione d’arrivo in Sardegna. Per la Storia locale, P. Pischedda ci rivela altri oscuri capitoli della vergognosa vicenda delle Carte d’Arborea, mentre Giov. G. Manca ci parla del degrado dei beni culturali di Nuoro. Intanto speriamo in un prossimo futuro di potere ospitare storie locali più edificanti! G. Enna propone una spiegazione economica degli antichi mercati mediterranei, nel complicatissimo periodo del crollo dell’Età del Bronzo. Segue una critica al vetriolo, con cui G. Manca descrive i gravi misfatti perpetrati più volte sul Nuraghe Santa Barbara (vero San Sebastiano!): alcuni sono interventi pratici spacciati per restauro, altri sono descrizioni false e impossibili, che dimostrano la pochezza di certi “archeologi” nostrani e stranieri. Una bella provocazione marinaresca di L. Scano riporta la navigazione antica sulle nostre pagine, rivalutando il personaggio “eretico” di Thor Heyerdahl, studioso sperimentatore. Per la nuova linguistica, N. Bruno visita le radici della lingua sarda, richiama regole d’indagine scientifiche e avverte dell’appartenenza di molte parole al greco antico, non dal bizantino. A. Cabiddu richiama il tema dello spopolamento del centro Sardegna, correlato a rilevanti problemi economici, zootecnici e ambientali poco conosciuti, ma condivisi con tutta l’Europa, a cui si dovrà porre rimedio. P. Cannella chiude il fascicolo narrando, in chiave sbarazzina, le complicate vicissitudini di tre santi sardi.

Tre recensioni completano questo numero: la prima – una piccola perla poco nota del Taramelli – spinge a riflessioni molto amare sul presente dell’archeologia isolana; la seconda, in breve sintesi, dice perché il libro “Grandi Statue Sarde” sia necessario per tutti i sardi che vogliano conoscere il proprio passato; la terza porta una godibile, pacata nota critica descrivendoci il “Dizionario Etimologico Dorgalese” di A. Deplano. Un augurio di buona lettura, di buona Primavera ed estate a tutti i nostri lettori e alle loro famiglie.

Sommario

  • Una folla di ominidi – Rosanna Lupieri Perissutti
  • Scoperta geologica a Baunei – Antonio Assorgia
  • Duos Nuraghes di Borore – Maurizio Feo
  • Ferralzos di Suni: un nuraghe da primato – Alessandro Atzeni e Sandro Garau
  • Pia ăvis – Maura Andreoni
  • I tre canonici – Peppino Pischedda
  • Beni culturali di Nuoro e il loro degrado – Giovanni Graziano Manca
  • Antichi mercati globalizzati – Giovanni Enna
  • Santa Barbara o San Sebastiano? – Giacobbe Manca
  • I Fenici attraverso l’oceano – Lorenzo Scano
  • La lingua perduta e il sostrato arcaico- Nello Bruno
  • L’Ogliastra in Europa – Andrea Cabiddu
  • “Chi l’ha visto?” – Paola Cannella

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Pia ăvis

Presente soprattutto nella Penisola Iberica e nelle regioni dell’Europa Orientale, l’areale della cicogna bianca (Ciconia ciconia) in Italia ha subito una forte contrazione fino alla totale mancanza di nidificazione. Solo a partire dagli anni ‘80, contemporaneamente ad una pressante campagna di sensibilizzazione, ha ripreso a nidificare dapprima in Piemonte e successivamente nelle altre regioni italiane. La specie si riconosce per il caratteristico colore bianco del piumaggio con le remiganti nere, le zampe lunghe e rosse, il becco anch’esso lungo e aranciato e per la forma slanciata del corpo. Il portamento è quello classico eretto di tutti i Ciconiformi, con la posizione di riposo spesso su una sola zampa.

Le cicogne bianche prediligono le praterie, le pianure e le zone umide, in genere; si nutrono principalmente di pesci, insetti, topi, anfibi, molluschi, rettili e spesso non disdegnano i pulcini di altre specie di uccelli. Per quanto riguarda la nidificazione, occupano generalmente i nidi abbandonati l’anno precedente e, se questo non è possibile, le coppie provvedono a una nuova costruzione, preferibilmente su punti elevati come campanili, pali, comignoli e talvolta sugli alberi. A livello nazionale, è una specie vulnerabile, mentre a livello regionale, lo status non è sufficientemente conosciuto (status indeterminato), in quanto in Sardegna la cicogna bianca è principalmente un visitatore estivo che negli ultimi anni ha fatto segnalare alcuni tentativi di nidificazione nella parte nord-occidentale dell’isola.

