N.65

Il Nuraghe Longu di Chiaramonti

La regione storica Anglona, nel Nord della Sardegna, si gloria della presenza di numerosissime e particolari testimonianze preistoriche. Anche le più antiche tracce della presenza umana nell’isola ci giungono proprio da questo territorio: ben noti sono i ritrovamenti di utensili litici di selce in tecnica detta Clactoniana, attribuiti al paleolitico inferiore e datati da 250 a 700 mila anni. Esse provengono dalle balze quaternarie dislocate lungo il Rio Battana (detto anche Altana), nel tratto che scorre tra Martis, Laerru e Perfugas prima d’immettersi nel maggiore fiume Coghinas.
Il territorio è anche ricco di documenti monumentali e di reperti ascrivibili al Neolitico, attestato fin dalla fase media detta cultura di Bonu Ighinu. La straordinaria statuina, o veneretta di Dea Madre è una tra le numerose suppellettili: l’unica conosciuta con un bimbo tenuto al seno. L’oggetto è parzialmente mutilo, ma innegabilmente nella frattura è riconoscibile la sagoma del poppante.
Alla fase neolitica appartengono anche splendide domos de janas scavate nella roccia, che in quest’area sono spesso ricche di bassorilievi zoomorfi o teriomorfi (cioè, motivi magico-religiosi, che evocano animali o divinità totemiche a essi correlate) scolpiti nelle pareti. Questi singolari monumenti sono tombe collettive e risalgono almeno al Neolitico Medio, con una grande diffusione dalla fase recente.
In questi monumenti gli scalpellini mostrano sia una grande maestria nell’esecuzione, sia una profonda conoscenza degli affioramenti da scavare e delle pietre da utilizzare per riuscire ad aggredirli, scavando e decorando in diverso modo le sepolture.

L’indagine sul nuraghe Longu riporta alla piena Età del Bronzo e le peculiarità di questo nuraghe ci inducono a pensare che quegli antenati lontani, costruttori di rara maestria e intelligenza, abbiano ereditato le grandi abilità nella lavorazione della pietra da quei lontanissimi scalpellini neolitici, che oggi si apprezzano per i loro edifici a bastione e le torri preistoriche, chiamati nuraghe in Sardegna e così noti nel mondo.
La ricerca che da anni ci spinge a visitare e studiare queste straordinarie costruzioni, non a caso ci ha portato spesso nei territori dell’Anglona, una delle regioni dell’Isola particolarmente ricca di monumenti. Fra questi è pure ampia la casistica delle varianti, le cui specificità offrono il destro per arricchire sia le conoscenze architettoniche, sia la possibilità di prospettare le linee di un progresso generale, nelle tecniche e nel pensiero progettuale.
Il nuraghe Longu di Chiaramonti si trova in località Funtana Saltza, facilmente individuabile percorrendo la statale 672 verso Tempio, sulla sinistra, dopo circa 2 km oltre il più noto e ben visibile nuraghe Ruju, a brevissima distanza dalla strada, ma precluso alle visite. Il Longu è costruito con la locale trachite rossa. Un marcato e secolare spietramento lo ha ridotto alla sola camera basale; ne ha occluso l’ingresso rivolto a Sudest e messo in luce la rampa intermuraria, dalla quale oggi è possibile l’accesso. L’esterno è facilmente leggibile solo nel lato Nord-Nordest, laddove si apprezza la raffinata disposizione e lavorazione dei conci di blocchi disposti in filari; in questo lato la torre si eleva per 5 metri abbondanti sulle macerie. La muratura residua emerge dall’accumulo della rovina e lascia ipotizzare una struttura complessa dalle dimensioni di maggiori dimensioni. L’ispezione interna della torre può avvenire solo inerpicandosi sul materiale d’accumulo causato da spoliazione, fino a giungere quasi al colmo. Un incredibile squarcio aperto sul vano scala/rampa mostra subito misure da record: una larghezza di metri 1,50 alla base e di 1,10 al colmo del vano è indiscutibilmente eccezionale e finora unica.

Attraverso la posizione scomposta dei conci trachitici resta uno squarcio tra le murature, dal quale è possibile riconoscere l’esito di un vano intermurario, differente dalla camera basale, che è ricavato in uno spessore murario usualmente non vuotato nelle torri nuragiche Volendo dare una descrizione semplicistica vagamente orientativa a chi non ha mai varcato l’ingresso di queste torri preistoriche, si potrebbe dire che questi antichi edifici sono sostanzialmente costituiti da più paramenti concentrici, quasi gusci multipli, che racchiudono le camere disposte in genere fino a tre livelli; attorno a esse sono gli spazi dei vani di servizio: un apprestamento dell’ingresso, nicchie, rampe per giungere ai piani alti, ma anche vani accessori non canonici, anch’essi raggiungibili per mezzo di scale sussidiarie o attraverso botole servite da scale in legno. Il nuraghe Longu fa parte di una nutrita lista di torri che – limitandoci a guardare nella sola Anglona – sono appunto note per la presenza in esse di vani infra-piano, da alcuni detti mezzanini, e che allo stato attuale della ricerca sembrerebbero presenti con maggiore frequenza nell’area centro settentrionale dell’isola.

