Recensioni

[Recensione] Archeologia di Sardegna

L’isola Selvaggia e Duncan Mackenzie

Catturare un lettore è ardua impresa e così c’è, specie in Preistoria locale, chi ricorre a fantascienza e a fole piacevoli.

Giacobbe Manca è un archeologo, quindi attinge alla concreta realtà del passato, antico e recente.

Si tratta di un’analisi dettagliata, lucida, spietata, dell’Archeologia preistorica Sarda in un libro originalissimo che, insieme, parla dell’ambiente accademico sardo. In sinergia con Piero Cicalò, ottimo traduttore dall’inglese, pubblica gli scritti dell’archeologo scozzese Duncan Mackenzie, per la prima volta tutti insieme e in italiano.

Sono i resoconti delle esplorazioni eseguite nel primo decennio del Novecento su incarico della British School of Rome, diretta da Th. Ashby. In concreto sono appunti di viaggio tenuti da un turista speciale. Mackenzie era un valido orientalista, plurilingue; aveva affiancato Evans a Cnosso, ma era inesperto dei monumenti dell’Isola selvaggia e della Preistoria della Sardegna, sconosciuti proprio a tutti. Solo Nissardi gli diede delle dritte per orientarsi appena con i nuraghe.

Fu ignorato dagli altri “archeologi” sardi e dall’iperattivo Taramelli. Commise molti errori e ciò capita a chi fa ricerca in campi nuovi. Ciò non può essere motivo accettabile di ipocrita rivalsa da parte di infingardi, incapaci nei fatti tecnici e nelle conoscenze archeologiche, che avidamente avocarono a sé!

All’opera Giacobbe Manca premette un quadro articolato, chiaro nell’esposizione di complessi contenuti, motivi e procedura seguiti nello studio annoso. I pensieri integrali, finalmente tradotti, dei resoconti di Duncan Mackenzie (paternità ben sottaciuta per generazioni), sono disposti nelle pagine pari: a fronte di esse, sono le note che Manca appunta per l’indispensabile attualizzazione dei contenuti.

Ben presto si comprenderà che l’assoluta novità editoriale [tutta “l’opera sarda” di Mackenzie in italiano affidabile] non è affatto l’unico, né il maggior merito del libro. Traspare ovunque in quest’opera, “scomoda” per forma e sostanza, la padronanza della materia archeologica dell’Autore, al pari della sua acuta e intransigente capacità critica, ora divertita, ora sdegnata, ma sempre chiara e diretta: virtù essenziale di ogni docente.

Manca spiega anche molte cose, paradossali e dolorose per chi abbia a cuore l’archeologia in Sardegna e senta l’urgenza d’interventi salvifici.

Si tratta anche di un documentato, utilissimo avvertimento ai futuri archeologi sardi, che insegnerà molto a chi voglia e sappia leggere davvero; a chi ancora non conosca (?) certe scorciatoie nascoste e sordide della “cultura” accademica.

Nella sostanza, si tratta di un contenuto irriducibilmente ribelle, profondamente sarcastico, nei confronti di un establishment archeo-sardo inconcludente, pomposo e infingardo.

L’Autore, gentile e riguardoso verso la propria materia, è sempre rispettoso della verità, sopra ogni cosa. Deplora l’archeologia “senza contatto” (quella, per intenderci, di chi “mai scese da cavallo” per toccare con mano e cervello i monumenti sardi), che misconosce “l’archeologia interpretativa”, l’unica che proietta la luce dell’intelligenza sui muri sapienti e sui reperti trovati nel fango delle stratigrafie.

Giacobbe Manca ci racconta alcune verità innovative e inattese, non solo archeologiche, ma storiche e biografiche insieme. Alla fine si dovrà constatare come la realtà possa superare qualsiasi fantasia romanzesca. In verità, non è certo un “libro per tutti”: si deve leggerlo intimamente; bisogna comprenderne la necessità, ma se ne ottiene in premio una personale, fondata e libera opinione sui fatti archeologici e storiografici narrati.

