N.56

Editoriale n.56 di Giacobbe Manca

Sardegna Antica è un semestrale culturale per tutti: con o senza titoli, preparazione specifica in Storia, in Archeologia o altro.

Si può credere che molti, nostri lettori e non, possano anche essere molto confusi dalle odierne discussioni “culturali” – tra “favolette ufficiali” e ciarlatanerie di popolo, cui siamo sottoposti: dal web alla TV, dai giornali a certi libri incerti.

¿Chi ha ragione; chi ha torto, chi è più ciarlatano e perché? Il lettore, per sciogliere i fastidiosi dubbi, vorrebbe poter decidere da sé o confrontarsi con persone “affidabili” (¿ma chi lo è in questa ridda d’ipotesi, violenze verbali e arringhe populiste?).

Sardegna Antica ha pubblicato già in passato articoli d’accusa e propedeutici a questi difficili giudizi. I ciarlatani insopprimibili rispuntano come gramigna nell’orto, con argomenti arroganti e sempre più violenti.

Da tempo si leggono frequenti atti d’accusa da diverse “barricate”, mossi da outsider d’ogni disciplina, più spesso contro singoli o l’insieme degli Archeologi “ufficiali” (università o soprintendenza), per vere, più spesso, o presunte “barbarie” commesse a danno del comune Patrimonio Monumentale isolano.

Quelle accuse non hanno spesso un fondamento, come affermare, per esempio, che i reperti di Monte Prama siano stati deliberatamente nascosti per chissà quale oscura manovra anti-sarda.

Non furono mai nascosti, ma solo ignorati per pusillanimità e incapacità, in quei frangenti, a comprenderli correttamente

In genere, gli accusatori non possiedono manco le minime basi culturali specifiche: in quei casi dovrebbe essere più semplice smascherare i ciarlatani, ma non sempre è semplice capire quali siano le loro intenzioni, celate da molti veli.

Il condizionale è d’obbligo, perché molti di questi insulsi strilloni populisti godono, purtroppo, di buona fama e ampio seguito.

In rari casi – invece – il ciarlatano è colto, possiede titoli necessari e “lavora in ambiente”: allora per il lettore appare arduo riconoscere “la verità”. L’errore commesso da questi individui è un “falso erudito”: il più vile e lurido tradimento che si possa compiere contro la Cultura.

Alcune “voci” però, vogliono restare obiettive e distanti dai contenuti aberranti dei detti ciarlatani-strilloni diversamente collocati: siano esse voci ipocritamente ufficiali, sia “autorizzate dal potere”, sia umorali e/o estemporanee.

Sappiano i lettori che il semestrale “Sardegna Antica” vola alto, al di sopra delle indicate miserie umane degli improvvisatori descritti o degli interessi dei cattedratici cooptati coi loro codazzi-fans, annuenti in attesa di briciole del potere.

Ben si sà, non basterà dirlo e, di fatto, il dubbio del lettore persiste: ¿come – dunque – riconoscere i ciarlatani? Partiamo dal presupposto che – si dice a ragione – “La Verità è nuda”.

Intendendo con questo l’incontrovertibile trasparenza di ciò che è vero perché scientifico, dimostrabile.

Alcune persone, di qualsivoglia collocazione o provenienza “s’affrettano a rivestirla dei loro orpelli… la povera Verità”. ¿Perché lo fanno? Semplicemente perché, in fondo-in fondo, covano interessi e/o vantaggi personali.

Politici, economici, di fama, di relazione, di guadagno

Ricordo ai lettori che Sardegna Antica è sostenuta da studiosi veri e soprattutto non ha scopo di lucro (non sarebbe in buona salute se così non fosse) e ben lo sanno ora gli sbavanti che provarono a “sottrarci” lettori e iniziativa, benché spalleggiati da molti soldi pubblici garanti.

Un altro enunciato importante è: “Amare qualche cosa significa rappresentarla esattamente com’è”.

In sostanza, si devono descrivere obiettivamente sia i pregi dell’oggetto amato, sia i difetti, malgrado i quali lo si ama. Insomma, non si deve mai edulcorare o falsare ipocritamente.

