Giacobbe Manca

La fase nuragica misteriosa

Tra il nuraghe Ui e le tombe di giganti di Madau

La torre secondaria del nuraghe Ui

Sono giunte in redazione le fotografie di una strana stanza di nuraghe, mai studiato, ancora sorprendentemente integra sotto l’insensata ed estesa rovina cui fu ridotto il nuraghe Ui di Chiaramonti. Il nuraghe non è mai stato preso in seria considerazione per uno studio o uno scavo da parte degli enti preposti.
A ovest dei resti del monumento, anche qui ridotto a rovina, alcune case coloniche estranee al nuraghe presidiano un verde podere posto nella valle. Assai verosimilmente le case furono edificate a detrimento del vicino nuraghe Ui, la cui planimetria, pur rivelando un edificio complesso, rimane al momento incomprensibile anche per l’intrico della vegetazione e per il degrado ubiquitario. Al colmo del rilievo s’individua la stanza inferiore della torre centrale, beante perché svettata nel terzo superiore, e attorno si vedono indizi di altre torrette svettate, diversamente disposte: tre sono certe; resta il dubbio che le altre ipotizzabili possano essere capanne dell’Età del ferro.
Alcune strutture sono tangenti alla torre antica e di esse almeno due sono staccate dal complesso: son poste a ridosso dell’ampio cortile antistante, cioè a Sud, dove convergono tutti gli ingressi dei vari ambienti, le cui aperture sono ora affossate per l’interramento assai consistente. La rovina è talmente fitta che al primo sguardo, nessuno direbbe che sott o quel cumulo si trovi ancora un vano intero.

I contadini qui stanziati dovettero notare che sotto quei blocchi sconnessi era nascosta una qualche cavità. Si aprì un’apertura che permise di affacciarsi ai paramenti interni di una camera di aspetto singolare. L’idea fissa di un tesoro, dovette accendere la frenesia con l’effetto di fare rimuovere altri blocchi, fino a determinare una brutta e ampia breccia nella quale un uomo riesce a entrare. Dalla base del foro c’è una caduta di circa un metro e mezzo per posare i piedi sul suolo della camera, quindi entrare nella camera richiede una scala adeguata.
Da come appare oggi la stanza, ripiena di terra e residui organici, non si hanno dubbi sul fatto che nessun tesoro fu rinvenuto ma, in cambio di ciò i vicini contadini acquistarono una stia bell’e pronta. Quest’uso “moderno” e imprevisto del nuraghe ha consentito che alcuni appassionati cultori di archeologia preistorica isolana, capitati lì per caso, dessero notizia del vano in questione, che appare realizzato con tecniche costruttive difformi dalle quelle più ricorrenti e note. Una delle singolarità di questa torretta è la consistenza del muro basale, che si può vedere solo dall’interno per uno sviluppo verticale di due metri, emergente sul pavimento attuale: verosimilmente prosegue immutato fino alla base antica della camera. Esso è realizzato in pietre trachitiche, relativamente piccole, in confronto con i blocchi del resto delle strutture in rovina, ma in specie rispetto alla copertura ogivale, che si configura come una sorta di scudo litico concavo e molto ribassato, anziché ogivale “al modo nuragico”.
Il muro è fatto a piccole pietre, compattate da un aggregante tenacissimo, che pare posto non a consolidare, quanto a riempire le fessure fra i blocchi. Tale impasto terragno e argilloso, annerito da residui carboniosi, pare indurito fortemente per l’esposizione a una temperatura molto elevata, che determinato l’arrossamento antico delle pietre del muro. Una teoria di lastrine uniforma la parte alta del muro, livellandolo all’altezza di circa due metri dal suolo attuale. Questo espediente servì, verosimilmente, per preparare un piano di posa omogeneo, in funzione della realizzazione della “nuova” copertura, che è certamente diversa da quella delle origini. Questa preparazione è necessariamente successiva a una demolizione, le cui cause naturalmente sfuggono. La volta aggiunta è del tutto singolare, sia per la dimensione dei blocchi utilizzati, che sono di dura trachite rossa prossima al basalto, sia per le dimensioni dei conci di forma irregolarmente conica, dalle dimensioni ben maggiori rispetto ai blocchetti utilizzati nell’anello basale, sia per il profilo della nuova copertura, fortemente ribassata e dunque dal fortissimo aggetto e direi proprio insolita negli edifici nuragici.

Le t.d.g. nn. 2 e 3 della necropoli di Madau – Fonni

Ancorché superstiti dalle demenziali a dir poco, integrazioni al cemento, hanno tratti in cui si osservano delle sovrapposizioni costruttive rapportabili a quelle del nuraghe Ui di Chiaramonti. Prendiamo la tomba 3 quale esempio meglio calzante con la torretta del nuraghe Ui. Nella sua camera, alla base è venuto in luce l’esito di una precedente tdg edificata con piccole lastre, che fu abbandonata in una fase a noi sconosciuta e, quindi, smantellata per ricostruirla con una tecnica completamente diversa.
La tecnica sovrapposta mostra grandi placche granitiche interne ed esterne alla camera, nell’esedra e nel corpo. Le grosse lastre hanno la “faccia ben bocciardata, ma anche anche le superfici di posa e affianca mento accuratamente preparate. Esse realizzano una tomba di giganti ben più monumentale rispetto alle precedenti, e l’imparentamento con le fasi costrutti ve della confinante tomba 2 è evidente. Entrambe le tombe appartengono a una fase molto evoluta fra le t.d.g. nuragiche e paiono precedere di qualche secolo la tecnica ben più raffi nata che osserviamo nelle successive, splendide tombe di Biristeddi, la cui raffinata esecuzione è esaltata dall’uso del basalto…

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Tre Edifici nel Campidano

Su Nuraxi di Samatzai

In una foto dal drone che ne reclamizzò l’esistenza, il Su Nuraxi di Samatzai appariva come un edificio esteso e molto articolato composto dalla torretta centrale e da una coorte poco chiara di passaggi e torrette, alcune distinte e altre confuse tra le rovine ubiquitarie: dunque non esattamente enumerabili nella disposizione attorno alla prima.
Le linee vaghe lasciavano dubbi che potesse trattarsi di un pentalobo o, addirittura, un esalobo.
Urgeva una visita al sito. All’osservazione sul luogo, si distinguono bene le basi di quattro torrette poste a rombo attorno alla più antica, il cui ingresso si affaccia a Sud su un piccolo cortile interno, ora assai interrato per almeno m 1,50, i cui muri e le torri affiancate sono uniformemente smantellate all’altezza detta: in altre parole fin quasi ai filari di base.
Nulla si può dire su come fossero disposte le vie di transitabilità interna, che di norma convergono in ampia parte al cortile posto davanti all’accesso della torre centrale…

Su Sonadori di Villasor: un “simil-esalobo”

Dagli anni ’70, cioè “un pugno” di lustri dallo scavo di Su Nuraxi di Barumini, si vagheggiava nei corridoi dell’esistenza di un segretissimo esalobo.
In concreto però non è mai stato pubblicato da nessuno un nuraghe così edificato. Pentalobi, invece, se ne conoscono tre: oltre all’Arrubiu, Pitzu Cummu di Lunamatrona e Cobulas di Milis.
Qualche tempo fa, in Internet qualcuno cominciò a diffondere immagini di alcuni edifici assai complessi e persino fascinosi, specie se le foto erano prese dall’insolito punto di vista zenitale. I colori pastello sono galeotti… e con l’elettronica chissà quanto ancora si potranno imbellettare… i nuraghe, ma talvolta gli edifici sono difficilmente interpretabili nella reale complessità architettonica. Sono immagini da cui non si estrapolano contenuti scientifici.
Il reclamizzato “complesso” Su Sonadori di Villasor, per esempio, in bella evidenza e poca vegetazione, appare appunto come un esalobo fin troppo simmetrico: sei edifici circolari appaiono disposti, con regolarità ipnotica, attorno a una torretta piccola e semplice.
Diviene imperativo andare a vedere e analizzare questa rarità ben composta, semplicemente per “toccare con mano” ogni cosa, con i piedi per terra: vederne le tecniche costruttive e le concrete dimensioni…

Nuraghe Ui, Casteddu de Fanari e una “fase” misteriosa

E’ necessario partire da alcune delle tombe di giganti che mostrano particolari costruttivi che rimandano a strutture proprie di altrettanti nuraghe.
Raramente si trovano analoghe tecniche costruttive nelle tombe di giganti e nei nuraghe, ma talvolta capita. La distinzione fra le tecniche applicate nei suddetti monumenti non è netta.
Osserviamo ora una realtà stratigrafica esistente in entrambe le tombe n. 2 e 3 di Gremanu/Madau (Fonni). Per brevità osserviamo la parte basale di camera nella tomba 3, che è fatta di piccoli conci o lastrine. La parte sovrastante è resa con tecniche e materiali completamente diversi, così che a prima vista domina estesamente la fase meno antica, nella quale si evidenzia un muro realizzato con grandi lastre poste ortostate o di coltello, anche spesse. Specialmente le pareti esterne si configurano come un placcaggio raffinato, disposto sia attorno alla camera, sia davanti e dietro all’esedra.
L’evidente diversità delle parti basali nella tomba 3 e di tutto l’interno della tomba 2, costituite da lastrine e piccoli conci dalla sagoma inconfondibile, garantisce la specificità sia dell’una, sia dell’altra tomba.