Il mezzanino del nuraghe Longu entra a pieno diritto tra quelli definibili più unici che rari, potremmo quasi considerarlo come un corridoio interrotto in quota che si sviluppa da est a ovest del cono murario. La sua considerevole dimensione, che sul piano pavimentale abbiamo misurato in ben 12,60 metri di sviluppo, lo differenzia da quelli già noti che nella maggior parte dei casi terminano con un modesto spazio ricavato sopra l’ingresso.
Il vano mezzanino del Longu dal suo punto di apertura sulla nicchia d’andito oltrepassa di molto il sottostante corridoio d’ingresso. Lo stretto vano posto al colmo dell’edificio residuo, è qui descritto in modo assai parziale a causa delle condizioni deprecabili del nuraghe: noi lo definiamo mezzanino, ma uno scavo razionale del nuraghe potrebbe dimostrare che appartiene a una seconda rampa. È ora opportuno percorrere la rampa elicoidale intermuraria, dalle dimensioni inusitate e propriamente monumentali attraverso l’unica apertura che oggi consente l’accesso al monumento…

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La fase nuragica misteriosa

Tra il nuraghe Ui e le tombe di giganti di Madau

La torre secondaria del nuraghe Ui

Sono giunte in redazione le fotografie di una strana stanza di nuraghe, mai studiato, ancora sorprendentemente integra sotto l’insensata ed estesa rovina cui fu ridotto il nuraghe Ui di Chiaramonti. Il nuraghe non è mai stato preso in seria considerazione per uno studio o uno scavo da parte degli enti preposti.
A ovest dei resti del monumento, anche qui ridotto a rovina, alcune case coloniche estranee al nuraghe presidiano un verde podere posto nella valle. Assai verosimilmente le case furono edificate a detrimento del vicino nuraghe Ui, la cui planimetria, pur rivelando un edificio complesso, rimane al momento incomprensibile anche per l’intrico della vegetazione e per il degrado ubiquitario. Al colmo del rilievo s’individua la stanza inferiore della torre centrale, beante perché svettata nel terzo superiore, e attorno si vedono indizi di altre torrette svettate, diversamente disposte: tre sono certe; resta il dubbio che le altre ipotizzabili possano essere capanne dell’Età del ferro.
Alcune strutture sono tangenti alla torre antica e di esse almeno due sono staccate dal complesso: son poste a ridosso dell’ampio cortile antistante, cioè a Sud, dove convergono tutti gli ingressi dei vari ambienti, le cui aperture sono ora affossate per l’interramento assai consistente. La rovina è talmente fitta che al primo sguardo, nessuno direbbe che sott o quel cumulo si trovi ancora un vano intero.

I contadini qui stanziati dovettero notare che sotto quei blocchi sconnessi era nascosta una qualche cavità. Si aprì un’apertura che permise di affacciarsi ai paramenti interni di una camera di aspetto singolare. L’idea fissa di un tesoro, dovette accendere la frenesia con l’effetto di fare rimuovere altri blocchi, fino a determinare una brutta e ampia breccia nella quale un uomo riesce a entrare. Dalla base del foro c’è una caduta di circa un metro e mezzo per posare i piedi sul suolo della camera, quindi entrare nella camera richiede una scala adeguata.
Da come appare oggi la stanza, ripiena di terra e residui organici, non si hanno dubbi sul fatto che nessun tesoro fu rinvenuto ma, in cambio di ciò i vicini contadini acquistarono una stia bell’e pronta. Quest’uso “moderno” e imprevisto del nuraghe ha consentito che alcuni appassionati cultori di archeologia preistorica isolana, capitati lì per caso, dessero notizia del vano in questione, che appare realizzato con tecniche costruttive difformi dalle quelle più ricorrenti e note. Una delle singolarità di questa torretta è la consistenza del muro basale, che si può vedere solo dall’interno per uno sviluppo verticale di due metri, emergente sul pavimento attuale: verosimilmente prosegue immutato fino alla base antica della camera. Esso è realizzato in pietre trachitiche, relativamente piccole, in confronto con i blocchi del resto delle strutture in rovina, ma in specie rispetto alla copertura ogivale, che si configura come una sorta di scudo litico concavo e molto ribassato, anziché ogivale “al modo nuragico”.
Il muro è fatto a piccole pietre, compattate da un aggregante tenacissimo, che pare posto non a consolidare, quanto a riempire le fessure fra i blocchi. Tale impasto terragno e argilloso, annerito da residui carboniosi, pare indurito fortemente per l’esposizione a una temperatura molto elevata, che determinato l’arrossamento antico delle pietre del muro. Una teoria di lastrine uniforma la parte alta del muro, livellandolo all’altezza di circa due metri dal suolo attuale. Questo espediente servì, verosimilmente, per preparare un piano di posa omogeneo, in funzione della realizzazione della “nuova” copertura, che è certamente diversa da quella delle origini. Questa preparazione è necessariamente successiva a una demolizione, le cui cause naturalmente sfuggono. La volta aggiunta è del tutto singolare, sia per la dimensione dei blocchi utilizzati, che sono di dura trachite rossa prossima al basalto, sia per le dimensioni dei conci di forma irregolarmente conica, dalle dimensioni ben maggiori rispetto ai blocchetti utilizzati nell’anello basale, sia per il profilo della nuova copertura, fortemente ribassata e dunque dal fortissimo aggetto e direi proprio insolita negli edifici nuragici.