Sappiamo bene che con questa filosofia si perdono alcuni lettori schierati o amanti delle favole e talvolta infantili, ma si guadagna alquanto in autostima e generale credibilità.

Descrivere il passato della Sardegna come si vorrebbe sia stato (anche se lo si vuole fortemente), è azione ipocrita, infondata, antistorica, ascientifica e vergognosa. Certi furbi descrivono storie e vicende proprio come i loro “seguaci” desiderano: lo sanno bene.

Vogliono solo vendere i propri libri o “comprare” voti, acquisire fama, soldi, simpatie e vantaggi, inviti a feste (anche inventate ad arte), sagre, congressi vari, presentazioni e manifestazioni… tutte occasioni per vendere “libri zeppa”, solo buoni per fermare tavoli pencolanti.

Scoprire il gioco di questi furbi truffatori è semplice: ¡seguite la traccia… dei soldi! Tutti i ciarlatani (sardi gloriosi compresi) inseguono i soldi.

La linea di Sardegna Antica è invece quella di combattere le malefatte, le inesattezze, le stupidaggini archeologiche o storiche ecc., senza quartiere né remore di sorta.

D’ora in avanti contiamo di stigmatizzare meglio i soprusi e i danni perpetrati a danno del comune patrimonio culturale e monumentale sardo, chiunque sia l’attore e di qualsivoglia levatura e “autorità acquisita”, senza eccezioni.

Questo vale per la recente (e antica) denuncia a carico dei menhir di Bidu ‘e Concas (non sono chiari gli intenti, ma c’è qualche fondamento), mentre rimandiamo alle passate denunce, come pure alle future che ci premureremo di segnalare ai lettori e… alla magistratura (non se ne può più di gravi scempi e abusi di certe mancate spose).

Immagine di apertura: Tomba di giganti arcaica Li Lolghi – Arzachena, miseramente ricomposta, con gravi errori di postura della stele e ricostruzione dell’esedra, che pare annoverare ortostati improvvisati, impropri o non congruenti

Combatteremo anche con recensioni di libri, specie se inutili, costosi e spesso finanziati con fondi regionali. Tra l’altro si veda già qualche esempio fra le recensioni di questo fascicolo.

Preannuncio articoli a venire, interessanti come sempre, ma questa volta forieri di possibili conseguenze… che affronteremo in diverse sedi.

In coscienza dico che il lettore di Sardegna Antica può fidarsi: con noi dispone di un interlocutore fermo, onesto e aperto al dialogo, che lo terrà coi piedi per terra, specie quando i furbi conta-storielle cercheranno di rifilargli per vero l’invisibile “unicorno rosa”… ¡perfino in televisione!

Per le vicende di Preistoria e Storia – quelle dimostrate -, la Sardegna deve essere più che fiera di ciò che fu e per la grande importanza nell’evoluzione dell’Occidente moderno: non c’è bisogno di trucchi giornalistici, né di belletti posticci, meschini, risibili e controproducenti.

Giacobbe Manca

Editoriale n.56 di Giacobbe Manca Leggi tutto »

Letteratura: conquista dell’uomo

In 3000 anni di storia Sumeri, Accadi, Babilonesi e Assiri esprimono la loro grande tradizione mitologica e religiosa attraverso migliaia di testi cuneiformi che ci offrono un quadro molto ampio e complesso della loro letteratura. Il termine Mesopotamia (fra i fiumi), indica la terra fra i bacini idrografici dei gran- di fiumi Eufrate a ovest e Tigri a est.

In questo territorio si sviluppa precoce- mente quel fenomeno poi chiamato “Rivoluzione neolitica”: domesticazione di piante e animali, rapida aggregazione urbana: prima piccoli villaggi e poi formazione di grandi città.

Le condizioni ottimali per la coltivazione dei cereali di- pendevano dal regime delle precipitazioni atmosferiche che in questo territorio erano e sono insufficienti, dunque fu necessario ideare grandi opere di irrigazione e canalizzazione artificiali per attingere l’acqua dai due fiumi.

