N.63

Le epigrafi di San Pietro di Sorres e San Pietro di Oschiri

San Pietro di Sorres – 1221 L’epigrafe commemorativa

La cronologia dell’antica cattedrale di San Pietro di Sorres in agro di Borutta, tra le più eleganti e raffinate basiliche medievali della Sardegna, è stata oggetto di studio e terreno di confronto di numerosi studiosi sin dai primi del Novecento.
«Un impenetrabile silenzio avvolge l’origine e le vicende della Chiesa di S. Pietro di Sorres; non si conosce né il nome dell’architetto, né l’epoca in cui venne costrutta». Esordisce così, nel 1907, il regio soprintendente Dionigi Scano, che ipotizza che l’abbaziale benedettina sia stata costruita in un’unica soluzione, nel corso del xii secolo. Raffaello Delogu, sulla base dell’analisi formale delle strutture, individua due distinte fasi costruttive riferibili alla seconda metà dell’xi secolo, e una terza alla fine del xii. Dell’impianto più antico, resterebbe un tratto inglobato nel paramento meridionale; di un secondo, di qualche tempo più recente, distinto da fori pontai rettangolari disposti verticalmente, resterebbero tracce in tutte le quattro facce della chiesa, per una altezza di tre-quattro metri.

Ragionevolmente il Delogu confonde la chiesa di Sorres con il S. Antioco di Bisarcio, che ha i fori pontai quadrati solo nella parte superiore. In realtà, nei due fianchi del S. Pietro, sotto i fori pontai rettangolari si osservano gli stessi fori quadrati delle parti alte della chiesa, per cui è irricevibile l’ipotesi di una seconda fase alla fine del xi secolo. Lo studioso assume quindi una lunga sospensione dei lavori, il cui riavvio sarebbe conseguente le chiese pistoiesi sorte tra il 1160 e il 1170 e le chiese pisane erette entro l’ultimo decennio del secolo xii. Su questa base si dovrebbe ammettere che «i lavori, iniziati tra il 1170 ed il 1180, si concludessero prima dello spirare del secolo».

Un più attento esame permette – in questa sede – l’integrazione e la rilettura dell’epigrafe, scolpita su due righe in un volgare locale, in caratteri capitali, onciali e cifre arabiche. Ha uno specchio epigrafico di cm 56 x cm 18 e una altezza di caratteri compresa tra cm 3 e cm 7. Dopo una croce patente, con funzione dedicatoria e il nome del responsabile della fabbrica di Sorres «+ mariane maistro», insieme a poche altre lettere di complemento, l’iscrizione fissa – nel «1221» – l’anno di ultimazione dei lavori e di consacrazione dell’altare.
Al nuovo dato consegue un aggiornamento della cronologia della costruzione, che deve essere posticipata di circa un quarto di secolo, quando la chiesa fu completata o forse ricostruita tra la fine del xii secolo e il 1221, direttamente sul paramento di base di metà della seconda metà dell’xi secolo. Raffaello Delogu nel 1953 scriveva che «le sole maestranze capaci di realizzare simili volte [cupoliformi del S. Pietro di Sorres] sembrerebbero, nella Sardegna settentrionale del xii secolo, quelle francesi e, per la vicinanza geografica e d’ambito politico culturale, le stesse che voltavano la “galilea” del S. Antioco di Bisarcio».

San Pietro di Oschiri-1609 L’epigrafe della dedicazione

Alla periferia occidentale dell’abitato di Oschiri sorge, su un modesto poggio, una piccola chiesa seicentesca, eretta forse su un tempio bizantino già consacrato a San Pietro, da cui proverrebbe un reliquiario litico bivalve, oggi disperso, ma di cui resta una rara immagine e qualche nota bibliografica. Nell’architrave basaltica del portale di ingresso della chiesetta è scolpita, a basso rilievo, una inedita epigrafe in lingua latina e greca, in prevalente scrittura capitale epigrafica, insieme a cifre arabiche, a un numero romano e al disegno di una piccola colomba in volo. Ha uno specchio epigrafico di circa 160 x 30 cm e un’altezza dei caratteri compresa tra 7 e 15 cm circa. Non è di facile interpretazione per un buon numero di abbreviature per troncamento e maggiormente per l’anarchia dell’ortografia, sacrificata da un estroso lapicida per un bizzarro gusto estetico, teso alla rappresentazione di una struttura piramidale che converge verso una
croce mediana, forse evocativa del monte Calvario, per certo di una tensione verso l’alto, quindi di una ricerca delle realtà celesti e soprannaturali.