Questa sovrapposizione tecnico-costruttiva, che rimanda alla medesima cronologia relativa, si ritrova singolarmente nel nuraghe Ui di Chiaramonti.
L’edificio è ampiamente smantellato e spogliato da non poterne ricavare la planimetria, né la consistenza del complesso. Solo infilando la testa in un’apertura ampia quanto le spalle, creatasi nel lato SSE, per l’asportazione di grossi blocchi basaltici che paiono comporre il tutto, s’intravede una camera ampia, composta da un alto anello basale organico di circa due metri, edificato con piccoli conci o lastrine di una pietra chiara che, vista a distanza pare essere una sorta di calcarenite. Sull’anello basale il muro s’innalza con conci di basalto, di buona dimensione e ben composti. In sostanza, in questo nuraghe si osserva la stessa successione stratigrafica muraria che si può osservare nelle citate t.d.g. di Fonni; l’identità stratigrafica in particolare è con la tomba n. 3, la cui camera antica a piccole lastre calcaree appare regolare come nel nuraghe Ui.

Un ulteriore, inaspettato esempio di parallelismo tecnico col nuraghe Ui di Chiaramonti e quindi con le due tombe di giganti di Madau, si trova in un’ampia camera del nuraghe complesso esistente all’interno del recinto turrito detto Su Casteddu de Fanari – a confine dei territori comunali di Decimoputzu e Vallermosa, posto a coronare una collina miocenica mammellonare ai cui piedi passava un’antica via dei metalli, tra l’Iglesiente e la città di Cagliari…

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[Recensione] Archeologia di Sardegna

L’isola Selvaggia e Duncan Mackenzie

Catturare un lettore è ardua impresa e così c’è, specie in Preistoria locale, chi ricorre a fantascienza e a fole piacevoli.

Giacobbe Manca è un archeologo, quindi attinge alla concreta realtà del passato, antico e recente.

Si tratta di un’analisi dettagliata, lucida, spietata, dell’Archeologia preistorica Sarda in un libro originalissimo che, insieme, parla dell’ambiente accademico sardo. In sinergia con Piero Cicalò, ottimo traduttore dall’inglese, pubblica gli scritti dell’archeologo scozzese Duncan Mackenzie, per la prima volta tutti insieme e in italiano.

Sono i resoconti delle esplorazioni eseguite nel primo decennio del Novecento su incarico della British School of Rome, diretta da Th. Ashby. In concreto sono appunti di viaggio tenuti da un turista speciale. Mackenzie era un valido orientalista, plurilingue; aveva affiancato Evans a Cnosso, ma era inesperto dei monumenti dell’Isola selvaggia e della Preistoria della Sardegna, sconosciuti proprio a tutti. Solo Nissardi gli diede delle dritte per orientarsi appena con i nuraghe.

Fu ignorato dagli altri “archeologi” sardi e dall’iperattivo Taramelli. Commise molti errori e ciò capita a chi fa ricerca in campi nuovi. Ciò non può essere motivo accettabile di ipocrita rivalsa da parte di infingardi, incapaci nei fatti tecnici e nelle conoscenze archeologiche, che avidamente avocarono a sé!

All’opera Giacobbe Manca premette un quadro articolato, chiaro nell’esposizione di complessi contenuti, motivi e procedura seguiti nello studio annoso. I pensieri integrali, finalmente tradotti, dei resoconti di Duncan Mackenzie (paternità ben sottaciuta per generazioni), sono disposti nelle pagine pari: a fronte di esse, sono le note che Manca appunta per l’indispensabile attualizzazione dei contenuti.

Ben presto si comprenderà che l’assoluta novità editoriale [tutta “l’opera sarda” di Mackenzie in italiano affidabile] non è affatto l’unico, né il maggior merito del libro. Traspare ovunque in quest’opera, “scomoda” per forma e sostanza, la padronanza della materia archeologica dell’Autore, al pari della sua acuta e intransigente capacità critica, ora divertita, ora sdegnata, ma sempre chiara e diretta: virtù essenziale di ogni docente.

Manca spiega anche molte cose, paradossali e dolorose per chi abbia a cuore l’archeologia in Sardegna e senta l’urgenza d’interventi salvifici.

Si tratta anche di un documentato, utilissimo avvertimento ai futuri archeologi sardi, che insegnerà molto a chi voglia e sappia leggere davvero; a chi ancora non conosca (?) certe scorciatoie nascoste e sordide della “cultura” accademica.

Nella sostanza, si tratta di un contenuto irriducibilmente ribelle, profondamente sarcastico, nei confronti di un establishment archeo-sardo inconcludente, pomposo e infingardo.

L’Autore, gentile e riguardoso verso la propria materia, è sempre rispettoso della verità, sopra ogni cosa. Deplora l’archeologia “senza contatto” (quella, per intenderci, di chi “mai scese da cavallo” per toccare con mano e cervello i monumenti sardi), che misconosce “l’archeologia interpretativa”, l’unica che proietta la luce dell’intelligenza sui muri sapienti e sui reperti trovati nel fango delle stratigrafie.

Giacobbe Manca ci racconta alcune verità innovative e inattese, non solo archeologiche, ma storiche e biografiche insieme. Alla fine si dovrà constatare come la realtà possa superare qualsiasi fantasia romanzesca. In verità, non è certo un “libro per tutti”: si deve leggerlo intimamente; bisogna comprenderne la necessità, ma se ne ottiene in premio una personale, fondata e libera opinione sui fatti archeologici e storiografici narrati.

Ai “figliocci” coinvolti per carriera o conniventi per altri interessi darà ulteriori esacerbanti motivi per protestare (debolmente indignati) che solamente di menzogne malevoli si tratti: nessuno li priverà del sonno, né porrà in crisi le loro coscienze volatili, ma potranno ricevere buone dritte per pensare, finalmente! Anche quest’ultimo effetto s’aggiungerà ai molti innegabili meriti di questo libro, ennesimo atto d’amore – come tutti i numerosi scritti dell’Autore – verso la troppo bistrattata e mal compresa preistoria in cui ha profonde radici la popolazione sarda.

Maurizio Feo

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Danza Nuragica

I principî giuridici sono molto importanti nella vita. Mi viene in mente un breve articolo letto qualche generazione fa, dove si ricordava una verità su un mondo di grassatori volti a tutto ciò che è animato e inanimato. Tutto è a rischio di furto e lucro privato. Una riflessione del diritto romano riguarda la… res omnium, che non può essere res nullius (le cose di tutti, poiché tali, non sono di qualcuno in particolare o, ancor meno, sono a disposizione dei più furbi).
Inoltre, godere in vita di un bene comune, inalienabile, non può dare il destro di assaltare a proprio uso e consumo la proprietà pubblica.
Il guardaboschi vivrà gran parte della vita fra alberi e animali selvatici, ma ciò non lo renderà mai padrone di quei beni naturali, che sono res omnium e non res nullius, ancorché egli li senta come suoi o vi sia profondamente affezionato.
Simile discorso si può fare per milioni di persone al servizio di privati e dello Stato.