I fattori generali di minaccia sono la riduzione e l’alterazione degli habitat, le bonifiche e l’inquinamento delle acque, il bracconaggio e, non da ultimo, la collisione contro i tralicci, le linee e le strutture dell’alta tensione. Nonostante questo, per l’immaginario collettivo la cicogna è comunque un uccello molto amato, che da sempre ha destato simpatia e interesse. Il suo rapporto con l’uomo non è mai stato solo estetico perché, a causa della condivisione degli stessi ambienti aperti – soprattutto agricoli – e dell’utilizzo di strutture di origine antropica per la collocazione dei suoi voluminosi nidi, per l’uomo la sua presenza era familiare e abituale. Così familiare da aver anche dato luogo a un antichissimo esempio di “zoomorfismo linguistico”: a una ciconia accenna infatti il teologo Isidoro di Siviglia (VI sec. d.C.), per indicare uno strumento usato dai contadini romani e ispani per attingere l’acqua. Consisteva in un’asse posta in bilico, in modo che le estremità potessero essere alternativamente alzate e abbassate, la cui silouhette ricorda in effetti quella di una cicogna nell’atto di alimentarsi o bere. Una semplice, quanto ingegnosa, macchina (lo shaduf) già in uso nell’antico Egitto e in Mesopotamia almeno dal II millennio a.C., e poi ripresa continuamente, anche fino a tempi recenti, da altre genti.

“in altri posti, in ordine sparso, indice di quel fenomeno che vede l’uomo adottare spontaneamente le stesse soluzioni in presenza di risorse e condizioni più o meno uguali e non per scambio culturale”

Antichissime rappresentazioni su edifici sacri risalenti alla prima cultura neolitica del Vicino Oriente, papiri o manufatti egizi, pitture parietali romane, mosaici bizantini e fregi miniati medievali raffigurano spesso questi uccelli, mettendo talvolta così tanta cura nella resa dei particolari da renderli identificabili con buona sicurezza anche dal punto di vista scientifico sebbene, soprattutto in età medievale, la cicogna sovente viene confusa con la gru o con l’ibis sacro.

Soprattutto sono, però, le fonti scritte che destano interesse: le testimonianze sulla presenza e sulla distribuzione della cicogna in Italia in epoca storica ci giungono, sia attraverso trattati naturalistici (come varie opere di Aristotele – IV sec. a.C. – o la Naturalis Historia di Plinio – I sec. d. C. – l’autore antico che maggiormente scrive della cicogna) sia incidentalmente, da opere di tutt’altra natura. Leggendo le fonti, si apprende per esempio che, ai tempi dei Romani, la specie nidificava in Italia anche nella stessa Roma e costruiva i nidi addirittura sui templi, come testimonia Giovenale (I sec. d.C.), che riferisce di un voluminoso nido costruito sul tetto del Tempio della Concordia a Roma, ormai lasciato all’incuria.

La cicogna è uno degli uccelli di cui parlano anche il Levitico e il Deuteronomio, i libri veterotestamentari che trattano dei sacrifici, della consacrazione, delle norme di purità, delle leggi e delle disposizioni sui voti e sulle offerte dei sacerdoti della tribù di Levi. Gli animali vietati erano tutti quelli che i pagani consideravano sacri o che, sembrando agli occhi degli Ebrei ripugnanti considerati non graditi a Dio. Sarebbe stato quindi come essere schiavi degli dèi stranieri mangiare o avere contatti con animali che erano loro consacrati e la legge di santità doveva proibirli. Questa distinzione sarà poi definitivamente abolita dalla rivelazione  novotestamentaria, tanto che rappresentazioni di cicogne nel ruolo di ophiomachos, vale a dire “in lotta contro i serpenti” intesi come il male e il peccato, fanno bella mostra di sé tra i più antichi mosaici delle chiese paleocristiane e bizantine.

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Una Folla di ominidi

Quando si pensa all’Uomo, alludendo all’umanità in generale, a cosa siamo oggi o chi saremo domani, la prima figura che nasce nella mente con sgomento è un numero, una cifra: 8 miliardi di individui! O-t-t-o m-i-l-i-a-r-d-i!-!! Siamo come “stelle in cielo o granelli di sabbia in riva al mare” di biblica memoria, penosamente illimitati! Subito dopo arriva la seconda immagine, è la visione della Terra trasformata in un grande formicaio, brulicante di imenotteri acefali, che si muovono freneticamente, dando l’impressione di lavorare per migliorare la vita o per il bene della loro casa ma, a un più attento esame, si scopre che stanno invece distruggendo, sgretolando, avvelenando il loro paese. Abbiamo un solo formicaio, nessuno mai in tutta la storia dell’Uomo ha prodotto così tanti e grossi danni mettendo in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Quante zolle di terra o quanti fili d’erba o spighe di grano toccheranno domani a ciascuno dei nostri discendenti? E quando avremo consumato tutte le zolle e i fili d’erba e le spighe, la Terra sarà felice di scrollarsi di dosso questi omuncoli impazziti e riprenderà la vita senza di noi.

