N.64

Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu

Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?

Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.

Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.

E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…

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La scarnificazione rituale

Dopo il dolore e lo sgomento causato dalla morte di una persona cara alla comunità, restava l’ingombrante necessità di “disfarsi delle spoglie”.
Da sempre l’umanità ha concepito modi e riti per esorcizzare quell’incompreso momento di passaggio tra la vita e le conseguenze della morte – certo per effetto di una tremenda (ancorché ineludibile) magia negativa.
Infinite sono, infatti, le testimonianze che tramandano, con chiara e spesso drammatica crudezza, le diversissime attenzioni al mondo del soprannaturale e al divino. Non solo erano pratiche diffuse ma esse sicuramente permeavano anche tutti gli aspetti della spiritualità, per cui la vita e la morte erano parte del quotidiano.
Anche la nostra Isola, come si osserva nell’ampio mondo mediterraneo che l’attornia, è disseminata di testimonianze archeologiche che rimandano a quel comune mondo magico-rituale. Pensiamo, per esempio, a quelle lastre istoriate – stele, menhir – unitamente alle superfici naturali prossime ai luoghi di culto, che almeno dal neolitico trasmettono misteriosi e pertanto affascinanti petroglifi, coppelle, concavità dette “preghiere”, cerchi, bastoncelli, schematizzazioni di vulve ecc., portatori di messaggi religiosi, cultuali ed escatologici.

Queste testimonianze antichissime di una visione del mondo ultraterreno, sono presenti in moltissimi monumenti funerari a testimoniare che la morte era considerata un aspetto della vita e viceversa. Alcuni monumenti sepolcrali antichi come domos de janas e le successive tombe di giganti sono, per loro struttura, inadatti a ricevere salme se le stesse non abbiano prima subito un precedente trattamento, che ne asporti le carni e lasci la semplice struttura ossea.
Gli inconvenienti della decomposizione, tutt’altro che trascurabili se non fosse stata esorcizzata con precedenti pratiche, nei monumenti detti, ne rendevano impossibile il seppellimento diretto.
Era quindi logico pensare che le necessità pratiche, informate da contenuti religiosi, filosofici ed escatologici, esprimessero pratiche rituali tese alla scarnificazione dei corpi con diverse metodiche: dall’esposizione agli agenti atmosferici o all’auspicato intervento di animali necrofagi che provvedessero a ripulire le ossa. Ciò avrebbe consentito l’utilizzo delle strutture preposte, appunto, alla cosiddetta deposizione secondaria, che si sostanziava in una raccolta delle sole ossa, dalle quali si possono talvolta ricevere importanti informazioni antropologiche.
Per esempio si può addurre l’esito dello scavo archeologico effettuato dalla dottoressa A. Foschi Nieddu, che nel 1974 ricevette l’incarico di studiare i reperti provenienti dalla tomba I di Filigosa presso Macomer. Oltre numerosi reperti fittili attribuiti alla cultura eneolitica proprio in questa tomba individuata e denominata Filigosa, dallo scavo provenivano, appunto, una gran quantità di ossa umane, che erano state esaminate dall’anatomo-patologo Franco Germanà.

Egli, da un’analisi preliminare osservava che una parte di queste ossa era combusta sino al midollo, mentre in altre aveva notato tracce di scarnificazione, segnalate dalle profonde scalfitture restate sulla loro superficie. Alla luce di tale autorevole parere, si potrebbero azzardare diverse conclusioni.
In primo luogo, si può osservare che i metodi di scarnificazione utilizzati erano almeno due: il fuoco e l’esposizione dei cadaveri all’azione di uccelli e animali necrofagi. Infatti, le profonde scalfitture osservate escludono l’intervento umano, secondo l’esperto parere di F. Germanà.
Lo stesso monumento suggerisce rispetto e attenzione a questi riti. Infatti nella cella A sono presenti un letto funebre e il focolare. Se ne può quindi dedurre che un’eventuale operazione di scarnificazione non sarebbe mai stata affidata a mani così maldestre da produrre le “scalfitture” improprie.
Il territorio dove è ubicata la tomba si presta facilmente ad attuare dei trattamenti sui cadaveri per opera di grifoni, corvi, falchi e altri animali necrofagi. Ci troviamo infatti ai piedi delle ultime propaggini della catena del Marghine dove le numerose balze basaltiche costituiscono l’habitat naturale di diverse specie di uccelli rapaci. Una roccia che sovrasta l’abitato di Birori è detta “Sa Rocca de Niu Corbu”: la roccia del nido del corvo.

A questo proposito è utile citare il particolare sito di Carraxioni, sulla montagna di Aritzo dove, davanti alla tomba di giganti omonima, a una sufficiente distanza è stata collocata ad arte una grande lastra, su un affioramento roccioso, che segna il crinale del luogo. Un distinto gradone mette ancor più in rilievo la lastra e va chiaramente incontro all’esigenza di favorire il decollo dei grandi rapaci, anche se appesantiti.

La ricerca di queste rare ma importantissime emergenze, ha dato risultati molto interessanti: alcuni di questi siti sono stati segnati in modo chiaro e indelebile da coppelle, coppelline, cerchi concentrici, e motivi angolari diversi, come chevron contrapposti a formare dei rombi: simboli analoghi in numerosi altri contesti non necessariamente legati ad ambienti funerari. Non deve stupire che i petroglifi, nella loro grande varietà, fossero considerati simboli di fertilità e rigenerazione e quindi logicamente presenti anche in momenti di vita: di fatto dimostrano che la morte fosse uno degli aspetti inscindibili dalla vita.
Uno di questi luoghi, che riassume forse tutte le caratteristiche opportune per la scarnificazione dei cadaveri, si trova all’interno di un’emergenza rocciosa in località Lottoniddo (Dorgali), nella vallata di Isalle: nella roccia è stata realizzata una cavità – forse sfruttando precedenti vuoti naturali – cavata e acconciata al modo di una camera di domo de janas, accomodata nelle pareti laterali alla maniera delle grotticelle artificiali neolitiche. Il pavimento granitico superstite è ricoperto dai citati segni cultuali.