Al centro dell’epigrafe, entro un quadrato bordato di un listello, è il cosiddetto “Trigramma di San Bernardino” – “jhs” – una sorta di logo cristiano che, per alcuni autori, sarebbe abbreviatura per contrazione del greco per “jh[σου]ς” (“Jesûs” = Gesù), con una croce potenziata costruita sull’asta orizzontale della “h”, secondo uno schema introdotto dal Frate di Siena nel secondo decennio del xv secolo. Alla sinistra del quadrato, nella riga in basso, la cronologia della consacrazione della chiesa è introdotta da una “A” maiuscola, di un corpo ben superiore a tutte le altre lettere dell’epigrafe, e da una “d” minuscola, nell’insieme canonica abbreviatura di “a(nno) d(omini)”, accompagnate dalle cifre arabiche “16” (il giorno) e dal numero romano “x” (il mese). In simmetria, alla destra del quadrato, nella riga in basso, è il numero dell’anno – il “1609” – seguito da una croce greca potenziata, in luogo della croce patente, di norma riscontrata nelle epigrafi di consacrazione di un tempio. Così intesa, la cronologia – “ad 16 x † ihs 1609” – celebra, insieme al Gesù nel cui sacro nome è fatta la dedicazione, quel venerdì 16 ottobre del 1609 della intitolazione della chiesa…

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Is Montalgios

Tra le pratiche che hanno contribuito a qualificare l’identità comunitaria dei suoi abitanti come montalgios (montanari) e biaxiantes (cavallanti o viandanti girovaghi), vi è senz’altro l’attività d’incetta e commercio della neve.

L’etnonimo aritzesos ha identificato fino alla metà del Novecento, in gran parte dell’Isola, i venditori girovaghi di castagne e nocciole ma soprattutto di neve e carapigna. In Sardegna lo sfruttamento commerciale della neve è nato ad Aritzo nel 1636, a prestar fede a un documento di molto posteriore datato 1696 conservato presso l’Archivio di Stato di Cagliari, che riportata in veste parziale “dal regesto del Pinna”. L’attività ebbe inizio quando gli imprenditori aritzesi Gerolamo Pirella, Antonio Cuy Lay e Giovanni Bachisio Fadda scavarono a proprie spese alcuni pozzi nelle montagne di Aritzo per conservarvi la neve. Chiesero quindi al Re Filippo IV, nel 1636, di stabilire l’arbitrio o privativa per la provvista della città di Cagliari, e ne ottennero essi stessi la concessione regia, versando alla cassa regia la somma di 35.000 reali. In seguito la presa e la conservazione della neve si faceva anche sulle montagne di “Parte Olla” e in quelle di “Fontana Cungiada”, aumentando anche il numero dei pozzi sul Gennargentu, tanto che nel 1704 si rinnovarono i sette già esistenti e se ne costruirono altri tre.

Dice Giuseppe Luigi Devilla, La Barbagia e i Barbaricini, 1889: “Questo lavoro dava pane a molte famiglie e fruttava molti denari agli industriali”.
Una copiosa documentazione rivela che i profitti erano cospicui, al punto che i titolari della gabella spesso potevano permettersi di risiedere a Cagliari, preoccupandosi unicamente di affidare a sovrintendenti o a soci in affari l’esecuzione dei lavori ad Aritzo dove si recavano solo per i sopraluoghi. Ancora il Devilla osserva come il commercio della neve fosse: “… scaduto dell’importanza che aveva prima per il grandissimo uso del ghiaccio venduto a prezzo di nulla”. L’apertura poi di una fabbrica del ghiaccio a Cagliari nel 1903 accelerò ulteriormente la decadenza dell’attività, tanto che nel 1921, in una delibera di Consiglio, si afferma che: “Un tempo era in fiore l’industria della neve che si raccoglieva d’inverno e si smerciava d’estate, trasportandola a dorso di cavallo in tutti i paesi di pianura per preparare i sorbetti refrigeranti nelle feste popolari”.