Analogo discorso vale per l’usciere di un Museo o per i burocrati addetti alla tutela dei monumenti, per giochi politici o fatalità, dei quali beni si sentono certo i padroni e mostrano di fare di essi ciò che vogliono. Purtroppo, a volte occorrono secoli perché si conseguano norme giuridiche corrette.
Dunque: i monumenti preistorici, come le risorse naturali sono res omnium (o dovrebbero esserlo), nella loro fisicità e nell’importanza sociale, culturale e magari economica. Tutti sanno che è banale dirlo, lapalissiano… moltissimi ne sono certi, ma altrettanti no, sia perché l’argomento non li tocca sia perché asservono i beni archeologici come mezzi della propria ingorda carriera, sempre troppo lucrosa. Questi ultimi sono notevolmente i peggiori nemici dei beni archeologici; in loro prevale l’arroganza, la presunzione di un senso di potere assoluto: ne dispongono in nome di un vago diritto inesistente, solo preteso. Sono avvezzi alle scorciatoie per tessere di partito (le nuove chiavi elettroniche) e appartenenza alla nuova feudalità politica.
I monumenti preistorici, per loro stessa specificità, sono i più fragili davanti a tali bipedi narcisi, egocentrici e dunque insensati. Spesso, i giovani che lavorano al mantenimento e al godimento dei presidi turisticamente proponibili sono o hanno motivo per sentirsi sotto ricatto dalla superbia di questi tacchini tronfi, che spesso diventano aggressivi, impongono le loro amene favole da incapaci e minacciano ritorsioni… ove i giovani non manifestino sottomissione!

Invito al ballo
Casualmente, in una conferenza in quel di Ozieri, si parla di nuraghe. Un’attempata oratrice, fra le varie gaiezze da salotto disse che in un suo scavo archeologico – mi sfuggì dove – mise in luce una rampa gradinata nuragica a cielo aperto, posta fra due torrette. Sì è vero, non si disponeva ancora di questa casistica dacché mancò il Padre garante.
Oggidì ciascuno, sia pure con molte incertezze, ormai elabora per sé… lutto e disciplina.
Un mio fugace invito a specificare il fatto fu stroncato come lebbra: segreti di stato e… personali, soprattutto. Le domande non sono gradite: ¡nulla si concede ai rivali! C’è sempre qualcosa che sfugge a molti: la scala nuragica intermuraria a cielo aperto (sic?) mi mancava proprio, dopo mezzo secolo di visite attente ai monumenti nuragici. Urge tener conto di così acute novità.

Primo movimento
Per non cambiare pista da ballo… mi sovviene un’immagine lontana del nuraghe di San Nicola (ciò che ne resta), dell’omonima frazione distaccata di Ozieri, che fu svuotato nel cuore e nel “pericardio”.
Pressoché fagocitato dalle palazzine dell’abitato, sorprende per non essere ancora divenuto sede di una comoda discarica; per ora, qua e là, poche porcheriole eterogenee: ¡Un plauso al civismo dei popolani!
Davanti alla torre centrale è un piccolo cortile che accoglie le aperture di due torrette addossate e antistanti alla detta. È ben costruita… nella parte basale residua, più alta delle affiancate e foriera di curiosità per certa regolarità e ingiustificate aggiunte sopra e oltre l’architrave d’ingresso: ci sono anche tre filari elevati su tutti.
A Nord-Est del cortile si vedono gli esiti “a cielo aperto” di una rampa posta tra la torre centrale e l’edificio aggiunto intorno a Est; i blocchi ben martellati; tutto è in trachite e basalto.
Che sia quella la scala sotto le nuvole orecchiata alla conferenza? Indubbiamente, da qui puoi vedere le stelle… ora che l’edificio ha subito le chiudende ottocentesche e la frenesia dei grassi proprietari terrieri e chissà quali altri assalti per almeno tre quarti del Novecento.
Orbene, se all’archeologo manca una visione d’insieme della logica e dello spirito nell’architettura nuragica, per chi valuta, diviene difficile “vedere” la complessità originaria di un edificio con “scale aperte” e si è preda di idee naïves. Mi pare assurdo e non voglio credere… ma tutto è possibile!
Ricordo la patologica autostima dei burocrati per il ruolo rivestito, acuito davanti a un’eterogenea assemblea animata, legittimo campione del ben più ampio parco buoi produttore di biomassa, e così si affossa ancor più l’archeologia preistorica sarda.
Come quando ci si sente osservati, qualcosa nel San Nicola disturba equilibri e fascino antico.
È presto detto: al culmine della torre centrale è disposto in più filari, solo per un terzo del giro verso chi arriva, una sorta di placcaggio: una coroncina… da principessa, fatta di lastre affiancate poste di coltello e in altri modi: a un solo paramento per fortuna, fissato con zeppe e abbondante cemento… di ottima qualità.

Ci si accorge della genialità di tale realizzazione archeologica, certo freudiana, solo guardando alle spalle della chiostra di conci, dove – lieve sollievo – nessun muro di spalla sostiene tanta magnificenza: non ci speravo proprio e c’è da incrociare le dita.
La cosa ha prodotto, verso Sud-Est, un innalzamento regale del nuraghe centrale aprendo così cento altri inchini, come epiteti, adatti per i mai abbastanza “apprezzati archeologi/ghe” della soprintendenza: oserei dire ¡mai onorati/e abbastanza!
La prima piroetta introduce al diritto mondiale dei monumenti. Per esempio: ¿Chi autorizza i burocrati della soprintendenza a violentare in questo modo una reliquia della preistoria contro ogni dettato di leggi italiane e accordi internazionali in materia? ¿Ora il nuraghe è più bello?… ¿Scientificamente è più rilevante? ¡Buon Signore del cielo, guardi e lasci fare! ¿Mai un fulmine?…

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[Recensione] Grandi Statue Sarde

Il fenomeno Orientalizzante nel cuore del Mediterraneo

Se si parte da premesse sbagliate, è quasi certo che non si raggiungeranno conclusioni corrette.

Così, quando si parla delle statue di Monti Prama, persino la prima definizione di “giganti” – dovuta al Lilliu, che le definì “kolossoi” – s’inizia già con il piede sbagliato. Perché mai ricorrere alla cultura greca e alla sua lingua estranea, per descrivere qualche cosa di prepotentemente sardo, così profondamente differente da ogni altra cosa greca?

E così, l’Autore propone piuttosto un altro nome, per lui più appropriato: quello di Grandi Statue Sarde. Esse sono di poco più grandi del vero, non gigantesche; sono statue a tutti gli effetti, indiscutibilmente sarde e sono “volumetriche”, cioè scolpite a tutto tondo; infine, sono senz’altro statue molto originali. Amare qualche cosa significa vincolarsi a rappresentarlo esattamente per ciò che è: con i pregi per cui si ama e con i difetti malgrado i quali si ama. Il libro, breve e chiaro, di agevole lettura, si attiene a questo principio di base.

Le statue non sono così antiche come qualcuno preferirebbe credere. Ci sono anzi chiare prove storiche, ben note all’archeologia internazionale, del fatto che – tra le statue prodotte dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo – le Grandi Statue Sarde figurano solo nel gruppo meno antico.

Il “monte delle palme” – Monti Prama, come lo chiamano i locali – non è un monte, bensì un dolce rilievo collinare: e se oggi ospita numerosi cespi spontanei di Palma Nana (Chamaerops Humilis, Palma di San Pietro), nulla ci assicura che anche nell’antichità fosse così.

Ecco: il libro procede prudentemente, elencando i dettagli con dati di fatto alla mano, senza condimenti di favole, né aggiunta di miti infondati, esaminando da vicino le prove materiali e formulando solo le più probabili e verosimili tra le ipotesi, sfrondando l’argomento di tutte le invenzioni.
Quello che resta è la realtà nuda, quella incontrovertibile, forse anche imbarazzante per alcuni, ma altrettanto stupefacente quanto tutte le multicolori falsità che nel tempo si sono andate inventando su queste antiche statue, su chi le scolpì, su quando e perché furono fatte…

Si ricorda appena di passaggio, in un’immagine, come il mito della Caverna di Platone da migliaia d’anni ci ammonisca su quanto sia facile cadere nell’errore: l’ombra, proiettata ingigantita sulla parete della caverna, sembra reale; e in fondo è reale, pur non costituendo affatto mai la realtà per intero! La Verità intera è data solamente dall’oggetto tridimensionale, la cui ombra si proietta sulla parete della caverna…

Alla fine della lettura di questo breve testo, corredato da un centinaio d’immagini, il Lettore otterrà un’idea piuttosto precisa e chiara dei grandi eventi storici che si verificarono nel Mediterraneo, cambiandolo per sempre e trasformandolo in un grandioso crogiolo culturale, regalandoci infine – insieme a numerosissimi doni – anche queste preziosissime Grandi Statue Sarde. Per quanto sembrino logore e frammentate, esse sono rivelatrici di un periodo della
storia sarda che è spesso stato colpevolmente sottovalutato, se non addirittura completamente frainteso. Esse ci aprono una comoda finestra sulla Verità di una Sardegna in cui le élite economiche del Sinis espressero appieno la propria orgogliosa ricchezza familiare anche nei sepolcri monumentali.