Le t.d.g. nn. 2 e 3 della necropoli di Madau – Fonni

Ancorché superstiti dalle demenziali a dir poco, integrazioni al cemento, hanno tratti in cui si osservano delle sovrapposizioni costruttive rapportabili a quelle del nuraghe Ui di Chiaramonti. Prendiamo la tomba 3 quale esempio meglio calzante con la torretta del nuraghe Ui. Nella sua camera, alla base è venuto in luce l’esito di una precedente tdg edificata con piccole lastre, che fu abbandonata in una fase a noi sconosciuta e, quindi, smantellata per ricostruirla con una tecnica completamente diversa.
La tecnica sovrapposta mostra grandi placche granitiche interne ed esterne alla camera, nell’esedra e nel corpo. Le grosse lastre hanno la “faccia ben bocciardata, ma anche anche le superfici di posa e affianca mento accuratamente preparate. Esse realizzano una tomba di giganti ben più monumentale rispetto alle precedenti, e l’imparentamento con le fasi costrutti ve della confinante tomba 2 è evidente. Entrambe le tombe appartengono a una fase molto evoluta fra le t.d.g. nuragiche e paiono precedere di qualche secolo la tecnica ben più raffi nata che osserviamo nelle successive, splendide tombe di Biristeddi, la cui raffinata esecuzione è esaltata dall’uso del basalto…

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Raichinas

In una bella sera d’agosto la dottoressa Maria Pala,Senior lecturer (Docente) presso l’Università di Huddersfield, ha tenuto un’interessante conferenza nel suggestivo scenario del sito archeologico Su Romanzesu, presso Bitti. Ha spiegato brevemente come si compone il DNA, che cosa siano i Geni, il Genoma, i due tipi di DNA (nucleare e mitocondriale). Quindi ha passato in rassegna gli studi di popolazione meno recenti, fino a scendere nel dettaglio di quelli più aggiornati e volti alla ricerca delle radici genetiche della popolazione sarda.
La giovane ricercatrice espone sostanzialmente due studi di genetica, di cui, come correttamente viene a precisare, non è autrice.
La sua trattazione è stata ordinata e rigorosamente scientifica, restando rispettosamente a portata di comprensibilità da parte di un pubblico numeroso e attento di non addetti ai lavori. Naturalmente, ha escluso dalla propria esposizione tutte le fantasticherie divenute tanto di moda sull’isola negli ultimi tempi.

Ha spiegato che cosa sia l’Archeogenetica, che consiste nell’applicazione della Genetica molecolare allo studio del passato delle generazioni umane. Analizza la variabilità genetica sia di popolazioni attuali, sia di popolazioni antiche. Ci si chiede: come può l’Archeogenetica, oggi, studiare il passato?
Ciò è possibile perché il nostro DNA attuale è una copia che deriva da quello dei nostri antenati del passato: letteralmente, ne contiene molti “pezzi” identici ed altri che si sono progressivamente e in varia misura modificati nel corso dei millenni (mutazioni). In un certo senso, si può dire che il DNA quasi possieda una propria “memoria”. Pertanto analizzando il Dna attuale si può ricostruire il passato e risalire fino all’origine delle specie (questo è vero in teoria; in pratica no, ma solo per l’irreperibilità del materiale, perché il Dna col tempo si deteriora). Analizzando il DNA antico si può quasi andare indietro nel tempo e avere una “visione” (genetica, s’intende) del passato: in questo modo si può talvolta aggiungere un tassello al quadro sempre incompleto della ricostruzione del passato che l’archeologia ci offre. Il sequenziamento del DNA iniziò negli anni ‘80, ma è solo dal 2000 che si è potuto tecnologica mente tentare e ottenere il completo sequenziamento di tutto il genoma (NGS: new generation sequencing).