Ai “figliocci” coinvolti per carriera o conniventi per altri interessi darà ulteriori esacerbanti motivi per protestare (debolmente indignati) che solamente di menzogne malevoli si tratti: nessuno li priverà del sonno, né porrà in crisi le loro coscienze volatili, ma potranno ricevere buone dritte per pensare, finalmente! Anche quest’ultimo effetto s’aggiungerà ai molti innegabili meriti di questo libro, ennesimo atto d’amore – come tutti i numerosi scritti dell’Autore – verso la troppo bistrattata e mal compresa preistoria in cui ha profonde radici la popolazione sarda.

Maurizio Feo

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[Recensione] Grandi Statue Sarde

Il fenomeno Orientalizzante nel cuore del Mediterraneo

Se si parte da premesse sbagliate, è quasi certo che non si raggiungeranno conclusioni corrette.

Così, quando si parla delle statue di Monti Prama, persino la prima definizione di “giganti” – dovuta al Lilliu, che le definì “kolossoi” – s’inizia già con il piede sbagliato. Perché mai ricorrere alla cultura greca e alla sua lingua estranea, per descrivere qualche cosa di prepotentemente sardo, così profondamente differente da ogni altra cosa greca?

E così, l’Autore propone piuttosto un altro nome, per lui più appropriato: quello di Grandi Statue Sarde. Esse sono di poco più grandi del vero, non gigantesche; sono statue a tutti gli effetti, indiscutibilmente sarde e sono “volumetriche”, cioè scolpite a tutto tondo; infine, sono senz’altro statue molto originali. Amare qualche cosa significa vincolarsi a rappresentarlo esattamente per ciò che è: con i pregi per cui si ama e con i difetti malgrado i quali si ama. Il libro, breve e chiaro, di agevole lettura, si attiene a questo principio di base.

Le statue non sono così antiche come qualcuno preferirebbe credere. Ci sono anzi chiare prove storiche, ben note all’archeologia internazionale, del fatto che – tra le statue prodotte dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo – le Grandi Statue Sarde figurano solo nel gruppo meno antico.

Il “monte delle palme” – Monti Prama, come lo chiamano i locali – non è un monte, bensì un dolce rilievo collinare: e se oggi ospita numerosi cespi spontanei di Palma Nana (Chamaerops Humilis, Palma di San Pietro), nulla ci assicura che anche nell’antichità fosse così.

Ecco: il libro procede prudentemente, elencando i dettagli con dati di fatto alla mano, senza condimenti di favole, né aggiunta di miti infondati, esaminando da vicino le prove materiali e formulando solo le più probabili e verosimili tra le ipotesi, sfrondando l’argomento di tutte le invenzioni.
Quello che resta è la realtà nuda, quella incontrovertibile, forse anche imbarazzante per alcuni, ma altrettanto stupefacente quanto tutte le multicolori falsità che nel tempo si sono andate inventando su queste antiche statue, su chi le scolpì, su quando e perché furono fatte…

Si ricorda appena di passaggio, in un’immagine, come il mito della Caverna di Platone da migliaia d’anni ci ammonisca su quanto sia facile cadere nell’errore: l’ombra, proiettata ingigantita sulla parete della caverna, sembra reale; e in fondo è reale, pur non costituendo affatto mai la realtà per intero! La Verità intera è data solamente dall’oggetto tridimensionale, la cui ombra si proietta sulla parete della caverna…

Alla fine della lettura di questo breve testo, corredato da un centinaio d’immagini, il Lettore otterrà un’idea piuttosto precisa e chiara dei grandi eventi storici che si verificarono nel Mediterraneo, cambiandolo per sempre e trasformandolo in un grandioso crogiolo culturale, regalandoci infine – insieme a numerosissimi doni – anche queste preziosissime Grandi Statue Sarde. Per quanto sembrino logore e frammentate, esse sono rivelatrici di un periodo della
storia sarda che è spesso stato colpevolmente sottovalutato, se non addirittura completamente frainteso. Esse ci aprono una comoda finestra sulla Verità di una Sardegna in cui le élite economiche del Sinis espressero appieno la propria orgogliosa ricchezza familiare anche nei sepolcri monumentali.