Una realtà sorprendente, che molti Sardi ancora neppure sospettano e che certamente non può (e non deve!) definirsi “nuragica”, come invece ancora molti oggi s’ostinano a fare.

Giacobbe Manca

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Capricci al cemento

Lontano antefatto necessario

L’ufficio tecnico della Provincia di Nuoro progettò (inizio anni ‘60) e attuò lavori (ultimati nel 196x), per abbreviare la contorta strada statale ottocentesca 389, che da Nuoro porta in Ogliastra (allora si passava per Fonni). “Piccola manna” fu la bretella stradale da Genna ‘e Ferru (sbocco sull’altopiano se giungi da Mamojada), al Passo Caravai (verso l’alto valico di Correboi) [S.P. 2]. Non esisteva la nuova variante alla detta S.S. 389 (scorrimento veloce… ¡a due corsie!, con l’infinita galleria sotto il detto Correboi, e i sorprendenti viadotti di Navile (tra Orani e Mamojada), interminabili anch’essi. I progetti – per legge – furono analizzati dagli Enti preposti, si deve credere: tutela del paesaggio e dei monumenti… e da essi approvati, ipotizzo. Col procedere dei lavori, furono certo visionati tracciati, come le varianti (¿di quando in quando?) da tecnici preposti. Ora si percorra la cosiddetta bretella fino alla regione Madau (detta Gremanu negli anni ‘50 – per il rio omonimo – vedi G. Melis cartografo ed E. Melis, ingegnere), dove, manco a dirlo, ci fu una sorpresa (¿prevedibile?). Alla ruspa, lungo il tracciato, si opponeva un rialzo: col suo abbattimento si travolsero, dal culmine, alcune capanne da cui sortirono – “inattese” – alcune statuine (si parlava di tre bronzetti) e cocci di vasetti non descritti. Questo si può dire sulla base del racconto, divenuto ben presto segreto di pubblico dominio a Fonni. Il ventre delle capanne restituì (voce di Dio) reperti che, da natura e descrizione, desumo dell’Età del Ferro (dal IX – VIII sec. a.C. e più giù).

In quei frangenti, anche la t.d. giganti n. 1 dell’omonima necropoli, prossima al tracciato stradale (circa 10 metri), fu avidamente demolita dal lato orientale: sparì l’esedra, via il lato Est del corpo, con relative fondazioni. I blocchi derivati dalle distruzioni delle capanne e delle tombe di giganti furono “valorizzati”, dissero alcuni operai, come vespaio sotto la strada e nel ponticello vicino, per la costruenda strada [¡così si fa, a regola d’arte, con risparmio d’inerti!]. ¡C’è da restare basiti! ¿Come si possono affermare particolari così sconcertanti? È semplice: alle testimonianze (anche se omertose) si possono confrontare, sia la realtà attuale sia gli schemi planimetrici tramandatici dai due Melis (malgrado la grafica utilizzata riveli evidenti ingenuità tipiche dei comunque neofiti in archeologia). Una prima riflessione spinge a domandare: ¿Ma, non è stato ipotizzato che la soprintendenza sapesse delle opere in corso? Il progetto esecutivo avrà certo seguito sul terreno, come dalle carte, il tracciato della edificanda bretella. Perché mai si accettò che la strada sventrasse il rialzo con le capanne (bastava volerle vedere) e in ogni caso il tracciato è colpevolmente a ridosso della necropoli di tdg, già note in storiografia, come ben si doveva sapere.

Vedere un monumento quasi integro conforta e forse entusiasma visitatori di bocca buona, che con lo stesso buon gusto sarebbero eccitati dalla sfinge di cartongesso di un parco giochi alla Disneyland.

Qui a Madau come altrove l’umanità ha perduto qualcosa d’irripetibile. Analizzando utilmente i ruderi scampati allo scempio e sottoposti a violenze, moltissimi interrogativi resteranno senza risposte. Spostando ora lo sguardo dieci metri verso Nord-Ovest dal luogo dello scempio, troviamo radicata la tomba n. 2, la maggiore della necropoli: bella e – a un primo sguardo – “quasi integra” (molti s’illudono). Ben presto s’intuisce la realtà: questo monumento è stato “baciato in fronte”, in unità col grande padre dell’archeologia isolana postbellica, dalla soprintendenza (¡alla faccia della tutela!). Bella, si diceva: banalmente si osserva invece solo un brutto fac-simile dell’originale; tutte forme ben note già da decenni, ma non si capisce ancora, né si capirà facilmente, come fosse compiutamente composta, per esempio, sia questo tipo tombale sia la facciata di Madau n. 3, lì accanto. Mai sapremo, in particolare, dove e com’era collocato il blocco in forma di trapezio isoscele, fregiato dai consueti tre incavi appuntati a un margine della base minore. Insomma, sia dal punto di vista di un “ungulato” sia per la curiosità di un turista da spiaggia, o di un archeologo somaro o non preistorico, è questo un risultato apprezzabile (¡attingono alla giusta parte di rude non scienza, atta alla loro cervice!). Da un punto di vista scientifico e sostanziale, però, si tratta del ¡grottesco massacro di un monumento! reso ormai illeggibile; resta ¡un costoso e irreparabile danno culturale attuato da chi avrebbe dovuto difendere e studiare il monumento! alla luce di questa violenza inaccettabile, ha certo poco rilievo dire che i conci ritrovati sparsi davanti alla tdg (tutti autentici) siano stati collocati in grande numero e… sottosopra stigmatizzando per i posteri (parte dei responsabili sono morti e fra un po’ lo saranno tutti) l’evidente grossolanità dell’intervento. Nella parte absidale, dove ogni concio avrebbe dovuto essere esattamente ubicato (per esempio, a convergere nella forma ogivale dell’abside), il pasticcio è sommo.

Su tutto domina il prezioso cemento, patologicamente profuso in ogni angolino (horror vacui), a recuperare la statica di un monumento ben poco elevato, ampiamente garantita in origine dall’intelligenza nuragica, implicita nell’esatta collocazione dei conci embricati con arte sapiente e progressiva nelle diverse parti dei muri a due paramenti, a bell’apposta apprestati dagli antichi. Obnubilati dalla presunzione i detti “feudatari” dell’archeologia isolana (i Kric e Kroc della situazione) hanno giocato al Lego nella variante hard, la più megalomane e disdicevole: tutto con molta presunzione, nessuna conoscenza tecnica e cemento a gogò.

…forse questa inusitata, estemporanea e obnubilata volontà ricostruttiva fu – ma è solo un sospetto – un’impellente bisogno di cancellare le malefatte dell’impresa e dei c.d. burocretini autorizzati che non controllarono, come da norma…

Credo che ce ne sia già abbastanza, ma se si volesse dare uno sguardo alla tdg n. 3 si troverà non solo una rinnovata grettezza istituzionale, ma anche ampia conferma della perfetta incapacità dei detti operatori. Sfido gli archeologi cooptati a capire il monumento, ora inchiodato (crocifisso) da ulteriori carriolate di cemento, sia nei punti oggetto di ricostruzioni demenziali (a dir poco), sia laddove si osservano inaccettabili, kafkiane, ricostruzioni ispirate a… trappole per topi. Insomma, coloro che attuarono l’intervento qui analizzato (sia pure molto sveltamente – tralasciando volutamente i fatti tecnici) erano più che scellerati. L’intervento fu altamente irriflessivo, certo non accettabile né come restauro e ancor meno come anastilosi (l’unica consentita e possibile solo in casi specialissimi).