L’archeologia fornisce il dato archeologico, cioè quali possano essere stati i cambiamenti di stile di vita (“cultura materiale”), eventuali espansioni di popolazioni, oppure il loro declino. Praticamente essa risponde – o tenta di rispondere – alle domande: cosa, dove, quando. L’Archeogenetica, invece, analizzando le composizioni dei DNA moderni e quelle del DNA antico disponibile riesce a risalire a epoche passate e a “vedere” persino movimenti migratori di popolazioni: in tal modo essa riesce a rispondere precisa mente alle domande: chi e da dove.
È poi comunemente noto che esistono due modelli teorici generali tra cui scegliere (con grande difficoltà per gli archeologi, come nel caso degli Etruschi) quando si debba descrivere nascita ed evoluzione delle civiltà del passato: essi sono quelli della diffusione culturale e demica. Il primo modello corrisponde alla trasmissione di un’idea (o di un metodo, o di una tecnica: per esempio, la coltura di un tipo di pianta non autoctona, originaria di un’altra regione geografica), senza una vera e propria migrazione di popolazione. L’unica cosa che viaggia in quel caso è l’idea: lo fa attraverso scambi verbali (e commerciali) tra individui, comunicazione interpersonale, emulazione e apprendimento.
Alla fine, lo stile di vita di una popolazione B si modifica e diviene simile a quello della popolazione A, dalla quale è originata l’idea in oggetto, ma con la tecnica Admixture, si osserva che la composizione genetica della popolazione (DNA moderno) B è rimasta invariata ed è ancora quella precedente allo scambio culturale (DNA antico). Secondo questo modello sembra possa aver viaggiato la realizzazione del “vaso campaniforme” (cultura del v. campaniforme), la cui distribuzione in Europa è tanto discontinua e irregolare da essere definita “a macchia di leopardo”.

Il secondo modello implica invece lo spostamento di un numero sensibile di individui, che portano con sé la propria tecnologia, la lingua, la filosofia: per esempio, come avvenne nella “conquista” del Nuovo Mondo da parte degli europei dopo il 1500. Nel secondo caso, si assiste – sì – alla modifica dello stile di vita, ma essa si accompagna anche a una modifica rilevabile del patrimonio genetico, che nel caso del Nord America è stata drammatica: il DNA antico dei nativi è oggi quasi scomparso, pressocché completamente sostituito da quello dei moderni coloni europei. In questo caso si parla di “replacement” (sostituzione), più che di “admixture” (mescolamento).
È evidente che una vera diffusione culturale possa essere sensibilmente più veloce di una diffusione demica, che dipende dalle possibilità di spostamento degli esseri umani. All’atto pratico, la diffusione culturale è considerata un evento più raro di quella demica. Ciò è forse anche dovuto al fatto che possa essere più difficile da dimostrare: ma è indiscusso che sia sempre stata molto meno ricercata. Forse è realmente meno frequente.
Dal 1994 si è scoperta l’unicità genetica dei Sardi, grazie ai primi studi di L. Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, che adottarono – non era ancora disponibile il DNA – 95 marcatori classici (tra cui, per esempio, i gruppi sanguigni del sistema AB0 e altri indicatori non genetici, ma determinati da geni) e si accorsero di non potere rappresentare la Sardegna nelle loro mappe grafiche di gradienti di frequenza dei marcatori: perché i dati della popolazione sarda erano terribilmente fuori scala. Comparvero in seguito altri risultati con differenze di distribuzione che indicavano in modo non definitivo le popolazioni di Corsica e Sardegna come possibili “isolatigenetici”, separati dalle altre popolazioni europee…

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Raichinas Leggi tutto »

Numero 65 – II Semestre 2024

Disponibile da Novembre 2024, il nuovo numero 65 di Sardegna Antica

In copertina la monumentale rampa intermuraria del Nuraghe Longu di Chiaramonti (dall’articolo di Paolo Lombardi e più).

Sommario

  • Raichinas – Maurizio Feo
  • Un Dio fra i fiori – Maura Andreoni
  • La sindrome Dunning Kruger – Maurizio Feo
  • Vulcanesimo a Baunei – Antonio Assorgia
  • Un bronzetto sardo (?) dalla Sicilia – Alessandro Atzeni
  • Una fase nuragica misteriosa – Giacobbe Manca
  • Il nuraghe Longu di Chiaramonti – Paolo Lombardi e Gigi Rocca
  • Ida Comaschi Caria, la grande paleontologa sarda – Giovanni Graziano Manca
  • Mistificazione Storica – Andrea Muzzeddu
  • Nobiltà spagnola, piemontese e i sardi – Giovanni Enna
  • La sarda rivoluzione incompiuta (1793-1802) – Peppino Pischedda


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