Così, almeno a me succede, è più facile rivolgere lo sguardo al passato, rifugiandosi nel tempo già consumato, quello storico ma ancor meglio in quello profondo, dove l’immaginazione ha un buon margine di manovra. E più indietro si va, più nebulosa e incerta è la possibilità di capire, di vedere chi erano quegli esseri che popolavano la Terra. È vero che lo studio della preistoria, dell’evoluzione umana, la paleoantropologia è una scienza che tende a una puntigliosa verità, interroghiamo i fossili ma gli esami scientifici qualche volta non bastano. Le prove devono sempre confortare le teorie, ma ci sono situazioni che sfuggono completamente alla possibilità di essere comprese con sicurezza e sono questi i casi in cui si può condire le ipotetiche verità con sprazzi di fantasia, che devono sempre rientrare nella logica richiesta dal contesto.

Del resto è  proprio nella nostra natura di sognatori creare ed elaborare realtà “altre”. Non dobbiamo dimenticare che la dote che ci distingue fra i primati è il pensiero simbolico, la capacità cioè di rappresentare la realtà attraverso immagini create da noi stessi, di pensare mondi diversi dal nostro quotidiano, di capirli e condividerli attraverso un linguaggio capace di creare simboli, di trasmettere idee e insomma ragionare in termini ipotetici.

Il tempo come rifugio può, però, diventare una trappola mentale. Come si può valutare, capire il significato dell’espressione “milioni di anni”?

La nostra civiltà ne ha più o meno 5 o 6mila. Iniziando a contare il tempo dalle grandi civiltà protostoriche e storiche (Età del Bronzo, Età del Ferro, Sumeri, Egizi), forse sono abbastanza chiari solo gli ultimi duemila anni. Il tempo della nostra civiltà si potrebbe paragonare a un battito di ciglia, un sospiro sarebbe già un periodo sterminato. Andiamo allora a guardare nel profondo dell’abisso, tuffandoci in apnea nel passato servendoci del filo conduttore dell’evoluzione per non perdere la logica e la concatenazione degli eventi. Noi siamo gli ultimi, i Sapiens, gli uomini moderni, guardando indietro troviamo il Neanderthal, siamo entrambi derivati dall’Homo Heidelbergensis. Prima ancora è il tempo dell’Homo Ergaster (uomo che lavora) o Erectus, suo nonno era Homo Habilis e i primi in fondo al filo dell’ominazione sono gli australopiteci. Qui la mente si perde nel tempo…

Sul filo della discesa i cartellini riportano anziché i metri dalla superficie, gli anni in cui iniziano le tappe dell’evoluzione che ci riguarda. Il primo segna la cifra di 200mila anni fa, indica appunto i primi passi dell’avventura di noi Sapiens, l’ultimo modello del genere umano. Siamo ormai sicuri delle nostre capacità, diventiamo avventurieri, conquistatori incontenibili. Partiamo dall’Africa 60mila anni fa e in poco tempo, 20-10mila anni, ci impadroniamo dell’intero globo e ora stiamo studiando il modo di arrivare su altri mondi. Scendiamo ancora, siamo sui 350-300 mila anni fa, troviamo l’Uomo di Neanderthal, che si muove spaziando su una vastissima area che va dal Mediterraneo alla Siberia al Medio Oriente, il peiodo migliore della sua cultura è il musteriano nel Paleolitico Medio, intorno ai 140mila anni fa. 100mila anni dopo scompare, si estingue. A oggi non sono stati più trovati suoi fossili. Andiamo ancora più in profondità, ora troviamo il cartellino che indica 550mila anni fa, è il tempo di Homo Heidelbergensis, l’antenato che in Europa diventerà Uomo di Neanderthal e in Africa darà origine ai Sapiens. Dobbiamo andare ancora indietro e parleremo di milioni di anni. Ci viene incontro l’ominide che già 1,6 milioni di anni fa era molto simile a noi con una capacità cranica di 700-800 cm cubici, destinati ad arrivare fino a 1225, è ritenuto un nostro antenato certo: è l’Homo Ergaster.