Queste abilità presumono l’intervento di personaggi con capacità organizzative e di comando, che daranno origine a società controllate e guidate da caste dominanti.

Quella società stratificata poneva al centro del potere il “Tempio” o il “Palazzo”, che immagazzinano scorte alimentari, materie prime e prodotti artigianali, la cui distribuzione alla comunità è controllata e pianificata.

Ora nasce l’esigenza di tenere i conti, codificare e prendere nota di movimenti, merci e beni. Il materiale usato per liste e annotazioni amministrative sono l’argilla e lo stilo, materiali abbondanti nel Paese del limo e delle canne.

Rilievo assiro in alabastro che ritrae Gilgamesh, VIII secolo a.C

A questo scopo sono ideati, già a partire dal Neolitico (10.000 anni fa), piccoli gettoni d’argilla (contatori) che servono per comunicare informazioni precise su quantità e qualità dei prodotti e delle risorse. Questo sistema durerà a lungo, almeno per 5000 anni, fino ad arrivare alla semplice scrittura su tavolette piane di argilla fresca e il loro scopo rimane a lungo nell’ambito dell’amministrazione e della contabilità.

Quando finalmente scrittura e operazioni contabili si separano, intorno al 2700-2600 a.C., si compongono testi storici, religiosi, legali, scolastici e letterari, inclusa la poesia. In particolare, si ha una sorprendente fioritura della letteratura.

La tradizione orale, elaborando riflessioni approfondite, è fissata con la scrittura in componimenti di grande respiro, profondità e pregio letterario. Nascono i miti nei quali gli uomini creano risposte: gli dei e i loro conflitti, l’origine del mondo e dell’uomo, la creazione dell’universo, tale da assicurarne il perpetuo funzionamento, il senso della vita, le disgrazie, i problemi posti dal male, l’inevitabilità della morte.

La Mesopotamia, terra dei Sumeri prima e degli Accadi di origine semita poi, è popolata da mille e più divinità, il mondo è il loro dominio e gli uomini sono sudditi, servitori.

Statua in alabastro della dea Ishtar che indossa un mantello e un copricapo di vello di montone. III millennio a.C

Esse possedevano, amministravano e governavano come re. Un pantheon sterminato, popolato sia dagli dei principali, fondatori e protettori delle città-stato, sia da un gran numero di divinità minori a protezione d’ogni attività umana, dal lavoro del contadino e dell’artigiano, coi loro attrezzi, alle funzioni del sovrano.

Gli dei erano visti come esseri superumani, dotati di poteri ultraterreni, ma anche di tutti i difetti di uomini e donne.

Erano immaginati come esseri possenti e di enorme statura; erano intelligenti e astuti, anche se potevano essere ingannati; garanti della giustizia e dell’ordine costituito ma capaci di azioni discutibili o im morali; pativano lo sconvolgimento delle passioni, della gelosia, dell’odio e della lussuria, i morsi del- la fame e della sete come gli esseri mortali.

Le divinità più importanti erano l’espressione della natura e dell’ordine cosmico. Il dio supremo, An, “l’In Alto” o “Cielo”, governava la parte superiore dell’Universo.

Enlil “Signore dell’Atmosfera”, sovrano del Mondo di Mezzo, dove vivono gli uomini, cioè la Terra coperta dalla Sfera Celeste, sospesa sulle acque primordiali e percorsa dai soffi dei venti cosmici, alito vitale della Terra stessa.

Enki “Signore dell’Apsu”, l’abisso di acqua dolce, l’oceano sotterraneo che regge l’intero universo (in pratica, la Mesopotamia), è il mediatore fra la sfera divina e l’umanità: è benevolo, giusto, intelligente, lungimirante, creativo, scaltro e ragionevole, è il dio più vicino al genere umano, somigliante all’uomo ideale e perfetto.

[……..continua………..]

Leggi l’articolo completo sulla rivista

Letteratura: conquista dell’uomo Leggi tutto »

Vandalusia di Sardegna

Vandali storici e Vandali odierni

Dei Vandali storici sappiamo molte cose: partirono dal regno fondato in Africa guidati dal re Genserico nel 455 d.C., si stanziarono in Sardegna per proseguire verso Roma, decadente capitale imperiale, che saccheggiarono nello stesso 455.