Una realtà sorprendente, che molti Sardi ancora neppure sospettano e che certamente non può (e non deve!) definirsi “nuragica”, come invece ancora molti oggi s’ostinano a fare.

Giacobbe Manca

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[Recensione] Guida al nuraghe Losa e introduzione alla civiltà dei Nuraghes

Esistevano già altre due opere analoghe, dal 2004; una dello stesso Giacobbe Manca, intitolata Il nuraghe Losa e la Civiltà nuragica, Ed. Iskra, accurata, di 110 pagine, 75 foto colore e BN, con schemi ricostruttivi, ecc. (non più stampata). La seconda piccola guida, stesso anno, con ottima iconografia – unica la foto documentaria del pozzo sacro del Losa, ora scomparso – di Vincenzo Santoni, Collana “Sardegna Archeologica” della Ed. Delfino, con circa 40 pagine reali (più 24 pp. occupate dalla Bibliografia, Glossario,
Sommario, Indice ed Elenco pubblicitario delle Collane Delfino), 9 €

Guida al Nuraghe Losa e introduzione alla Civiltà dei Nuraghes”, invece, è un libro “vero”. Non si tratta solamente di una guida descrittiva fatta perché il turista, dopo la visita, sappia almeno raccontare che cosa ha visto. È molto di più.
In 120 pagine convincenti (di cui solo 8 utilizzate per Indice, Glossario e Bibliografia completi e precisi, seppur
stampati in caratteri opportunamente più piccoli e senza spazi sprecati), un’iconografia strepitosa include anche foto aeree estremamente utili, didattiche ed affascinanti, di grande impatto visivo.

– Il libro, garbato e scorrevole, ha spesso il piglio didattico di una (ottima) guida, con fotografie che presentano funzionali rimandi grafici alla pianta del Nuraghe e permettono di essere sempre ben orientati ed informati su dettagli che possono sfuggire anche ad osservatori attenti.

– L’Autore mette subito in chiaro l’argomento, spiegando con chiarezza al lettore la gran differenza corrente tra ciò che può essere definito ‘megalitico’ e ciò che invece rientra nel ‘ciclopico’.

Si tratta di una distinzione fondamentale: cronologica vista l’enorme distanza temporale che separa le due metodiche (il megalitismo risale addirittura al Neolitico); ma anche d’uso pratico, visto che il megalitismo è – in prevalenza, se non addirittura unicamente – una manifestazione cultuale.

Si prende inoltre la responsabilità delle proprie opinioni ed osservazioni fin dalle prime pagine, accompagnando il lettore tra le proprie ipotesi circa i possibili soppalchi lignei, circa l’uso ed il disuso dei passaggi ‘segreti’ ora obliterati, le metodiche di edificazione e molto altro.

Ma – soprattutto – l’Autore ha il coraggio di formulare un’ipotesi circa la datazione dei Nuraghes in genere (e del Losa in particolare), che egli sostiene essere differente da quella ‘ufficiale’, sostenuta stancamente dagli archeologi cattedratici sardi più per pavido conformismo che per solida convinzione…

Si sofferma su dettagli costruttivi importanti ed evidenti del Losa, che però – stranamente – sono sfuggiti a colleghi archeologi considerati di vaglio, pur essendo le strutture state sempre sotto gli occhi di tutti.

Riporta una rassegna storiografica e fotografica di tutti i ricercatori che si sono interessati del Losa nel corso del tempo: il Della Marmora, lo Spano, il Pinza, il Taramelli ed infine il Lilliu.

Riferisce della grave mancanza di studi scientifici di ampio respiro sul Losa e della presenza invece solo di studi archeologici che definisce – con arguzia – “puntiformi”.
Non lesina le critiche: una, per esempio, proprio all’edificazione dell’edificio che serve da ‘museo’ in loco, costruito a suo tempo proprio sull’area archeologica del nuraghe.