La sua esistenza durerà più di un milione di anni, ha raggiunto uno sviluppo evolutivo ormai molto avanzato, che lo porta ad affrontare spazi sconosciuti al di fuori del suo piccolo territorio, infatti esce dall’Africa e si espande. In Cina diventerà Sinantropo, in Indonesia Pitecantropo, in Nord Africa Atlantropo…

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Duos Nuraghes di Borore

Tra il 1985 ed il 1998, l’archeologo Gary S. Webster, coadiuvato dalla moglie Maud, condusse nove stagioni di scavo sull’altopiano basaltico di Abbasanta, su “Duos Nuraghes”, presso Bòrore, in provincia di Nuoro. Aveva prima ottenuto il finanziamento congiunto della “National Geographic Society” e del “Sardinia Program” della Pennsylvania State University, oltre alla necessaria autorizzazione a procedere agli scavi del Ministero dei Beni Culturali di Roma (che gli affiancò P. Uras come delegato rappresentante). Gary Webster è uno dei principali interlocutori con i lettori di lingua inglese di archeologia sarda, per le sue numerose pubblicazioni e la sua familiarità con l’Italiano. Lo scavo é certamente uno dei primissimi effettuati con metodo rigoroso, da un archeologo che sapesse condurre un razionale lavoro di recupero di tutti gli elementi e reperti utili a formulare una datazione (stratigrafia, ceramiche, ossidiane, C14 sui resti biologici, flottazione). Lo scavo fu un’utilissima scuola e un prezioso esempio per quelli che assistettero e per i successivi scavi sardi. Altrettanto certamente, però, si devono poi sapere trarre le giuste conclusioni logiche dal proprio lavoro: e in questo, Webster – pur essendo un convinto fautore della cosiddetta “archeologia interpretativa” è in fondo un po’ venuto meno…

La scelta del sito

Webster giustifica la propria attenzione su un nuraghe di piccola taglia con la necessità di “mettere a fuoco una verità nuragica più quotidiana”, meno elitaria di quella espressa dai rari nuraghi giganteschi, o dalla piccola percentuale (non più di 20-30%) di quelli complessi di media taglia, che secondo lui non sarebbero altrettanto rappresentativi della realtà, anche se indubbiamente colpiscono maggiormente la fantasia.

[Già qui sembra di intravedere il concetto di “nuraghe medio”, o “nuraghe tipico”, che piace ancora a molti operatori nel campo. È da considerarsi senza dubbio un’idea ipersemplificazione]

Le fondamenta della Torre A sarebbero composte da enormi conci grezzi e irregolari, che giacerebbero direttamente sull’originale strato basaltico (a suo tempo messo a nudo dall’operazione di “stripping”) e quindi costituirebbero già uno strato artificiale, coevo a quelli che Webster interpretò come i primi e più antichi sedimenti rinvenuti nello scavo. E qui, sorge un primo problema/obiezione. È un fatto fastidioso anche per Webster, come si vedrà: una volta che si fosse raggiunto il solidissimo strato basaltico, già di per sé fondazione perfetta, quale motivo statico/strutturale/costruttivo avrebbe giustificato la sovrapposizione di un ulteriore strato di pietroni irregolari e non lavorati? Sorge il dubbio che lo strato interpretato dall’Autore come “fondazione” non lo sia davvero, bensì possa essere, forse, un esito di crollo, o anche un’aggiunta posteriore dovuta a riuso del sito.

I motivi di un’ipotesi irrispettosa

Se, per ipotesi, la “vera” fondazione originaria fosse invece proprio quello strato che fu a suo tempo esposto per decorticazione dai Costruttori, allora lo scavo di Webster non lo avrebbe raggiunto e la sua stratigrafia non prenderebbe in considerazione lo strato più antico del nuraghe stesso. Se ciò fosse vero, allora la datazione stratigrafica inizierebbe da uno strato che non è affatto il più antico, bensì è più superficiale ad esso e quindi più recente. Anche gli indicatori ceramici subirebbero la stessa sorte. L’insieme produrrebbe risultati finali non corretti.
Ma anche Webster deve avere preso in considerazione questo problema: egli ritiene di averlo risolto adducendo la possibilità che “l’edificazione nuragica sia avvenuta sopra un sito precedente”, del quale i Costruttori non avrebbero cancellato completamente le tracce.
A proposito di indicatori ceramici, Webster cita anche un frammento di vaso riferibile per aspetto all’Eneolitico e allo stile di Monte Claro. Alla fine, però, l’autore suggerisce di non prenderlo in considerazione ai fini della datazione, in quanto sarebbe un reperto “fuori posto”: la sua presenza sarebbe dovuta solo a vari rimaneggiamenti che il luogo ha subito nel corso del tempo