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Capricci al cemento Leggi tutto »

Editoriale numero 58

Il Numero 58 della Rivista tratta finalmente un argomento a lungo sollecitato dai lettori di Sardegna Antica. Mira a un bersaglio molto ambito: un aggiornato chiarimento didattico-scientifico sulle statue di Monti Prama, cui si giunge dopo una “preparazione” sviluppata nei due numeri precedenti. Sarà – crediamo, immodestamente – un numero da collezione, unico e irripetibile, nel quale le Grandi Statue Sarde sono un argomento di gran peso, in tutti i sensi. Ad onta della sintesi, non tutto il ponderoso argomento ha potuto trovare posto in un unico numero. Alcune imprescindibili considerazioni conclusive seguiranno nel fascicolo n. 59.


Molte ipotesi popolari, false e strumentali, imprecise o favolistiche, troveranno definitiva confutazione in queste pagine, seppure esse fossero mai state credute vere in passato. Come sempre, ogni autore si assume la responsabilità culturale di ciò che afferma. Le argomentazioni proposte ci sembrano convincenti, e già questo sarà un merito: perché se, da una parte, è inaccettabile che Scienza e Storia siano piegate a interessi politici e/o commerciali, d’altra parte non si deve permettere che un tema culturale di vero interesse mondiale sia ridotto a strumento tanto provinciale e identitario da scadere in discussioni dai toni accesi e incongrui, coi tipici, rozzi modi dell’ignoranza più ingovernabile e sanguigna. I nodi culturali e cronologici, d’antica origine, sono personali dei singoli autori, come già detto.

Ci è sembrato giusto ripubblicare qui l’articolo originale, in Campidanese, con cui Giuanni Lilliu comunicò, nel 1983, per la prima volta in termini divulgativi, sia la scoperta delle statue sia i suoi significati “ufficiali”. Vale la pena perché del fascicolo, è giusto notare, si vendettero tante copie, ma non moltissime. [Per i pochi che non hanno consuetudine col sardo, la traduzione in Italiano è qui proposta, a fronte, a cura di G. Manca].
“Sardigna Antiga”, in origine, oggi Sardegna Antica C.M., nell’occasione dedicò alle Statue la copertina, che ricompare in queste pagine. ¿Troverà motivo di “pace” chi ancora sostiene un generale e voluto occultamento? Tuttavia, ¡resta pur vero che ci furono lunghi anni di attesa, tentennamenti e disguidi! Quel ritardo, semplicemente chiosa ed esemplifica le grandi difficoltà – non economiche! – in cui si dibatte tutta l’archeologia italiana e specialmente quella sarda, da tempo agonizzante.


Un inedito articolo di C. Tronchetti chiarirà persino ai non addetti ai lavori il motivo per cui noi riteniamo che egli sia da considerarsi “il vero scavatore” di Monti Prama. Altro è dire della misura in cui ciascuno è disponibile a condividere la collocazione culturale in un ancora seguito Nuragico lilliano, sospetto per longevità. Certamente lo scritto, di prima mano, sarà gradito anche agli esperti veri.

Un punto di vista personale, da parte di chi visse in prima fila quegli anni e quell’ambiente, sarà offerto da L. Scano, che poi si adoperò, col compianto Francesco Nicosia, già Soprintendente di Sassari, per dare una svolta al crescente malcontento. Lo Scano diede una spallata politico-economica e fece riemergere le statue dagli scantinati restituendoli allo studio e al mondo.
I risultati del pessimo restauro non sono certo a lui imputabili, quanto a chi fu incaricata di sorvegliare appalti e operazioni di restauro… e non lo seppe fare.

M. Feo proporrà un originale inquadramento classificatorio del fenomeno di Monti Prama, a conclusione dei due precedenti, fondamentali articoli, comparsi nei fascicoli 56 e 57, preparatori al presente.
In questo numero trovano continuità o compimento la riflessione “Archeologia e università” (maiuscolo e minuscolo intenzionali), di G. Manca e l’argomento geologico e paleontologico di A.A. Tronci. Altri temi d’interesse sono “Il culto dei morti” di G. Enna e la ricerca di Andrea Muzzeddu, sulla persistenza di riti antichi nelle prassi funerarie moderne.
Segnaliamo, per la penna di N. Bruno, l’assoluta novità di “Linguistica storica”: una critica distaccata, foriera di una stimolante proposta che darà vigore alla tormentata linguistica isolana.
Un’antica, multiforme divinità è richiamata nella recente ricerca su Giove Dolicheno della nostra M. Andreoni, affiancata dala studiosa F. Vecchi.
L’articolo di R. Lupieri Perissutti ci offre una ricca e aggiornata sintesi dell’evoluzione “per tappe rivoluzionarie”del genere umano, dalle australipitecine fino al Sapiens odierno.
Singolare è lo scritto scientifico di M. Fregoni, “Silvestrone sardo”, che dà notizia di un primato mondiale in Sardegna, toccato da un’insospettata essenza vegetale. M. Fregoni ci affida, con scienza specialistica, la meraviglia e il sorriso: ottimo viatico per la speranza anche in queste fasi travagliate.
Si chiude l’elenco delle opere e dei collaboratori per questo numero, indubbiamente speciale, rimandando i lettori anche all’unica breve recensione, di un libro particolare per il suo messaggio umano e affettivo.


È inutile elencare le difficoltà d’ogni genere affrontate (Archivi bloccati, Musei chiusi, Fonti e contatti indisponibili, impossibilità di fare ricerche sul campo, economia languente e seri problemi di salute di alcuni autori), che affliggono anche la Redazione, in questo infinito periodo di crisi sanitaria, economica e politica.
Valga per tutto solo notare il rammarico espresso alla redazione da C. Tronchetti per non potere accedere al migliore materiale fotografico, che avrebbe voluto accludere al suo scritto inedito.
Malgrado tutto, non s’interrompe la pubblicazione di queste nostre sudate e amate pagine, che – dalla provincia più interna della Sardegna – idealmente vogliono abbracciare unitamente i lettori, la cultura sarda e quelle mediterranee.

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Archeologia e università Seconda parte

Nella prima parte di questo scritto faccio cenno all’inconsistenza dell’insegnamento archeologico all’università di Cagliari dagli anni ’60/‘70, ancorché esso fosse – per un arcano – ritenuto di qualità e di scienza avanzata. Sostanzialmente e formalmente esso era in chiara continuità col pensiero ottocentesco, solo accresciuto dall’esperienza del primo Novecento dell’iperattivo piccone di Antonio Taramelli, di prevalente impronta antiquaria e livello erudito, non compiutamente scientifico.
Era un clima in cui le sensazioni d’autore e la tendenza a romanzare la Preistoria s’alternava a sprazzi di velleità tecniche limitate alla descrizione generica delle planimetrie dei nuraghe e di sezioni verticali riassunte in oscure ogive, battezzate tholoi, alla greca: gergo snob, nella insulsa speranza di dare una collocazione aulica (roba per pochi accademici baroni) a un mondo preistorico, in nessun modo classico, bensì di tutt’altro e incompreso orizzonte culturale. Vuote parole, in sostanza, ma non passi concreti o decisivi verso la scientificità di cui questa disciplina aveva un estremo bisogno per nascere e decollare.

S’impone, dunque, una domanda lecita: ¿da dove provenne quel subitaneo – geniale e saccente – salto qualitativo apparso nel suo manuale universitario? – ¿da dove veniva l’autorevolissimo, indiscutibile e intoccabile Verbo in questione, tutt’altro che scientifico?

Gli errori erano tutti di certo Duncan Mackenzie, della perfida Albione. Ecco, dunque, la fonte… ¿ma chi era questa penna inglese, che nessuno degli studenti mai sentì insegnare nelle sue “profetiche” emanazioni? ¿Indagava strutture murarie? (¡che gusti da muratore!).

Tali interpretazioni, sottoposte, sul campo a verifica diacronica seria e concreta, oltre gli esiti negativi ebbe quello d’inchiodare la ricerca per alcune generazioni. È pure venuto meno uno degli obblighi imprescindibili dell’Archeologia: l’attenersi a un’interpretazione intelligente, quanto più possibile oggettiva dei reperti di scavo; a essa si sostituì, invece, la fantasia e la strategia politica.

Oggi, chi sostiene d’essere più scientifico si limita alla descrizione di reperti o monumenti in lunghi elenchi noiosi e sterili. Ma questa è archeologia descrittiva: siamo ancora lontani dall’attesa Archeologia Interpretativa o colta.

Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.