Erano Germani, provenivano dalle rive del Baltico (tra l’Oder e la Vistola), quindi si spostarono in Pannonia (409) per poi invadere la Gallia e la Spagna (La Vandalusia , oggi Andalusia).

Passato lo stretto di Gibilterra (428), si fusero con gli Alani (erano Irani o Ariani), divenendo potenti al comando di Genserico.

Il loro regno si estendeva lungo l’ex provincia romana dell’Africa mediterranea, da Gibilterra alla Cirenaica (attuali Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, cui presto di aggiunsero la Sicilia, le Baleari e la Sardegna).

In quest’Isola misero piede nel 455 quando, sempre al comando di Genserico, volsero le prue verso Roma (455), che fu saccheggiata.

Volendo dare credibilità a certe raffigurazioni pittoriche del “sacco di Roma” vandalico, si dovrebbe credere – senza prova – che allora fu trafugata la menorah aurea, tenuta a Roma dopo la distruzione del tempio a Gerusalemme

Imperversarono in Sardegna per circa 80 anni, fino alla sconfitta subita dai Bizantini nel 534.

Nessun monumento di rilievo restò nell’Isola dalla loro azione di rude spoliazione, ma è indubitabile che anche loro seppellissero i defunti con una modalità che da diversi anni tende a delinearsi attraverso tombe dalle caratteristiche assai essenziali e, in modo analogo – è verosimile – seppellirono i depredati isolani, superstiti della Roma famelica.

Il loro nome, tutti sanno, ha l’accezione di incolti, rozzi e violenti, quali furono. Seguivano, però, la dottrina cristiana, secondo i dettami dell’Eresia Ariana.

Significativa la novella di L. Pirandello, dove l’umorismo e il sarcasmo della vita cade su un docente erudito. Assai miope, costui tenne una memorabile Letio Magistralis avverso l’Eresia Ariana, nella sua aula sempre deserta, ma il giorno, per l’irresistibile richiamo della detestata e “oscura” eresia, era invece gremitissima … di soprabiti lì posati casualmente, in un giorno di forte pioggia (in Novelle per un anno, (1937e 1938), postuma).

Veri Vandali e loro emuli odierni, per incultura e genetica, hanno sempre parassitato la società civile.

L’archeologia, nel suo piccolo, ne “parla”, lamentando cicatrici quali esiti di malefatte segnalate, con pervicace cadenza, nelle pagine di Sardegna Antica C. M..

Da tempo però si dà anche conto di rinvenimenti o rivisitazioni su certi monumenti dalla “strana” consistenza, collocabili tra il “ciclopico e l’approssimativo”; essi figurano già nella fantasiosa, “obbligatoria”, letteratura universitaria del dopoguerra, i cui autori “attinsero” in modo discreto (= s’appropriarono in silenzio) – serpeggia la certezza, di certe pubblicazioni del primo Novecento, (una in italiano e tre in inglese), dell’archeologo Duncan Mackenzie, scozzese di buon scotch.

D. Mackenzie

Di D. Mackenzie si conosceva una breve pubblicazione della rivista usonia del 1908, tradotta in italiano dal direttore della British School di Roma, utilizzata come biglietto da visita per fare cassa (convogliata a Londra) per la loro attività di “esplorazione” (periodo coloniale).

Altre tre pubblicazioni erano in inglese e qualche docente se le fece tradurre (fino all’8 settembre del ‘44 si masticava il tedesco). Alla ripresa univer- sitaria, uno scritto del 1910 fu ritenuto particolarmente “fruttuoso” per gli accademici cooptati del secondo dopoguerra, dopo le distruzioni belliche, il vuoto culturale e lo sgomento lasciato dalle leggi razziali, pure acclamate da neo docenti universitari che s’avvantaggiarono della situazione.