A sentire M. Roberti, La privativa della neve in Sardegna, 1910, l’areale del commercio della neve era molto ampio, estendendosi quasi all’intera Isola: “La neve veniva trasportata con carri e sopra cavalli, sia a Cagliari sia nelle altre città: a Sassari, a Nuoro, a Oristano, ad Alghero, a Laconi, e anche in molti centri minori: Noragugume, Ploaghe, Codrongianus, specialmente dove erano ville signorili.” Alcuni di queste distanze erano molto lunghe e potevano essere percorse in diversi giorni di marcia, intervallati da brevi soste ai postolgios, poste fisse lungo l’itinerario ove alle carovane, soprattutto ai cavalli, era possibile dare ristoro. Quel che si può documentare con certezza è che a Cagliari, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, nei mesi di luglio e agosto, le carovane erano composte anche di dieci cavalli. I primi cavallanti giungevano ogni giorno intorno alle cinque o le sei del mattino, dopo un percorso di circa centoventi chilometri. Se ne può dunque arguire che il viaggio aveva avuto inizio la mattina del giorno precedente.

I viaggi più lunghi erano però quelli diretti verso Alghero, Sassari e i centri del Logudoro, che duravano anche cinque o sei giorni. In molti di questi centri, come avveniva a Cagliari con le Fondas della neve erano presenti dei veri e propri depositi sotterranei, sas nieras regolarmente alimentati fino ai primi decenni del Novecento In essi, come nelle neviere madri, il ghiaccio era conservato per strati tenuti separati dalla paglia. A Ploaghe, questo deposito, ancora esistente, è costruito attorno a una cavità rocciosa e coperto con una cupola di pietra e calce: è noto come Sa Niera o Maria Marronca.

Untulgeras

Erano costruzioni – trappola edificate in pietra di scisto ed elevate con muratura a secco, databili – le prime – tra il XVI e il XVII secolo, quando giunse ad Aritzo un gruppo di monaci, molto probabilmente appartenenti all’ordine dei Gesuiti: in un documento datato 1578 si menziona, infatti, un Gesuita Aritzese, certo Francisco Noco. Nelle untulgeras si deponevano carogne di animali o capi di bestiame falcidiato dalle morie dovute a malattie epidemiche o per altri motivi, per attirarvi gli avvoltoi. In esse mancavano ampi spazi di manovra e i grifoni ormai sazi e appesantiti non riuscivano più a spiccare il volo, né potevano mettersi in salvo dagli uomini, che li abbattevano facilmente a colpi di bastone.

Dal Cinquecento fino agli inizi dell’Ottocento le penne dei volatili di taglia medio-grande erano utilizzate per la scrittura. Erano utilizzate solamente le penne delle ali, con una determinata curvatura, che consentisse una buona impugnatura. Staccata dal povero rapace, la penna era quindi temperata col calore, tagliata di sbieco, appuntita e fessurata in punta per distribuire l’inchiostro. La descritta “pratica venatoria” impietosa verso animali indifesi, si fondava su una consolidata etnoornitologia accompagnata, manco a dirlo, da convinzioni magico religiose. L’analisi della classificazione dei rapaci, nella forma in cui è stata concepita dai nativi, consente di cogliere come dalla comunità veniva categorizzato quel particolare settore del mondo ornitologico. I rapaci sono definiti is (il) aes e di essi si tramanda una conoscenza puntuale. Erano tutti cacciati per sfruttarne le penne: sugli avvoltoi è stata esercitata una caccia sistematica su vasta scala e con metodi “industriali”.
Allora l’impresa era facilitata in quanto allora gli avvoltoi erano numerosi e di semplice cattura senza armi da fuoco. La loro mattanza si basava su un sistema coerente di saperi e credenze messi in atto da addetti “specializzati”.