¿Condividere l’Archeologia postbellica?

Aderire oggi al “contenuto dell’archeologia negli atenei” in clima post-bellico è come accettare di vivere immersi in un clima tolemaico/aristotelico, governati da una “Santa Inquisizione”, amministrata con subdolo fanatismo religioso. Insomma, nessuna proposta né apertura scientifica: nessun Copernico avrebbe potuto rivoltare le concezioni sideree… ché la ragione non conta in certi climi; intanto si dovrà temere per il proprio futuro.
Pensiamo al tempo di quell’astronomo temerario (un polacco e magari pagano) dire che siamo noi, la Terra e le fissazioni dell’umanità, a inseguire il Sole in una pazza corsa cosmica: sarebbe blasfemo.

“¿Noi, dunque, ruoteremmo intorno a lui (il dio Sole) e anche attorno a noi stessi?…¡Dio che fantasia!” Non per dire ma, si rifletta, ¡lo vedono tutti che il Sole sorge a Est e tramonta a Ovest!

Le sacre scritture poi – ¿ma li ascoltate i vati del vero Dio? – dicono che quando Gesù spirò, il Sole si fermò nel cielo… e fu buio; dopo tutto intorno riprese a muoversi…

¡La mentalità “delle sensazioni”!

Dal XVIII secolo, ma ancor più nel XIX, gli accademici: ecclesiastici o parenti di nobili feudatari, vicini a quanti avevano per certo che fosse il Sole a muoversi nel cielo, hanno osservato casualmente, qua e là nell’Isola, strani edifici a forma di tronco di cono.
A cavallo o in carrozza, li vedevano sui rilievi, in specie, alti sulle valli, quali sentinelle dimenticate delle oscure tribù preistoriche.
Li vedevano d’impianto rotondo e forma troncoconica: ciò diede loro certezza che, al pari delle torri costiere aragonesi e sabaude, fossero sentinelle e presìdi per pericoli provenienti “dal mare”. Tutti così videro, nell’Ottocento, così nel Novecento ripeterono gli archeologi. Ancora, in virtù del declamato e disperatamente difeso “Metodo storico” e anche quello del Conviene uniformarsi

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Archeologia e università Seconda parte Leggi tutto »

Archeologia e università

Negli anni Sessanta del secolo passato, un certo numero di noi giovani barbaricini fu felicemente parcheggiato all’università (¡u maiuscola, allora!). Con un certo senso d’inadeguatezza affrontammo quel mondo nuovo, atteso e paventato assieme. Trapelava qua e là, fra gli “altissimi” docenti, la supponenza dei giusto-collocati e – qua e là – l’opprimente olezzo d’impalpabile miseria morale e materiale: ¡inizi poco incoraggianti! Ma si paga un prezzo per crescere. Impaziente, attesi d’attingere a contenuti… che non giungevano. Non c’erano proprio, oltre le parole d’ordine. Tutto era “rivelazione”, con parole reiterate, affermazioni d’autorità e molte fiabe, condite di presunzione e così fu, tutto immutato, anche per i seguenti studi, “specialistici a parole”, tediosamente e assurdamente ripetitivi dei medesimi dogmi già ingurgitati. Le lezioni “odoravano” di catechismo e alle più che rare domande degli allievi l’esito era il nulla o il farfuglio di qualche prof arraffa-tutto, omertoso e ridanciano. In anni d’impegno e vita al lumicino, in estrema sintesi questo fu il patrimonio archeologico, morale e contenutistico da “mettere in saccoccia” nell’università parcheggio per giovani e speranze, come ben si capì in seguito

Dall’Ottocento alle grandi guerre

Dalla letteratura archeologica di un secolo precedente e oltre, a cavallo tra Ottocento e metà Novecento, galleggiava un retaggio inconsistente di autorità vanamente erudite “demandate a sapere”. Intelletti belli come “vuoti a perdere”, intrisi d’autoritarismo: patrimonio dell’antiquaria dai fermi preconcetti fenicio-egizi, calati anche in salsa biblica, con cronologie generazionali velleitarie.

Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.

Roboanti padroni delle conoscenze

Dal pensiero archeologico dell’Ottocento, caratterizzato da un elevato grado d’insipienza, giunse l’insegnamento “illuminato” di un acuto e coltissimo storico:
Ettore Pais, che “costretto quasi dall’inerzia altrui” si risolse ¡finalmente! con le sue sconfinate doti sui documenti della letteratura greca e romana, a dare soluzione ai problemi della crepuscolare Archeologia sarda. Secondo le convinzioni correnti, la “sua” letteratura non avrebbe potuto nascondere (ai soli colti s’intende), i giusti lumi sulla società “troglodita” (così la definiva), che popolò l’Isola rendendola selvaggia… giusto poco tempo prima delle “civili e salutari” spade romane.

Era uno storico di vaglia, il Pais, ma nulla-nulla capiva d’Archeologia e, tuttavia, ciò era del tutto irrilevante per le meningi dei proff d’allora (ma anche per molti che seguirono): beh… d’altronde ¡era un accademico! Dunque, il campo archeologico fu assurdamente governato, condizionato per meglio dire, da Pais, per decenni. La sua non fu arroganza, ma certamente espressione d’una ricorrente presunzione accademica, in un mare di dabbenaggine, in un settore che non gli competeva affatto. Tutti, naturalmente s’adeguarono: a lui s’ispirarono persino i succedanei del Novecento, con sicura fede volta al potente accademico sardo-torinese.

Un interrogativo imprescindibile

¿Come si è giunti, da un’archeologia umorale, basata su una storiografia inconsistente, vaga e ricca di gratuite affermazioni d’autore, a una dimensione in cui si sostiene di procedere con approcci tendenzialmente tecnici? Certo, nulla di scientifico e tuttavia si sente un clima in cui principia appena una procedura diversa, con la quale acquista rilievo la grafica del monumento esaminato: si valuta l’aspetto planimetrico e, talvolta, anche quello dell’elevato. Si trovano differenze formali fra i nuraghe apparentemente uguali, fra le tombe di giganti e persino fra le domo de janas.


Come d’incanto, Lilliu principia ad avanzare (¡mai “visto” nei predecessori!) interpretazioni inusitate e varie per le mutazioni formali o temporali, con distinzioni culturali nientemeno: spunti di cronologia relativa derivavano da osservazioni architettoniche, rigorosamente senza dimostrazioni. Lilliu lo fa col consueto piglio accademico [lo faceva anche Pais, il suo idolo], che non ammette contraddizioni o dubbi, né s’avverte (proprio non c’è) la progressione razionale o la logica inferenziale. Insomma, Egli proclama un risultato “blindato”, ma mai il nostro “genio” spiega come a esso sia giunto.

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Tiscali nel nuorese

I caprari di Dorgali e di Oliena ben conoscevano, da sempre, lo sperduto villaggio di
Tiscali, nascosto nel monte omonimo, dal ventre gravido di mistero. Era certamente
tenuto in complice e “prudente” riserbo, avverso il mondo della cosiddetta zustissia.

Sa zustissia, amministrata da estranei, si configurava, dunque, più concretamente come un’immanente fonte d’ingiustizia sociale che, sorda alle tradizioni e senza giustificazioni o fondamenti concreti, sottraeva spesso padri e fratelli alle risorse affettive ed economiche delle famiglie.

Avere in serbo un rifugio personale cui ricorrere, all’occorrenza, poteva essere vitale. Questo
era più spesso l’essere “bandito” nei sardi.
Tiscali era, per l’appunto, un rifugio imprendibile, la cui esistenza infine trapelò imprudentemente alla fine dell’Ottocento, certo in ambito universitario, in forma quasi fantastica e mitica. Fu così che spinse un primo esponente della cultura di stato a “esplorarlo”.

Ettore Pais, era forse il maggiore fra i docenti di Storia Antica: acuto conoscitore dei classici, rivestiva un ruolo preminente in ambito accademico. Era considerato, in vita e per oltre un secolo, un “mostro sacro, mitico, irraggiungibile e intoccabile”.

Sardo di padre, piemontese di madre e di studi; era giunto in Sardegna per occupare la cattedra di Storia Romana a Cagliari.
Ai suoi tempi la Paletnologia non poteva dirsi agli albori, giacché scuole europee, da oltre mezzo secolo, avevano gradualmente portato la diffusa antiquaria ottocentesca, accompagnata dai triti “pregiudizi fenicio-egizio-greco centrici” verso una ricerca più colta, con l’aspirazione di giungere a una scientificità che, auspicata ma ancora fumosa nei cervelli, restava a maglie molto larghe, laddove, di norma, il dato tecnico era filtrato da preconcetti, sensazioni e pronunciamenti “colti e autorevoli”.