…Sembra quasi che ogni ragionamento debba compiacere un’ipotesi già formulata in precedenza: se non lo fa, non va tenuto in considerazione…

Questo articolo può apparire una critica ingenerosa all’operato di Webster.
In realtà, obiezioni, dubbi e quesiti, più che alla critica verso di lui, sono volti a corroborare un’affermazione che ci sembra doverosa.
Quello che si intende mettere a fuoco è la vera novità che riguarda la datazione. Seppure Webster abbia tentato di contenersi prudentemente entro i limiti del foglio protocollo imposto dall’Establishment Accademico (1500 a.C.), purtroppo uscì egualmente un poco dai margini: appena 380 anni. E così, alla fine, la datazione scientifica ufficiale che egli propose si è meritata la condanna alla non credibilità come eretica e sbagliata: eccedeva ufficialmente i limiti di antichità imposti de jure.

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[Recensione] Grandi Statue Sarde

Il fenomeno Orientalizzante nel cuore del Mediterraneo

Se si parte da premesse sbagliate, è quasi certo che non si raggiungeranno conclusioni corrette.

Così, quando si parla delle statue di Monti Prama, persino la prima definizione di “giganti” – dovuta al Lilliu, che le definì “kolossoi” – s’inizia già con il piede sbagliato. Perché mai ricorrere alla cultura greca e alla sua lingua estranea, per descrivere qualche cosa di prepotentemente sardo, così profondamente differente da ogni altra cosa greca?

E così, l’Autore propone piuttosto un altro nome, per lui più appropriato: quello di Grandi Statue Sarde. Esse sono di poco più grandi del vero, non gigantesche; sono statue a tutti gli effetti, indiscutibilmente sarde e sono “volumetriche”, cioè scolpite a tutto tondo; infine, sono senz’altro statue molto originali. Amare qualche cosa significa vincolarsi a rappresentarlo esattamente per ciò che è: con i pregi per cui si ama e con i difetti malgrado i quali si ama. Il libro, breve e chiaro, di agevole lettura, si attiene a questo principio di base.

Le statue non sono così antiche come qualcuno preferirebbe credere. Ci sono anzi chiare prove storiche, ben note all’archeologia internazionale, del fatto che – tra le statue prodotte dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo – le Grandi Statue Sarde figurano solo nel gruppo meno antico.

Il “monte delle palme” – Monti Prama, come lo chiamano i locali – non è un monte, bensì un dolce rilievo collinare: e se oggi ospita numerosi cespi spontanei di Palma Nana (Chamaerops Humilis, Palma di San Pietro), nulla ci assicura che anche nell’antichità fosse così.

Ecco: il libro procede prudentemente, elencando i dettagli con dati di fatto alla mano, senza condimenti di favole, né aggiunta di miti infondati, esaminando da vicino le prove materiali e formulando solo le più probabili e verosimili tra le ipotesi, sfrondando l’argomento di tutte le invenzioni.
Quello che resta è la realtà nuda, quella incontrovertibile, forse anche imbarazzante per alcuni, ma altrettanto stupefacente quanto tutte le multicolori falsità che nel tempo si sono andate inventando su queste antiche statue, su chi le scolpì, su quando e perché furono fatte…

Si ricorda appena di passaggio, in un’immagine, come il mito della Caverna di Platone da migliaia d’anni ci ammonisca su quanto sia facile cadere nell’errore: l’ombra, proiettata ingigantita sulla parete della caverna, sembra reale; e in fondo è reale, pur non costituendo affatto mai la realtà per intero! La Verità intera è data solamente dall’oggetto tridimensionale, la cui ombra si proietta sulla parete della caverna…

Alla fine della lettura di questo breve testo, corredato da un centinaio d’immagini, il Lettore otterrà un’idea piuttosto precisa e chiara dei grandi eventi storici che si verificarono nel Mediterraneo, cambiandolo per sempre e trasformandolo in un grandioso crogiolo culturale, regalandoci infine – insieme a numerosissimi doni – anche queste preziosissime Grandi Statue Sarde. Per quanto sembrino logore e frammentate, esse sono rivelatrici di un periodo della
storia sarda che è spesso stato colpevolmente sottovalutato, se non addirittura completamente frainteso. Esse ci aprono una comoda finestra sulla Verità di una Sardegna in cui le élite economiche del Sinis espressero appieno la propria orgogliosa ricchezza familiare anche nei sepolcri monumentali.

Una realtà sorprendente, che molti Sardi ancora neppure sospettano e che certamente non può (e non deve!) definirsi “nuragica”, come invece ancora molti oggi s’ostinano a fare.

Giacobbe Manca

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