Il sistema museale di Aritzo

L’Ecomuseo della Montagna Sarda o del Gennargentu è un sistema museale distribuito sul territorio comunale di Aritzo e articolato in più aree espositive che raccontano la cultura delle comunità del centro Sardegna attraverso la riproposizione degli spazi domestici, degli antichi mestieri, del vestiario tradizionale e di quello del camuffamento legato al Carnevale, per arrivare a illustrare i rituali religiosi e le pratiche magico-stregoniche.
Il percorso museale, nato nel 1980 per iniziativa di un’associazione di volontariato che ha organizzato la raccolta degli oltre quattromila reperti donati dalla cittadinanza, rappresenta una componente inscindibile del patrimonio identitario e ambientale del paese.

Il Museo prigione regia in epoca spagnola, nella seconda metà del 1800 fino al 1936, è diventata carcere mandamentale per i detenuti del circondario in attesa di giudizio. Ubicata nel centro storico, in una cornice di dimore tradizionali di montagna, l’edificio ospita la mostra permanente su Magia e Stregoneria in Sardegna tra il XV e il XVII secolo.

Al centro del paese: Casa Devilla, dimora padronale di una famiglia borghese legata all’antica industria della neve, accoglie oggi una collezione di oggetti di artigianato locale tra cui spicca la cassa nuziale intagliata, manufatto ligneo tradizionale aritzese; il corpo più antico dell’abitazione conserva il nucleo architettonico d’impianto spagnolo.

In Pratza ‘e Iscola, presso la vecchia sede del palazzo comunale, si trova il Museo d’arte dedicato al pittore, ritrattista e incisore Antonio Mura, nato ad Aritzo (Nuoro) nel 1902 e morto a Firenze nel 1972. Artista completo, sia per preparazione professionale sia per adeguata cultura, si distinse nell’esecuzione di opere sacre, seguendo la sua ispirazione profondamente religiosa.

Infine, all’interno del Parco Comunale Pastissu, il Museo Etnografico.
Un percorso espositivo di 8 sale tematiche, in cui sono presenti i reperti relativi alla cultura materiale di una comunità del centro Sardegna. Il Museo illustra il sistema di sussistenza agro-silvo-pastorale, con riferimento ai processi di acquisizione, trasformazione, distribuzione e consumo nel tempo e nello spazio delle risorse alimentari, delle lavorazioni artigiane, del commercio itinerante dei frutti del bosco,, della musica e del settore del vestiario tradizionale.

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Paesaggio di Aritzo – Tra Preistoria, Storia e Geologia

Adagiato sul versante Nord-Ovest del Gennargentu, la montagna più alta della Sardegna, il paese di Aritzo è notoriamente famoso per l’aria salubre, per la coltiva zione delle castagne (Castanea sativa) e per il delizioso sorbetto ottenuto dalle nevi del Gennargentu, chiamato carapigna. Ai prodotti del territorio, a cui sono peraltro dedicate due sagre in agosto e nel mese di ottobre, questo ridente paese affianca anche un’offerta culturale ragguardevole, con ben quattro musei: l’Ecomuseo della montagna sarda, nonché Museo etnografico, la Casa Museo Devilla, il Museo di Arte Moderna e contemporanea Antonio Mura, e le prigioni spagnole di Sa Bovida. Si tratta per la maggioranza di musei etnografici, contemporanei o antropologici, a cui sarebbe opportuno affiancare anche un museo naturalistico-archeologico.

Sebbene il comune non sia particolarmente noto per i suoi monumenti, il territorio è ricco di testimonianze che necessitano di essere “riscoperte”: documentate, elencate e valorizzate. Non può esistere alcuna tutela o valorizzazione se il bene è noto soltanto in forma verbale o, peggio, nella memoria degli anziani. Il nostro articolo nasce con queste intenzioni. L’opportunità per svolgere un simile elenco si è rivelata durante la proficua collaborazione tra gli scriventi, il comune di Aritzo, in particolare nelle figure del Sindaco Paolo Fontana, del vicesindaco Gianluca Moro, dell’assessore alla cultura Andrea Figus, e di tutti i collaboratori museali, in particolare Antonello Todde, che ci ha accompagnato durante le numerose visite.