Al tempo del Regno Sardo-piemontese, ma anche dopo, in ambito preistorico – come pure
in quello storico – ancora tutto procedeva dagli scritti degli autori classici per variegare di dati
e interpretazioni “illuminate”, le vicende di una assai vaga fase primordiale (allora “compressa” in
solo alcuni secoli) e ritenuto vagamente coevo al mondo delle cosiddette fenicerie; comunque, da
tutti concepito come immediatamente precedente all’avvento “fatale” delle spade romane.

Quegli eserciti sanguinari erano visti – ma solo dai colti – come il provvidenziale giungere della “vera civiltà”, a fare da argine definitivo a un’antica barbarie diffusa tutt’attorno al Mediterraneo (occidentale in specie), ancora indistinta (tra punici e trogloditi isolani), sia culturalmente sia cronologicamente.

Una “classica” foto del villaggio di Tiscali. Si nota la capanna meglio conservata del villaggio, la cui forma ingannò tutti gli autori, da Pais in poi, e ancora al giorni d’oggi, molti “ricercatori”, senza elemento alcuno, ripetono che appartenga al Nuragico.

Fu così che lo storico Pais, nel 1910 operò la sua super protetta esplorazione in Barbagia, fino al
mondo perduto di Tiscali.
Col suo resoconto, egli mostra di essere perfettamente a digiuno di fatti archeologici e,
tuttavia, esprime una prima, fatale “sentenza”, a dir poco sconcertante in sé e nelle conseguenze
generazionali.

Di fatto, “lui” era un luminare e i suoi “titolati preconcetti” saranno ritenuti inappellabili e
quindi pedissequamente adottati dai protagonisti della letteratura archeologica nostrana, sia nella prima metà del Novecento, sia anche – cosa ancora più incredibile – fino ai giorni attuali.

Rifugiati all’ombra del potente cattedratico, nessuno sembrò, né ancora sembra accorgersi,
da generazioni, di quanto gratuite, infondate e persino assurde fossero le ispirate impressioni di
quel raffinato, perfetto inesperto.

Per il Pais, Tiscali è un villaggio nuragico, bloccato alla fase in cui i romani schiacciarono, infine!
ogni velleità di libertà negli indigeni “barbari …ostinati” – dice lui – poco meno che “cavernicoli”.
Così ripeterono il Taramelli prima (1933) e il Lilliu poi, con i seguaci suoi (dal 1963 in poi e ancora dopo non potè ricredersi … accademicamente); così ripetono ancora oggi i suoi pedissequi succedanei contemporanei.

Un pregiudizio è sempre ascientifico, ma le conseguenze di una valutazione “autorevole” possono anche essere nefaste e, nei casi in questione, lo furono.
Detto in tutta chiarezza: in archeologia, un errore non ha certo la gravità di una operazione chirurgica eseguita da un somaro maldestro e accozzato; ma resterà comunque incarnito nel tessuto sociale il mancato progresso e l’immobilità culturale.

In sostanza, voglio dire che il contenuto dell’archeologia sarda cattedratica è in buona misura fermo a una sconcertante mentalità di fine Ottocento, esondata ampiamente a contaminare il Novecento e … il Duemila.

UNA VISIONE ANGUSTA ABBAGLIATA DAI CLASSICI

Nell’ipotetica grotta di Platone, l’illusione della conoscenza concessa all’uomo era data dalla proiezione di vaghe immagini eteree di una realtà direttamente inconoscibile.
Nella grotta dell’Archeologia sarda odierna non pare filtrare neanche quel crepuscolo illusorio, che a lungo fu ed è ancora motivo di tanta presunzione accademica.

Il lume posto innanzi agli occhi di cotanti miti, che dovrebbe guidare passi incerti in tanta oscurità, di fatto ha l’esito di abbagliare alquanto i presuntuosi, prima ancora di rischiararne i piedi … o poco più.
A. M. Centurione esemplificava questa triste piega mentale con una esempio chiaro ed efficace:

“…lampi di fuggitivo chiarore …” illuminano una scena chiara e certa agli occhi dell’archeologo sognatore, preda di visioni, ma un attimo dopo, prima ancora che giunga il fragore dell’atteso tuono, già la scena è ricaduta nel buio più pesto. “Pertanto tutte le illustrazioni dei precitati autori, contraddicendosi nelle conseguenze tra loro, parvero lampi di fuggitivo chiarore atti a lasciare i Nuraghi in un caos di cozzanti opinioni

Le colte visioni accademiche latrate nella grotta buia dell’archeologia sarda, paiono proprio essere le manifestazioni oniriche di un’attività neuronale inconscia, non i passi di scienziati. Ogni responso autorevole pare proprio una realtà illusoria che, in sostanza, partecipa al patologico ove, orgogliosamente, si giunse perfino ad affermare tali fantasie come realtà ormai appurata e certa.

Le parole e le maniere affettate, intimamente snob, proprie di eleganti salotti da rituale del the, sono l’unico suono intelligibile nei resoconti archeologici delle istituzioni, volti spesso al non ammesso ma evidente saccheggio delle risorse pubbliche, economiche e monumentali.

Entrare nei pensieri di Ettore Pais, spigolare nelle sue parole, consente giudizi sì inequivocabili, ma non tanto d’ambito archeologico, quanto della sua visione del mondo, per così dire. Descrivendo le povere abitazioni di Tiscali dice:

“… Sono case quadrangolari formate da piccole pietre unite con fango; fra esse alcune sono edifici circolari, piccole torri aventi la forma dei Nuraghi. Dei Nuraghi non hanno però la mole gigantesca, tanto meno la struttura arcaica. Sono torrette di media grandezza, costituite anche esse con piccoli sassi cementati con fango

Poiché le capanne sono disposte/nascoste a ridosso delle pareti aggettanti di quanto resta della grande grotta crollata che le ospita, non sono concentrate al centro, in corrispondenza della grande apertura ma, inevitabilmente, sono ubicate in posti distinti, grossomodo a Est e a Ovest del grande vuoto.

Per questo Pais avanza il dubbio che di due villaggi si tratti e su essi, da storico in veste di archeologo, s’interroga: “ …Questi due piccoli villaggi quando furono per la prima volta eretti?
Per quanto tempo furono abitati? Paiono a primo aspetto essere stati abitati per molti secoli. Nel fondo della conca v’è, come ho già detto, un fosso profondo. Nasce spontaneo il pensiero che ivi siano addensati e per così dire stratificati i rifiuti delle genti che per secoli e secoli vi abitarono.
Le case ora circolari di tipo nuragico ora quadrangolari accennano poi ad un passaggio lungo e graduale da un sistema all’altro.

Ma per esaminare tutto questo con cura ci vorrebbe molto tempo. Occorrerebbero per lo meno varie ore, anzi non basterebbe un giorno. Bisognerebbe aver strumenti.

Ma abbiamo impiegato molto più di un’ora a salire, e non abbiamo con noi viveri.
Fra i buoni amici che ci hanno accompagnato, alcuni non hanno affatto rinunciato all’idea di un lauto desinare, e questo deve essere fatto laggiù nella valle, fra le quercie, presso una fontana che sorge in un antro muccoso [si riferisce alla possente risorgiva di Su Gologone].

Essi ci fanno anzi premura di discendere: il ritorno ad Oliena od a Dorgali non impiegherà meno di cinque ore a cavallo ed arriveremo di notte, per vie in parte difficili anche per i cavalli.


Insomma, il povero studioso vorrebbe soffermarsi qualche ora per meglio comprendere la situazione che gli si para davanti, ma … le circostanze e le sacrosante esigenze logistiche glielo impediscono.
Però ha motivo di dire due o tre cose importanti.

Le capanne non sono tutte tonde come “le nuragiche”; quelle rettangolari appartengono ad altri venuti dopo di loro. Sono fatte tutte con piccole pietre e fango, ma sono d’epoca differente:
quelle rettangolari dirà, sono più comode, logiche ed espressione di una maggiore civiltà.

