Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu
Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?
Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.
Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.
E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…
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