Coadiuvati dal parere del direttore di questa stessa rivista, abbiamo così proceduto a effettuare più visite per il territorio, accompagnati dai sopraddetti rappresentanti della comunità. Il nostro censimento archeologico vuole essere inteso come un primo approccio documentabile al territorio Aritzese, affinché questi monumenti rimangano impressi nella memoria scritta, e si proceda nel futuro per la loro giusta tutela e valorizzazione. La preistoria del comune di Aritzo comincia il suo percorso evidenziata dalla presenza di diverse Domos de Janas sparse per ripidi sentieri montani, forre incassate e vette irraggiungibili se non a piedi. Le prime che possiamo documentare durante il nostro viaggio si affacciano sul versante Sud della montagna, verso il Flumendosa.
Non sembra essere un caso che la maggior parte dei monumenti da noi evidenziati siano rivolti verso il principale fiume della Sardegna.

.La preistoria del comune aritzese compie poi un balzo nel tempo, con il nuraghe Sa Mecure e la vicina tomba dei giganti di Su Carraxione, posta più in alto rispetto allo sperone roccioso in cui è situato il nuraghe, ascrivibile al tipo arcaico.Il materiale per la sua costruzione, prevalentemente granitico, sembra essere stato cavato dallo stesso sperone roccioso a strapiombo sul Flumendosa, da cui si gode una visione eccezionale sugli altri nuraghi localizzati verso ovest.

Non sembra possibile invece osservare il nuraghe Ardasai di Seui, coperto da un fianco della montagna più a Sud-Est. Il nuraghe si trova nella posizione di 39°55’24” N 9°15’47” E, ad una quota di 978 m.s.l.m. Il sito risulta sicuramente come il più monumentale del territorio di Aritzo, per la potenza dei materiali che si trovano ancora in loco e per la considerevole superficie che occupa il monumento. Il monumento, di difficile lettura per quanto riguarda la sua ipotetica planimetria, suggerisce sul lato orientale la chiara evidenza di un lungo corridoio oramai distrutto, con ancora lunghi tratti di un singolo paramento in aggetto. In vetta si osservano invece i resti di piccole camere o vani oramai distrutti o non rilevabili correttamente.
Non lontano dal monumento ciclopico, in direzione di una vicina fonte d’acqua perenne, si localizza quella che dagli anziani e dalla memoria popolare è nota come “Sa Perda ‘e su Costiu”. Questa, riconosciuta dai locali come un qualcosa di non naturale, su cui si è posata la mano umana, non si tratta in realtà di un presunto altare, come vorrebbe suggerire la fantasia popolare. In particolare, i locali raccontano che la pietra venisse utilizzata per compiere offerte animali per scopi propiziatori. A nostro giudizio si tratta invece dei resti di un più imponente muro ciclopico, con evidente presenza in un breve tratto di un autentico paramento murario e di altre sparute tracce, che possono essere osservate anche tra i massi naturali del costone roccioso su cui è stato insediato il monumento. Doveva presumibilmente trattarsi di un nuraghe, ipoteticamente del tipo arcaico, realizzato con massi di granito, ora prevalentemente crollati verso il basso, ad Est del monumento. Il facile accesso della strada, quasi a ridosso del presunto nuraghe, come la sua vicinanza ad una fonte d’acqua, sicuramente frequentata sin dall’antichità, deve aver contribuito al lento ma inesorabile smontaggio del monumento.