Le rotonde sono quelle locali, dei barbari Nuragici. Quelle tonde sarebbero nuragiche perché i nuraghes sono rotondi e le pochissime capanne che mostrano una struttura in elevato somigliano proprio ai nuraghi, anzi … sono proprio come piccoli nuraghes.

Vero è che la tecnica costruttiva appare proprio diversa: … esse non hanno l’imponenza arcaica [non sono fatte con i consueti massi ciclopici, insomma] e … i piccoli sassi [che le compongono, sono] cementati con fango, e con l’utilizzo di architravi di legno.

Ecco, l’acuto studioso ha dato il responso logico e compiuto: ha deciso che le capanne rotonde sono nuragiche, ma tarde, mentre le altre, evidentemente sono sì pure nuragiche ma sono il frutto di un lungo – lungo apprendimento dalle consuetudini romane.

Addossare abitazioni alle alte pareti aggettanti suggerisce una logica disposizione delle capanne, “affastellata” quasi, ma con muri lineari.
Questo gli basta per dire che di sovrapposizione romana si tratta. Infatti, ben presto, l’opportuno aiuto di un “antico” allievo consente al “prof” sia di allontanare i dubbi, ove mai abbia pensato di averne alcuno, e di puntualizzare meglio il suo prezioso pensiero ancora inespresso.

“… La visita è pertanto assai frettolosa; ma l’occhio sagace del dott. Chieppo, già mio allievo nell’Università di Napoli ed ora direttore delle Scuole medie a Nuoro, scorge cocci che paiono interessanti. Con l’agilità dei suoi circa ventotto anni percorre senza difficoltà quel terreno dove ogni passo è reso malagevole da sassi, da tronchi d’albero, da rottami di ogni genere e raccoglie frammenti di vasi in cui giustamente riconosce avanzi di anfore romane. Tiscali è stata dunque abitata fino ad età storica. Assai probabilmente era già stata una stazione nell’età dei cavernicoli, nei periodi iniziali della civiltà umana, e venne successivamente
occupata fino alla fine della repubblica romana almeno.”

Insomma: Tiscali non può che essere – manco a dirlo – un villaggio “nuragico” ma toccato dalla civiltà romana.
Ecco la conferma: i romani, già dalla prima ora hanno lasciato tracce del loro passaggio nel cuore dell’Isola e i Nuragici, ostinati e decadenti, hanno prodotto beceri nuraghetti in tecnica simil-arte povera, tanto approssimativa che, col gergo popolare dei muratori, potremmo definirla “a conca ‘e cane” (arte povera, per i colti), non tanto diversa da quella dei ben successivi civilizzatori simil-aragonesi che, naturalmente, … ci insegneranno a fare i muri nel Medioevo.

Se si deve essere ancora più espliciti, allora è bene chiarire che, anche se Ettore Pais si atteggia ad archeologo, egli proprio non lo era (proprio come tanti suoi colleghi o estemporanei d’oggi), né certamente conosceva le ceramiche romane, né poteva avere sufficienti conoscenze per distinguerle e farle risalire alle fasi repubblicane e non imperiali.

Fermo restando che molte ceramiche “romane” (sigillate chiare, per esempio) continueranno ad essere prodotte del tutto uguali a se stesse nelle non più colonie dell’Africa settentrionale:
ovvero anche quando l’impero era già decaduto da generazioni, le ceramiche al tornio possono essere ben più recenti: Altomedioevali, d’epoca bizantina o, perché no… d’epoca giudicale.

In sostanza, finora nulla di serio, né di scientifico, né, dunque, di attendibile possiamo ricavare dal pensiero di E. Pais. Le capanne tonde nuragiche sono un pregiudizio; la superiorità in comodità e la collocazione culturale delle capanne a muri rettilinei è solo una fisima; l’osmosi culturale coi romani, a Tiscali, è ancora un ulteriore preconcetto (forse grato ai romanocentrici, ma infondato); l’attribuzione delle ceramiche al periodo romano e repubblicano, infine è un atto velleitario e presuntuoso.

¡Dunque, costui ha giocato a fare il Prof , ma – in questa circostanza, come in altre d’ambito archeologico – proprio non ne aveva la facoltà, né le risorse culturali!

LE “DOTTE” OPINIONI

Riprendendo a sondare ancora le opinioni di E. Pais, ci si affaccia ora nella materia che gli era propria, dove eccelleva quale studioso di classici: indiscutibilmente il migliore della sua epoca.
Quasi ad ammettere indirettamente che di Tiscali proprio nulla ha capito (¡ma… perbacco .. certamente capirà tutto ben presto, quando tornerà al suo ateneo!).

Vediamo ora altre sue frasi, forse le più “importanti”, certamente le più sconcertanti. Ecco, qui emerge il famoso Accademico dei Lincei:

[…] “Per comprendere l’importanza di Tiscali occorre prendere i classici alla mano [e lui sì … lo sa fare bene!] … studiare le pagine in cui accennano alle lotte dei Sardi contro i Cartaginesi, più tardi contro i Romani … leggere quello che ci narrano gli antichi scrittori greci della fine della Repubblica e del principio dell’Impero […]”.

Molti dubbi avanzerei sui resoconti di autori romani riconducibili in modo specifico a Tiscali… figuriamoci sui resoconti dei Greci. ¡Ma perché proprio i Greci, mi chiedo! Vien da pensare, temerariamente, che il pensatore volesse alludere a quanto fossero informati di Tiscali e agli inesistenti resoconti stilati quando i grandi portatori di civiltà, Romani e Greci naturalmente, erano presenti in Sardegna.

Costoro hanno pure concesso – proprio loro finalmente – un grado di civiltà a quella progenie di cavernicoli, suggerendo a questi – si pensi – … ¡l’uso delle “comode” capanne quadrate! In primo luogo mi chiederei che fine avevano fatto i Punici, quegli odiosi nemici di Roma che già prima avevano occupato la Sardegna (tutta la Sardegna) con almeno due campagne militari (Malco e i fratelli Magonidi: Amilcare e Asdrubale, antenati del più famoso Annibale) già durante la seconda metà del sesto secolo a.C., naturalmente) e la detennero a lungo, come chiaramente affermano i due trattati con Roma, fino al 238 aC.

In secondo luogo, non mi capacito delle sue affermazioni giacché, egli riconosce che tutto mostra d’essere in difformità dalle “cose nuragiche”: dimensioni dei massi e degli edifici, l’uso dell’argilla come aggregante, uso di tronchi e frasche per architravi e coperture, ma tutto … – egli sentenzia – è certo nuragico. Perché?

¡Ma perché crede incrollabilmente che i Nuragici furono massacrati dai Romani! Pensa anche che loro – i suoi gloriosi conquistatori – portatori delle capanne quadrate – occuperanno l’Isola strappandola ai Punici ora alleati dei Nuragici (i Sardopunici), proprio come si è sempre saputo, in ambiente e come incredibilmente ancora taluno – fin troppo spesso – ripete.

Questi ultimi sono forse i più perniciosi dei suoi pregiudizi, che hanno lasciato una brutta piega mentale attraverso la prima parte del Novecento (con A. Taramelli prima e M. Pallottino poi), fino ad essere sacralizzati e resi definitivi col verbo “geniale” di G. Lilliu, dal secondo dopoguerra eq uindi – ancora fatti persistere nei decenni del Duemila tramite i suoi succedanei.

Gli effetti che ancora lasciano profonde sacche di ambiguità nella cronologia attuale consiste nel fatto che proprio Ettore Pais ha “schiacciato” l’avvento dei Romani (e dei Greci, a quanto pare) sui Nuragici. Questo pregiudizio nefasto ha prodotto molti guasti, ma soprattutto due: la nostra preistoria – di poco interesse per costui e non solo – è ben presto chiusa dalle “comode” spade romane.

Tutto ciò che appartiene all’Età del Ferro (compresa la Protostoria con influssi cosmopoliti da tutti il Mediterraneo), tutto… è indelebilmente incollato a un Nuragico che era già morto da oltre cinquecento anni alla data dell’avvento punico e da almeno un millennio dalle trionfanti stragi romane.
Quegli impareggiabili vincitori hanno dunque combattuto con… i fantasmi dei Nuragici.

¡È certamente tutto vero, sia chiaro,… ma solo nella mente degli accademici nostrani!

Articolo di Giacobbe Manca pubblicato sul n.47 di Sardegna Antica

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