Un’osservazione filmica della tradizione sarda nella Notte dei Morti di Ignazio Figus
“La notte del 2 novembre si mangiano di prammatica “sos macarrones de sos mortos” (i maccheroni dei morti).
Prima di porsi a letto le famiglie preparano sulle mense un gran piatto di questi maccheroni, che sono destinati ai defunti parenti. Le anime entrano alla mezzanotte nelle case, girano intorno alle mense imbandite, e se ne partono quindi saziate dal solo odore delle vivande.
Se invece non si prepara alcun piatto, i morti se ne vanno via sospirando…” .
Questo scriveva nel 1834 il poeta, giornalista e folklorista,Giuseppe Calvia Sechi nella Rivista delle tradizioni popolari a proposito delle usanze familiari logudoresi in occasione della commemorazione dei defunti.
Nelle note relative a questa descrizione lo studioso ci informa che: “È un ricordo evidente del culto dei morti in Grecia e in Roma…” e ancora “Pare di assistere alla scena di Tiresia e delle anime vaganti attorno al fosso scavato da Ulisse, e descritto da Omero nell’XI dell’Odissea…”
Questa relazione vivi – morti evidenziata dal Calvia, sembra dunque sottolineare una ricerca di risposte a interrogativi eterni che riguardano la vita e la morte e il nostro rapporto con esse.
I defunti, in qualche modo, non sono separati dalla comunità, ma continuano a farne parte ed è necessario sfamarli, oltre che imparare ad ascoltarli traendo insegnamenti per il prosieguo della nostra vita.
Il culto dei morti è un elemento centrale nella cultura popolare della Sardegna. Rappresenta indubbiamente uno dei temi classici dell’antropologia e trova nell’Isola (e nel meridione d’Italia) espressioni ancora vitali e analizzabili…
Sa Chida de Perfugas è un film-documentario girato nel 2015 a Perfugas, nella regione storica dell’Anglona. Il film, con la guida ideale di Nicolino, prima boghe del coro dei Cunfrades, descrive e racconta con meticolosità le sei giornate che precedono la Domenica di Pasqua: Sa Chida Santa.
Il montaggio del documentario rispetta la cronologia degli eventi proponendoci dei “quadri” che vanno dalle prove di canto del coro dei Cunfrades alla panificazione nella frazione di Lumbaldu e all’allestimento dei sepulcros ad opera delle donne di Perfugas, per arrivare alle giornate del Giovedì e Venerdì Santo con i riti paraliturgici de s’Incravamentu (crocefissione) e de s’Iscravamentu (deposizione); del Sabato Santo, con la vestizione della statua della Madonna e, infine, del giorno di Pasqua con il rito de s’Incontru.
Questa è dunque la scansione degli accadimenti descritti, ma i due giovani autori – l’antropologo Giovanni P. Deperu e il cineasta Giampaolo Buiaroni – con il loro lavoro sono andati ben al di là della semplice registrazione degli eventi, realizzando un’opera che dà sostanza all’ormai proverbiale frase: un anziano che muore è una biblioteca che brucia, pronunciata da Hamadou Hampaté Bâ, narratore del Mali, per spiegare con efficace semplicità il ruolo di trasmettitori di saggezza e conoscenza rivestito dagli anziani nella cultura africana.
Un concetto, questo, ripreso qualche anno fa anche in Sardegna, quando da più parti appariva ormai indifferibile attuare una massiccia campagna di riprese cinematografiche e registrazioni sonore, col fine di preservare la memoria e l’esperienza degli anziani, custodi di saperi connessi con la cultura materiale e immateriale.
Guardando Sa Chida de Perfugas si ha la chiara percezione che quella indicazione abbia guidato il lavoro degli autori. La narrazione, affidata ad alcuni dei detentori della memoria storica del paese, è una chiara scelta che va proprio in questa direzione e riconosce l’urgenza antropologica di salvaguardare la testimonianza dei luoghi, delle persone, della lingua e degli eventi, che in qualche modo rappresentano la struttura portante dell’intera comunità.