Infine, offre 10 schede (che egli definisce “quadri”) circa generalità, architettura, statica, edificazione, teorie vecchie e nuove, tesi militarista, destinazione,approfondimenti e sintesi. Il più interessante – a mio giudizio – è il quadro 8: esso descrive ciò che avveniva nelle altre parti del Mondo Antico, contemporaneamente al primo nascere, al vivere, all’evolversi e modificarsi del grande e vetusto gigante.

Solo due piccole note negative, che sono errori tipografici: a pag. 114 una nota a piè di pagina mancante lascia nel dubbio.

Nella tavola cronologica a pagina 115, il periodo tra 2.200 a.C. e 1600 a.C. è ripetuto due volte.
Lettura, quindi, consigliata ai lettori ignari dell’argomento nuragico, ai quali servirà da introduzione. Ma anche quelli già esperti dell’argomento vi troveranno motivi di forte interesse, nuovi spunti e – probabilmente – anche alcune notizie documentate delle quali erano all’oscuro.

Recensione di Franco Romagna

[…] formato tascabile, una bella copertina a colori con vista aerea del complesso nuragico; immagine, che si incontra subito dopo, a volo d’uccello, con schematizzati i percorsi per raggiungere il sito da diversi punti dell’isola. La guida si articola in una parte descrittiva generale del monumento, delle sue fasi costruttive e
delle campagne di scavo susseguitesi fino allo stato attuale; e in dieci quadri tematici di approfondimento sulla Civiltà Nuragica: guide nella guida.

L’autore affronta i problemi che ogni studioso si pone davanti a tale emergenza archeologica e architettonica col raziocinio del tecnico, la pazienza del filologo e l’amore dello studioso.
Le immagini a colori e in b/n con didascalie esplicative, forniscono il valido supporto necessario a chi legge e si addentra nei meandri della parte centrale del monumento tra passaggi, spalti, garrite e merli oltre che nei cortili, tra torri esterne, muraglie, capanne e testimonianze di epoche successive.

I confronti con altre realtà archeologiche servono a chiarire aspetti generali e particolari di tecniche costruttive che si riscontrano in nuraghi molto lontani tra loro.
G. Manca nella sua Guida del Losa mette in risalto le diverse fasi costruttive a partire dal basamento formato da grandi pietre grezze (sicuramente una preesistenza) e il prosieguo dell’alzato con pietre di minor dimensione collocate in bell’ordine isodomo.

Le ogive, i corridoi, e i vani nascosti sono spiegati con chiarezza nella loro funzionalità. Nel 3° quadro si dice della Statica delle ogive con un breve cenno sul sistema di costruzione delle stesse […]
un’informazione di carattere generale, giacché la statica necessita uno studio specifico che non può farsi in una Guida, se non per sommi capi.

Nel Quadro 4° sono date alcune nozioni sul metodo di costruire un nuraghe con riferimenti a studiosi del passato.
Interessante la messa in evidenza dell’inutilità strutturale dell’architrave che, a ben vedere, porta solo se stesso.

Si ipotizza una funzione ornamentale e/o una dimostrazione di potenza e capacità costruttiva: come nella porta dei leoni a Micene. Notevoli: la cronologia del Losa inserita in quella generale nuragica; le varie
campagne di scavo; le emergenze attorno al nuraghe che testimoniano il ciclo di vita degli abitanti dal luogo di culto (pozzo sacro); alla commemorazione dei morti (tomba dei giganti).

Con “cenni storiografici” l’autore fa percorrere il lungo cammino della ricerca che inizia con Alberto Della Marmora e G. Spano, quindi Pinza e Taramelli per arrivare a Lilliu, cioè ai giorni nostri.

Di grande aiuto al visitatore del complesso archeologico e al lettore sedentario sono: il Glossario e le Tavole orientative.
Piacevole la lettura.