Comunque Mackenzie morì nel ‘35; in Sardegna non lo conosceva nessuno e all’università dei miei tempi i docenti si guardarono bene dal consigliarci o procurarci le sue letture: neanche era citato alle lezioni. Era “pascolo riservato” come le fanciulle… “riservate al sovrano”. Ora è tutto più chiaro

Definito “allievo” della British Scool di Roma, in quel momento storico aveva molti motivi per affermare le sue riflessioni: quelle stesse che artigli “padroni”, ingordi, presero dai suoi scritti, in mancanza di studi personali. Presero le sue inferenze e i buoni schemi, per lui realizzati dall’architetto Newton.

Quei disegni sono ancora utilizzati, per cronica mancanza di nuovi apporti (ché gli archeologi indigeni non sanno rilevare i monumenti, né disegnarli e… manco li conoscono).

C’è da dire che i non pochi errori di Mackenzie derivavano dall’inesperienza con i monumenti dell’Isola selvaggia (peraltro, malgrado i trattatelli onirici e gli scritti “autorevoli” di molti, tra Ottocento e Novecento, nessun accademico li conosceva, proprio come accade oggi.

I monumenti dell’Isola “sconosciuta” hanno varietà e particolarità che egli non poteva immaginare malgrado i suoi scavi, a Filacopi, e prima ancora, con A. Evans nell’Egeo, a Micene e a Cnosso.

Dunque Mackenzie ha molte scusanti per gli svarioni delle sue esegesi, magari un po’ meno per i granitici preconcetti mutanti, che lo indirizzavano tra uno scritto e l’altro.

In concreto egli descrisse anche alcuni monumenti culturalmente “intermedi” – secondo lui – tra dolmen e domo de janas, tra dolmen e tombe di giganti, ma diede anche saggi di lettura su alcuni nuraghe.

Quasi tutto ormai fa parte integrante dei manuali universitari detti, ma non alla di lui gloria e memoria, ma d’altri nomi che hanno fatto epoca e che pensavano anche di meritare le medagliette di carta che andavano appiccicandosi al petto (¡l’archeologia era roba di quei Mazzarò! Avrebbe convenuto Verga).

È meglio chiarire che il lesto-prestito, omertoso, non di vantaggio si rivelerà, ma – alla lunga – sarà per loro di grande e disonorevole svantaggio.

Menhir di Biru ‘e Concas (Sorgono)

Fra i detti monumenti figurano – per i prof attuali – una dozzina di dolmen e come tali da loro collocati nel Neolitico: a ben vederli sono apprestamenti essenziali, senz’arte, fatti con pietre brute e di recupero, spesso gravanti su monumenti ben più antichi che, di per sé, se saputi leggere, offrono riferimenti di cronologia relativa, quantomeno, e comunque allontanano dalle sirene del Neolitico

Per l’archeologia, ben si comprende, le sepolture sono molto importanti, non solo per le civiltà più ricche, ma anche per le culture (= popolo, in Antropologia) più essenziali.

Testimonianze architettoniche (o tipo tombale) o scrigni di ritualità e talvolta di contenuti religiosi, sono testimonianza di chi le produsse. Questo vale anche per i Vandali, che in Sardegna null’altro – parrebbe – abbiano lasciato di sé e della loro violenta società di cavalieri transumanti e grassatori; nell’Isola queste tombe, riconosciute ancora da pochissimi, furono e sono ritenute “dolmen neolitici”, nientemeno, a segno di una sostanziale incapacità di “leggere” le architetture e le loro tecniche costruttive.

L’errore, non da poco, è triplice: limiti nell’approccio conoscitivo in architettura preistorica; limiti culturali; solenne strafalcione cronologico (¡4000 anni di deriva!).

[……..continua………..]

  • Biru ‘e Concas (Sorgono)
  • 2. ¡Vandali di Stato, per esempio! – grotta Pirosu o Su Benatzu (Santadi)
  • 3. L’ultima dei Vandali – S’Ena ‘e sa Vacca (Olzai )
  • 4. Vandali e “vandalate”di casa nostra – Monte Baranta (Olmedo)
  • 5. Da Biru ‘e Concas a Monte de S’Abe

Leggi l’articolo completo sulla rivista

Vandalusia di Sardegna Leggi tutto »

La Grande Statuaria

È necessaria una certa pazienza al fine d’ottenere la rappresentazione completa di un quadro composito. Esso si è andato componendo in un lunghissimo periodo di tempo, in varie aree geografiche distanti tra loro e presso differenti culture, confermando alla fine che esiste un unico meccanismo creativo sottostante, che è proprio dell’Uomo.