Giovanni P. Deperu e Giampaolo Buiaroni hanno dunque realizzato, consegnandolo al paese e alla comunità scientifica, un documento che rappresenta un importante tassello nel difficile cammino verso la corretta, non mistificata, riscrittura della storia delle nostre piccole, grandi comunità.
La testimonianza, nella lingua propria di Perfugas: il sardo logudorese e il gallurese, è resa dai soggetti che nel film si raccontano e si fanno carico, in prima persona, di quanto affermano.
Questo lavoro dichiara in modo evidente l’interazione tra il cineasta/antropologo e i soggetti filmati. Nessuna voce fuori campo (quella che con una felice intuizione è stata definita la “voce di Dio”), che avochi a sé la pretesa di descrivere ciò che già così bene le immagini raccontano; né si riscontra in questo documentario un’osservazione filmica “distaccata” con l’approccio, per capirci, dell’entomologo che studia i suoi insetti.
Tutto ciò testimonia come gli autori abbiano ben metabolizzato i dettami della moderna antropologia visuale che, andando oltre un cinema di semplice osservazione, propone un cinema di partecipazione, dove il regista/etnologo, egli stesso, si mette in gioco in stretta relazione con gli attori sociali, realizzando un “incontro” capace di attivare fruttuose connessioni tra filmmaker e protagonisti.
Attraverso queste modalità realizzative Sa Chida de Perfugas diviene un film costruito con la partecipa- zione attiva dei suoi soggetti, i quali non si limitano a offrire la propria testimonianza ma danno precise indicazioni ai cineasti circa la correttezza delle loro scelte.
Se è vero, in questo senso, che il lavoro di Deperu e Buiaroni è stato in qualche modo facilitato dall’essere essi stessi parte della comunità e dunque intimamente coinvolti negli eventi raccontati, è anche vero che questo “incontro” tra cineasta e attori sociali – di là dagli stimoli suscitati dal regista o dagli elementi del contesto, che possono essere “organizzati” e “controllati” – introduce molteplici e interessanti variabili.
Tra queste sono comprese anche quelle forme di auto-rappresentazione delle persone filmate, che in qualche modo enfatizzano o comunque sottolineano parti del proprio discorso indirizzandole alla comunità senza intermediazioni, superando quindi la relazione diretta con il cineasta.
Ciò si riscontra, benché in forma episodica, per esempio, nella sequenza dedicata alla realizzazione dei sepulcros, quando le due donne intervistate rimproverano bonariamente le ragazze d’oggi, particolarmente smaliziate – a loro dire – e così facendo sembrano voler bypassare l’intervistatore per rivolgersi direttamente alle giovani del paese.
Nei momenti liturgici la camera si muove con discrezione, spesso sembra quasi “nascondersi” dietro l’angolo, rispettosa dell’altrui raccoglimento. La fotografia è curata e sempre sorvegliata e mai tende alla spettacolarizzazione degli eventi che per la loro connaturata teatralità sono già “spettacolari” di per sé.
E non si può tacere dell’ottimo lavoro svolto dal fonico Luca Panciroli che, raccogliendo in presa diretta il canto sacro, crea in modo esemplare un’atmosfera di riflessione e preghiera. Apparentemente semplice, il montaggio del film è, in realtà, piuttosto elaborato e riesce a incrociare sapientemente la complessa liturgia della settimana santa con racconti di episodi, mai insignificanti o banali, che arricchiscono la trama narrativa, rendendo la visione ancor più piacevole e in alcuni casi persino divertente.
Il controllo della narrazione è sempre ben saldo e, nella sua complessa orditura, non perde mai di vista la giusta centralità della confraternita che, in fondo, è l’attiva depositaria della continuità della tradizione.
Senza il loro grande impegno sarebbe tutto certamente più povero e complicato.
Un film intellettualmente onesto, dunque, ben lontano da stereotipi cultural/turistici, che rappresenta un dono che gli autori Deperu e Buiaroni hanno voluto fare a Perfugas e a se stessi, in quanto parte di quella comunità. Un dono ben prezioso, di cultura, memoria e, in qualche misura, di speranza per il futuro del paese e della cultura etnologica isolana.
Sa Chida de Perfugas: Vedi il documentario completo
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