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SA CHIDA DE PERFUGAS

di Ignazio Figus

Sa Chida de Perfugas è un film-documentario girato nel 2015 a Perfugas, nella regione storica dell’Anglona.
Il film, con la guida ideale di Nicolino, prima boghe del coro dei Cunfrades, descrive e racconta con meticolosità le sei giornate che precedono la Domenica di Pasqua: Sa Chida Santa.

Il montaggio del documentario rispetta la cronologia degli eventi proponendoci dei “quadri” che vanno dalle prove di canto del coro dei Cunfrades alla panificazione nella frazione di Lumbaldu e all’allestimento dei sepulcros ad opera delle donne di Perfugas, per arrivare alle giornate del Giovedì e Venerdì Santo con i riti paraliturgici de s’Incravamentu (crocefissione) e de s’Iscravamentu (deposizione); del Sabato Santo, con la vestizione della statua della Madonna e, infine, del giorno di Pasqua con il rito de s’Incontru.


Questa è dunque la scansione degli accadimenti descritti, ma i due giovani autori – l’antropologo Giovanni P. Deperu e il cineasta Giampaolo Buiaroni – con il loro lavoro sono andati ben al di là della semplice registrazione degli eventi, realizzando un’opera che dà sostanza all’ormai proverbiale frase: un anziano che muore è una biblioteca che brucia, pronunciata da Hamadou Hampaté Bâ, narratore del Mali, per spiegare con efficace semplicità il ruolo di trasmettitori di saggezza e conoscenza rivestito dagli anziani nella cultura africana.

Un concetto, questo, ripreso qualche anno fa anche in Sardegna, quando da più parti appariva ormai indifferibile attuare una massiccia campagna di riprese cinematografiche e registrazioni sonore, col fine di preservare la memoria e l’esperienza degli anziani, custodi di saperi connessi con la cultura materiale e immateriale.

Guardando Sa Chida de Perfugas si ha la chiara percezione che quella indicazione abbia guidato il lavoro degli autori.
La narrazione, affidata ad alcuni dei detentori della memoria storica del paese, è una chiara scelta che va proprio in questa direzione e riconosce l’urgenza antropologica di salvaguardare la testimonianza dei luoghi, delle persone, della lingua e degli eventi, che in qualche modo rappresentano la struttura portante dell’intera comunità.

Giovanni P. Deperu e Giampaolo Buiaroni hanno dunque realizzato, consegnandolo al paese e alla comunità scientifica, un documento che rappresenta un importante tassello nel difficile cammino verso la corretta, non mistificata, riscrittura della storia delle nostre piccole, grandi comunità.

La testimonianza, nella lingua propria di Perfugas: il sardo logudorese e il gallurese, è resa dai soggetti che nel film si raccontano e si fanno carico, in prima persona, di quanto affermano.

Questo lavoro dichiara in modo evidente l’interazione tra il cineasta/antropologo e i soggetti filmati.
Nessuna voce fuori campo (quella che con una felice intuizione è stata definita la “voce di Dio”), che avochi a sé la pretesa di descrivere ciò che già così bene le immagini raccontano; né si riscontra in questo documentario un’osservazione filmica “distaccata” con l’approccio, per capirci, dell’entomologo che studia i suoi insetti.

Tutto ciò testimonia come gli autori abbiano ben metabolizzato i dettami della moderna antropologia visuale che, andando oltre un cinema di semplice osservazione, propone un cinema di partecipazione, dove il regista/etnologo, egli stesso, si mette in gioco in stretta relazione con gli attori sociali, realizzando un “incontro” capace di attivare fruttuose connessioni tra filmmaker e protagonisti.

Attraverso queste modalità realizzative Sa Chida de Perfugas diviene un film costruito con la partecipa- zione attiva dei suoi soggetti, i quali non si limitano a offrire la propria testimonianza ma danno precise indicazioni ai cineasti circa la correttezza delle loro scelte.

Se è vero, in questo senso, che il lavoro di Deperu e Buiaroni è stato in qualche modo facilitato dall’essere essi stessi parte della comunità e dunque intimamente coinvolti negli eventi raccontati, è anche vero che questo “incontro” tra cineasta e attori sociali – di là dagli stimoli suscitati dal regista o dagli elementi del contesto, che possono essere “organizzati” e
“controllati” – introduce molteplici e interessanti variabili.