La statuaria è solo una delle numerose espressioni dell’Arte, in particolare di quella che riguarda la scultura della pietra locale nelle sue varietà.

L’arte Italica è quella prodotta dalle varie popolazioni abitanti la penisola italiana nel periodo protostorico, tra la prima età del ferro (IX-VIII secolo a.C.) e il completo dominio di Roma (inizio del I secolo a.C.).

Per la produzione artistica precedente si parla di arte preistorica, per quella successiva di arte romana, per la quale gli influssi originali provenienti dalla tradizione artistica italica divengono solo una delle tante componenti di quella dominante Si deve guardare all’arte dello scolpire nella sua prospettiva, a partire dai primi tentativi realizzativi e quindi motivazionali. In quest’ottica i betili, i menhir e i differenti tipi di stele, tutti insieme rappresentano i primi stadi evolutivi di questa particolare espressione dell’arte.

Stele (sing. e plur. ; raro il plur. -i), lastra oblunga di pietra, ornata con decorazioni, bassorilievi, iscrizioni e sim., infissa nel terreno o poggiata su un basamento, avente lo scopo di ricordare un seppellimento (s. funeraria), lo scioglimento di un voto (s. votiva), un fatto memorabile avvenuto in quel luogo, o anche di indicare un termine di confine

A saper ben leggere le forme, i simboli e i materiali, se ne possono trarre di volta in volta preziose informazioni sulle culture che ne permisero la comparsa e ne fecero uso.

Per ciò che attiene alla statuaria, la storiografia generalmente non include nell’arte italica né quella prodotta nelle colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia, né quella etrusca, né quella sarda che era peraltro di fatto sconosciuta fino alla scoperta delle statue inizialmente dette “Giganti di Monte ‘e Prama”, avvenuta nel 1974.

In linea di massima i popoli italici, anche sotto il dominio greco, mantennero sempre una tendenza ad un’espressione artistica meno formalizzata e più vivace e spontanea.

Questa espressività locale rimase più chiaramente avvertibile in particolare nelle popolazioni abitanti in aspre zone montane, più lontane dal contatto greco, come i Piceni o i Sanniti.

Si devono aggiungere a questi i Sardi, che certamente filtrarono gli apporti culturali esterni, scegliendo ed adottando ciò che di quelli trovavano più consoni a propri gusti ed esigenze.

È corretto credere che l’arte italica abbia avuto origine già secoli prima del IX secolo a.C., quando ci furono i primi scambi commerciali nel sud Italia, e gli esempi più chiari sono i dolmen e i menhir del Salento, insieme ai graffiti nelle grotte del Gargano.

“Autoctono” non è mai veramente nessuno: ognuno deriva da qualcun altro, altrove, cui è debitore di qualche prestito culturale e genetico

Le popolazioni che meglio svilupparono un’arte propria, sempre sotto l’influenza dei coloni della Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., furono gli Etruschi e i Dauni di Puglia, seguiti dai campani di Capua.

L’arte spaziò dall’architettura monumentale dei templi, come nel miglior esempio nell’area sacra di Paestum, all’uso della ceramica, della terracotta e del bronzo per sculture minori di monumenti funebri, di vasi e di statuette votive.

L’arte italica, sviluppatasi nell’VIII secolo a.C., si fuse infine con quella di Roma nel I secolo a.C. dopo le campagne di conquista dell’Urbe del III secolo a.C., partendo da Taranto, dalla Sicilia durante le guerre puniche, e infine durante le guerre sannitiche e la guerra sociale nel I secolo a.C.; i primi contatti, al livello architettonico, erano comparsi nel III secolo a.C..

Dopo l’assimilazione romana di tutto il potere italico, l’arte di tali popolazioni scomparirà con la piena unificazione politica di Roma del territorio peninsulare.