La tomba di Carraxione si trova nella posizione di 39°55’35” N 9°15’47” E a una quota di 1056 m.s.l.m., il monumento in questione si presenta in condizioni decisamente migliori rispetto ai precedenti due nuraghi. È stato possibile eseguire più accurate misure mediante metro laser, oltre che delle efficaci foto dall’alto. Tramite queste è stato possibile determinare che la zona archeologica risulta essere molto più ampia di quanto ipotizzato in passato, con la strada che attraversa addirittura il cerchio di pietre, che diparte dalle due ali dell’esedra, e che tange il perimetro esterno di una formazione rocciosa naturale disposta di poco più a Nord. Di estrema importanza, su tale formazione, è possibile rilevare un singolo masso di forma pressoché ellittica, con misure di 2.80 m per 2.20 m, per uno spessore medio di circa 40 cm (coordinate 39°55’36.7”N 9°15’47.3”E), apparentemente non lavorato, e di forma schiacciata, a somiglianza di uno spesso lastrone. Questo macigno apparentemente naturale risulta invece, a nostro parere, esser stato movimentato sino all’attuale posizione, e stabilizzato mediante l’inserimento su uno dei lati di un piccolo concio, come una zeppa, per bloccare il masso in posizione pressoché orizzontale.

La sua estrema vicinanza alla tomba, la sua posizione poco discosta dal sopracitato circolo di pietre e il suo aspetto di spessa lastra pianeggiante, rialzata ed elevata rispetto al suolo circostante, fanno presumere che si tratti di un altare per le offerte, o addirittura di un masso per la scarnificazione. Tale ipotesi, trova ampio conforto tra gli scritti di G. Manca, in particolare riguardo l’uso di tale rituale presso le tombe dei giganti, presso cui volatili saprofagi come corvi, cornacchie e avvoltoi procedevano alla rimozione dei tessuti molli dalle carcasse.

Il Texile: Attualmente è tutelato come area SIC (sito di interesse comunitario), e, dal punto di vista antropologico vanta anche una frequentazione dal neolitico, secondo quanto riportato da precedenti studi.
La visita corale al monumento, accompagnati dai rappresentanti civici, ha permesso di apprezzare la visione del territorio dall’alto del tacco calcareo, in tutto simile al più noto monumento di Perda Liana. Lo sguardo spazia verso Sud-Est, lungo i tonneri calcarei e le forre del Flumendosa, attraversando il territorio di Gadoni, Seulo, Sadali. Durante giornate particolarmente terse, è possibile vedere, nel cagliaritano, le assai distanti vette dei monti dei Sette Fratelli. Un monumento naturale così eccezionale come il Texile trova ulteriore importanza antropologica nel suo presumibile utilizzo antico come “luogo alto” da parte delle popolazioni che s’insediarono in Sardegna e qui radicatesi dalla fine dell’età del bronzo e forse ancor più dagli inizi dell’età del ferro. Al riguardo della presenza del luogo alto, sul tacco calacreo è possibile osservare, sia pure poco visibile, il disegno a semicerchio di un muro, facilmente equivocabile come un affioramento roccioso, proprio nel punto più alto della cima del Texile.

La forma a semicerchio consente di stimare una misura in forma ellittica di 7.40 m per 5.50 m, a integrare parzialmente gli affioramenti rocciosi del lato W, mentre nel lato N/E si osserva per un altro tratto di m 1.50 e un’altezza di 1. La sovrapposizione dei pochi massi visibili permette di determinare la presenza di un autentico paramento murario, mentre nel lato Sud, si osservano tre chiari conci a coda, disposti a raggiera con la facciata concava ben lavorata con misure di 40-50 cm per una lunghezza verso la coda dai 50 ai 67 cm. Tutti questi elementi architettonici sono attualmente seminascosti dai sedimenti. La diversa natura litologica dei massi evidenzia ti (scisti, arenarie) farebbe pensare che si tratti di un non meglio precisato monumento; i resti delle strutture murarie lasciano presumere che sul pianoro naturale del Texile sia stata realizzata dall’uomo qualche tipo di opera molto più affine a un edificio cultuale dell’età del ferro, piuttosto che un nuraghe. È documentato, infatti, che dal Texile di Aritzo provenisse una navicella bronzea (del periodo detto, appunto)con protome di animale, riportata come conservata presso il museo archeologico di Cagliari…

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