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Tre Edifici nel Campidano

Su Nuraxi di Samatzai

In una foto dal drone che ne reclamizzò l’esistenza, il Su Nuraxi di Samatzai appariva come un edificio esteso e molto articolato composto dalla torretta centrale e da una coorte poco chiara di passaggi e torrette, alcune distinte e altre confuse tra le rovine ubiquitarie: dunque non esattamente enumerabili nella disposizione attorno alla prima.
Le linee vaghe lasciavano dubbi che potesse trattarsi di un pentalobo o, addirittura, un esalobo.
Urgeva una visita al sito. All’osservazione sul luogo, si distinguono bene le basi di quattro torrette poste a rombo attorno alla più antica, il cui ingresso si affaccia a Sud su un piccolo cortile interno, ora assai interrato per almeno m 1,50, i cui muri e le torri affiancate sono uniformemente smantellate all’altezza detta: in altre parole fin quasi ai filari di base.
Nulla si può dire su come fossero disposte le vie di transitabilità interna, che di norma convergono in ampia parte al cortile posto davanti all’accesso della torre centrale…

Su Sonadori di Villasor: un “simil-esalobo”

Dagli anni ’70, cioè “un pugno” di lustri dallo scavo di Su Nuraxi di Barumini, si vagheggiava nei corridoi dell’esistenza di un segretissimo esalobo.
In concreto però non è mai stato pubblicato da nessuno un nuraghe così edificato. Pentalobi, invece, se ne conoscono tre: oltre all’Arrubiu, Pitzu Cummu di Lunamatrona e Cobulas di Milis.
Qualche tempo fa, in Internet qualcuno cominciò a diffondere immagini di alcuni edifici assai complessi e persino fascinosi, specie se le foto erano prese dall’insolito punto di vista zenitale. I colori pastello sono galeotti… e con l’elettronica chissà quanto ancora si potranno imbellettare… i nuraghe, ma talvolta gli edifici sono difficilmente interpretabili nella reale complessità architettonica. Sono immagini da cui non si estrapolano contenuti scientifici.
Il reclamizzato “complesso” Su Sonadori di Villasor, per esempio, in bella evidenza e poca vegetazione, appare appunto come un esalobo fin troppo simmetrico: sei edifici circolari appaiono disposti, con regolarità ipnotica, attorno a una torretta piccola e semplice.
Diviene imperativo andare a vedere e analizzare questa rarità ben composta, semplicemente per “toccare con mano” ogni cosa, con i piedi per terra: vederne le tecniche costruttive e le concrete dimensioni…

Nuraghe Ui, Casteddu de Fanari e una “fase” misteriosa

E’ necessario partire da alcune delle tombe di giganti che mostrano particolari costruttivi che rimandano a strutture proprie di altrettanti nuraghe.
Raramente si trovano analoghe tecniche costruttive nelle tombe di giganti e nei nuraghe, ma talvolta capita. La distinzione fra le tecniche applicate nei suddetti monumenti non è netta.
Osserviamo ora una realtà stratigrafica esistente in entrambe le tombe n. 2 e 3 di Gremanu/Madau (Fonni). Per brevità osserviamo la parte basale di camera nella tomba 3, che è fatta di piccoli conci o lastrine. La parte sovrastante è resa con tecniche e materiali completamente diversi, così che a prima vista domina estesamente la fase meno antica, nella quale si evidenzia un muro realizzato con grandi lastre poste ortostate o di coltello, anche spesse. Specialmente le pareti esterne si configurano come un placcaggio raffinato, disposto sia attorno alla camera, sia davanti e dietro all’esedra.
L’evidente diversità delle parti basali nella tomba 3 e di tutto l’interno della tomba 2, costituite da lastrine e piccoli conci dalla sagoma inconfondibile, garantisce la specificità sia dell’una, sia dell’altra tomba.

Questa sovrapposizione tecnico-costruttiva, che rimanda alla medesima cronologia relativa, si ritrova singolarmente nel nuraghe Ui di Chiaramonti.
L’edificio è ampiamente smantellato e spogliato da non poterne ricavare la planimetria, né la consistenza del complesso. Solo infilando la testa in un’apertura ampia quanto le spalle, creatasi nel lato SSE, per l’asportazione di grossi blocchi basaltici che paiono comporre il tutto, s’intravede una camera ampia, composta da un alto anello basale organico di circa due metri, edificato con piccoli conci o lastrine di una pietra chiara che, vista a distanza pare essere una sorta di calcarenite. Sull’anello basale il muro s’innalza con conci di basalto, di buona dimensione e ben composti. In sostanza, in questo nuraghe si osserva la stessa successione stratigrafica muraria che si può osservare nelle citate t.d.g. di Fonni; l’identità stratigrafica in particolare è con la tomba n. 3, la cui camera antica a piccole lastre calcaree appare regolare come nel nuraghe Ui.

Un ulteriore, inaspettato esempio di parallelismo tecnico col nuraghe Ui di Chiaramonti e quindi con le due tombe di giganti di Madau, si trova in un’ampia camera del nuraghe complesso esistente all’interno del recinto turrito detto Su Casteddu de Fanari – a confine dei territori comunali di Decimoputzu e Vallermosa, posto a coronare una collina miocenica mammellonare ai cui piedi passava un’antica via dei metalli, tra l’Iglesiente e la città di Cagliari…

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