Comunicazione mediatica

È inteso che vi sia stato un obbligatoriamente lungo periodo di evoluzione dell’espressività umana attraverso la scultura della pietra.

Oggi forse nessuno si stupisce più tanto del fatto che un messaggio possa essere indifferentemente comunicato da un’immagine fissa su un cartellone, come anche da un’immagine mobile su uno schermo riflettente, o addirittura da uno schermo diafano sul quale l’immagine è trasferita da molto lontano.

Al riguardo, la tecnologia mediatica più avanzata 5.000 anni fa era la pietra incisa eventualmente colorata: ed era altrettanto stupefacente quanto lo è oggi un sofisticato ologramma tridimensionale.

Naturalmente, doveva essere grande la motivazione, per spingere all’impiego di tanto impegno e del lungo tempo necessario alla realizzazione dell’opera.

Perché fare le statue?

La simbologia rappresentativa delle statue è – in fondo – anche la simbologia dei gesti. L’espressione umana attraverso le immagini grafiche graffiate, o dipinte e quelle volumetriche sempre più corpose degli altorilievi e delle statue a tutto tondo si basa su alcune posture ed alcuni gesti ed espressioni che dovettero essere inventati. È in Mesopotamia che si codifica per la prima volta il sistema dei valori semantici legati a ciascun gesto.

[……..continua………..]

  • I Lamassu
  • Statue stele
  • Le stele lunigianesi
  • Un inciso

Leggi l’articolo completo sulla rivista

La Grande Statuaria Leggi tutto »

Dalle penne alle pinne

Vola sull’acqua per ore, senza sosta. Può rimanere in mare aperto e perlustrarne la superficie alla ricerca di cibo per settimane, senza mai toccare terra.

Tra i luoghi di nidificazione ci sono le piccole isole del Mediterraneo e la Sardegna, lungo le sue alte coste rocciose, negli anfratti, o in tane appositamente scavate. Si tratta della berta maggiore (Calonectris diomedea), specie simbolo del mar Mediterraneo.

Il nome scientifico di berta maggiore, così come quello del genere dei grandi albatri (Diomedea) richiamano quello di Diomede, uno dei principali eroi achei della guerra degli Epigoni e della Guerra di Troia. Nel mito, Diomede assunse un ruolo fondamentale come diffusore della civiltà, specialmente nell’Adriatico dove, con due enormi blocchi provenienti dalla distrutta rocca di Pergamo, creò il Subappennino e il Gargano e, infine, essendogli rimasti in mano alcuni ciottoli, le isole Tremiti, dove si era ritirato assieme ai suoi compagni.

Dopo la sua morte, Venere, per compassione verso il dolore dei compagni, trasformò questi ultimi in uccelli, perché facessero la guardia al sepolcro del loro re, che ancora oggi continuano a piangere. Secondo Aristotele questi uccelli accoglievano con amicizia i Greci e con aggressività i barbari, come se riuscissero a distinguerli istintivamente. Sull’isola di San Nicola vi è una tomba di epoca ellenica chiamata ancora oggi la Tomba di Diomede

La berta maggiore (Calonectris diomedea) è un uccello marino di medie dimensioni, dal piumaggio bruno sul dorso, che sfuma verso il bianco sul collo e sul ventre. Ha ali strette, allungate, con una apertura alare di quasi un metro e la coda corta e rotondeggiante.

Il becco è giallo e le zampe rosate. Il suo verso caratteristico può apparire all’orecchio umano affascinante e inquietante allo stesso tempo. Udibile anche dal mare, si dice che sia proprio il canto delle berte ad aver dato origine, nell’Antichità, al mito delle sirene (foto di Massimo Picentino)

Il suo verso è molto simile ad una voce umana, o meglio al vagito di un bambino, più acuto nel maschio e più grave nella femmina. Gli Antichi conoscevano molto bene questi canti notturni che, al contempo, affascinavano e spaventavano.