Tra queste sono comprese anche quelle forme di auto-rappresentazione delle persone filmate, che in qualche modo enfatizzano o comunque sottolineano parti del proprio discorso indirizzandole alla comunità senza intermediazioni, superando quindi la relazione diretta con il cineasta.

Ciò si riscontra, benché in forma episodica, per esempio, nella sequenza dedicata alla realizzazione dei sepulcros, quando le due donne intervistate rimproverano bonariamente le ragazze d’oggi, particolarmente smaliziate – a loro dire – e così facendo sembrano voler bypassare l’intervistatore per rivolgersi direttamente alle giovani del paese.

Nei momenti liturgici la camera si muove con discrezione, spesso sembra quasi “nascondersi” dietro l’angolo, rispettosa dell’altrui raccoglimento. La fotografia è curata e sempre sorvegliata e mai tende alla spettacolarizzazione degli eventi che per la loro connaturata teatralità sono già “spettacolari” di per sé.

E non si può tacere dell’ottimo lavoro svolto dal fonico Luca Panciroli che, raccogliendo in presa diretta il canto sacro, crea in modo esemplare un’atmosfera di riflessione e preghiera.
Apparentemente semplice, il montaggio del film è, in realtà, piuttosto elaborato e riesce a incrociare sapientemente la complessa liturgia della settimana santa con racconti di episodi, mai insignificanti o banali, che
arricchiscono la trama narrativa, rendendo la visione ancor più piacevole e in alcuni casi persino divertente.

Il controllo della narrazione è sempre ben saldo e, nella sua complessa orditura, non perde mai di vista la giusta centralità della confraternita che,
in fondo, è l’attiva depositaria della continuità della tradizione.

Senza il loro grande impegno sarebbe tutto certamente più povero e complicato.

Un film intellettualmente onesto, dunque, ben lontano da stereotipi cultural/turistici, che rappresenta un dono che gli autori Deperu e Buiaroni hanno voluto fare a Perfugas e a se stessi, in quanto parte di quella comunità.
Un dono ben prezioso, di cultura, memoria e, in qualche misura, di speranza per il futuro del paese e della cultura etnologica isolana.

Sa Chida de Perfugas: Vedi il documentario completo

[Clicca sul link e prima della visone attiva i sottotitoli in italiano in basso a destra nella schermata di YouTube]

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[Recensione] Mito di Mamoiada Archeologia, Pietre magiche, Antropologia

Come il titolo e il sottotitolo lasciano intuire, questo libro è suddiviso in più parti.

Nella prima, dopo le indicazioni territoriali, si procede dall’antichissimo giungere di un popolo del Neolitico medio nella valle di Mamojada che in questo “Eden” s’insedia stabilmente per dare origine ad una vicenda antropica, da un lato, singolare e in pari tempo parallela a quelle accaduta in altre contrade dell’Isola (come, si narra, dovette verificarsi lungo le valli del Tirso e del Cedrino, nelle valli ogliastrine o lungo altri importanti corsi d’acqua isolani).

Ciò che distingue quel popolo delle origini è la sua consuetudine di erigere stele e menhirs istoriati con simboli (cerchi concentrici, bastoncelli”, “preghiere” e coppelle tonde e vulvari) che l’autore, con un felice neologismo, definisce “fertilistiche”, in virtù della loro antica funzione magico-rituale.

Le seconda parte del libro ha un carattere internazionale, giacché segnala tutti i confronti oggi disponibili fra le pietre istoriate di Mamojada (le famose pietre magiche richiamate nella precedente opera dello stesso autore) con altre realtà europee e persino africane.

Dalla Scozia al Marocco, passando per il Northumberland (e con qualcosa di significativo anche in Nigeria), dall’Irlanda alla Svizzera, attraverso la Spagna e il Portogallo sono segnalati monumenti istoriati, strettamente confrontabili con questi sardi di Mamojada e dintorni.