Molto probabilmente è stato questo caratteristico richiamo a ispirare l’antico mito delle sirene. Ma va fatta un po’ di chiarezza. L’immagine più comune e popolare che oggigiorno si ha delle sirene è quella di splendide donne-pesce, ma in origine erano figure della mitologia greca rappresentate con l’aspetto umano nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore e in loro mancava la forte sensualità che invece contraddistingue le sirene più tarde. Le antiche sirene mitologiche greche non ammalia- vano con il corpo ma con il canto.

Cfr. Platone a proposito dell’origine delle cicale e del loro dono del canto “[…] invece (le cicale) vedano che dialoghiamo e le oltrepassiamo navigando, come davanti alle Sirene, senza farci affascinare […]” (Plat., Phaidr. 258-59).

Esse incantavano i marinai, che, se incautamente sbarcavano sulla loro isola (che secondo Omero si trovava presso Scilla e Cariddi, ma secondo altre versioni sotto l’Etna o al largo di Terina) vi morivano.

Le sirene promettevano agli uomini di svelare tutto ciò che accadeva o era accaduto sulla terra, li invi- tavano “a sapere più cose”, li portavano a una co- noscenza onnisciente e talmente totalizzante da far dimenticare loro perfino i legami familiari, cosa condannata dallo stesso Omero, tanto da fargli descrivere la loro isola come mortifera e disseminata di cadaveri in putrefazione.

moglie e i figli bambini gli sono vicini, felici che a casa è tornato, ma le Sirene lo incantano con limpido canto, adagiate sul prato: intor- no è un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza“ (Hom. Od. XII,39-46).

Immagine in apertura Napoli, Fontana di Spina Corona: la sirena Partenope (copia del XX secolo dell’originale del 1498 circa) in procinto di spegnere le fiamme del vulcano Vesuvio con l’acqua che le sgorga dai seni (foto di Monia Noviello)

Le sirene tentarono anche Odisseo/Ulisse che, pur di ascoltare il loro canto si espose al pericolo facendosi legare all’albero della nave, senza farsi tappare le orecchie con la cera, come fece fare ai suoi compagni su suggerimento della maga Circe.

Nel XX secolo, in un racconto di una pagina soltanto (Il silenzio delle sirene, Das Schweigen der Sirenen, 1917), il genio letterario di Kafka sembra volerci dire che Ulisse si sia difeso non tanto dal canto delle Sirene bensì dal loro silenzio. Il canto delle sirene era noto a tutti nell’ Antichità e non sarebbero certo bastate una corda e dei tappi di cera per le orecchie per sfuggirvi.

Impegnato a distribuire tappi di cera e a sistemare corde intorno all’albero maestro, Ulisse non si accorge che le Sirene fissano lo sguardo nel riverbero dei suoi grandi occhi e dimenticano di cantare. Ma le Sirene hanno un’arma che è ancora più terribile del loro canto, ossia il silenzio che Ulisse scambia per il canto da cui pensa di proteggersi.

Egli vede di sfuggita, mentre la nave passa davanti al loro scoglio, i loro occhi pieni di lacrime e le loro bocche socchiuse e crede che ciò faccia parte del canto che, non udito, risuona intorno a lui. E proprio quando è più vicino a loro esse scompaiono alla sua vista perchè, abbagliate da ciò che avevano scorto di profondo o di terribile nel suo sguardo, non vogliono più sedurre.

Proprio Ulisse, il più astuto fra gli uomini, non si è accorto che le Sirene in realtà tacevano. O forse se ne è accorto e ha opposto a loro la sua finzione (da http://www.poesiaeletteratura.it/wordpres- s/2012/02/l-irresistibile-melodia-del-silenzio-franz-kafka/).

Omero riporta il canto: “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose”.

L’origine letteraria delle sirene è proprio nell’Odissea di Omero (intorno al IX sec. a.C.), che ne cita due, senza dar loro nomi propri. Nel corso dei secoli numero e nomi variano: da due si passa a tre, poi a quattro e i nomi sono Aglaophone, Leucosia, Lìgeia, Pisinoe, Telsiope, Partenope…

[……..continua………..]

Leggi l’articolo completo sulla rivista

Dalle penne alle pinne Leggi tutto »