La terza parte del libro è una ricca documentazione iconografica a colori (una sostanziale narrazione parallela e spunto per un futuro museo del paese) che annovera monumenti e oggetti archeologici, anche inediti, rinvenuti sia nella valle di Mamoiada sia nel resto dell’Isola e dell’Europa, a conforto dell’ipotesi di un’antica religione fertilistica, la cui individuazione in Barbagia, pone la Sardegna in un perfetto parallelo culturale col resto del mondo mediterraneo: altro che i ritardi culturali predicati da autorevoli pulpiti! 

Ancora, il testo è corredato da diverse appendici con indicazioni sui monumenti, risorgive ed altre realtà mamojadine, utili sostegni della narrazione globale del libro.

Infine, quattro mappe territoriali archeologiche a colori, con tavola cronologica dell’autore, offrono una diretta immagine dell’ubicazione dei monumenti presenti nella regione, distinti con differenti simbologie e colori, ascrivibili a tutte le epoche, dal Neolitico (fase delle origini documentate) fino al Medioevo.

Si tratta, dunque, di un libro composito, nel quale la narrazione scientifica è veicolata da una scrittura chiara e piacevole, affinché sia fruibile da tutti, dove i tecnicismi dell’archeologia lasciano il posto alla documentata visione antropologica: quello che dovrebbe essere il vero scopo dell’archeologia, frequentemente disatteso dalla generalità degli archeologi che spesso se non sempre si limitano a leggere i “cocci” e le ambigue stratigrafie o a dare generiche descrizioni di monumenti, talora vaghe e inadeguate.

Si legge come un romanzo ma è un libro di archeologia di nuova concezione, dove non è il monumento o l’oggetto scientifico al centro dell’attenzione, ma le persone e la loro vita sociale, economica e religiosa: tutto ciò che quei documenti importantissimi, giunti fino a noi, hanno saputo indicare.

Le “maglie” della narrazione sono più fitte e stringenti per i periodi più antichi e più larghe col procedere verso i periodi punico e romano, con cenni fino al Medioevo.

Dunque questo libro non è solo un’ennesima iniziativa editoriale indirizzata “al paese del cuore”, ma è un’impegnativa prova di paletnologia (ovvero di paleo-etnologia) dalle valenze generali, che in distinte parti affronta altrettanti aspetti, diversi ma strettamente correlati: dalla ricerca delle società antiche alle parentele europee delle affascinanti pietre istoriate, oggi attribuite ad una cultura barbaricina.

Da quell’argomentare discende che nella visione archeologica isolana non è più giustificabile una teoria dove l’Isola è chiusa in se stessa (tutto ciò che del Neolitico mostra una decorazione, ad esempio, veniva rimandato alla nostrana cultura di Ozieri), ma si hanno molti motivi per guardare ad orizzonti europei, ben più ampi, cosa già intuita per differenti elementi culturali del Bronzo Antico, quali la cosiddetta cultura Beacker e non solo.

La nuova opera di Giacobbe Manca è, in buona sostanza, la logica continuità culturale, in prioritaria chiave antropologica, del noto libro “Pietre magiche a Mamojada” (del 1999), che divulgò, fra l’altro, la grande novità delle pietre istoriate barbaricine o “fertilistiche”, ampliando in modo imprevisto e imprevedibile il quadro della preistoria isolana ed europea.

In chiusura propongo una notazione sul titolo, così sintetico e significativo insieme: Mito di Mamojada, sta per il percorso culturale individuato alla ricerca di un popolo che ha saputo conservare più di ogni altro nell’isola, retaggi di antichissime ritualità folkloriche.

É la ricostruzione sia pure parzialmente e necessariamente ipotetica (siamo in campo preistorico), ma ampiamente documentata della lunghissima e articolata epopea di un popolo mitico fin dalle sue origini, come l’archeologia dimostra.

In sintesi è un omaggio sia ai mamojadini e ai loro importanti antenati, sia ai Sardi nel loro insieme.

Franco Romagna

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