LA CARTA DE LOGU della Giudicessa Eleonora

Eleonora d’Arborea (1340-1403), giudicessa di Arborea della famiglia dei “de Serra Bas”, assunse un ruolo di primo piano nella storia della Sardegna.
Figlia di Mariano IV (visconte di Bas: territorio in Catalogna, vicino alla città di Girona) e sposa di Brancaleone Doria, resse il giudicato d’Arborea dal 1383 fino alla morte, avvenuta durante un’epidemia di peste.

Moglie, madre, abile diplomatica e legislatrice, Eleonora d’Arborea è una delle figure femminili più importanti del Medioevo italiano (anche se avvolta nelle nebbie dell’anonimato).

Eleonora si autoproclamò Juighissa de Arbaree, in qualità di reggente del figlio Federico, minorenne. Nella seconda metà del XIV secolo, per merito della sua fermezza e perseveranza nei propositi e nell’azione, resse il confronto con la Corona d’Aragona conquistando la quasi totalità dei territori della Sardegna.

È famosa anche per la Carta de Logu (Carta de logu de Arborea; Statuto del luogo di Arborea) che è un codice di leggi, emanato dal giudice Mariano IV (1345-76) ma da lei integrato e completato nella sua forma definitiva. Eleonora ebbe il merito di introdurre nella Carta concetti innovativi per l’epoca. Redatta in volgare arborense (le leggi, di norma, erano espresse in latino), la Carta fu emanata tra il 1393 e il 1395 e restò in vigore, come legge generale della Sardegna, fino al 1827, quando venne sostituita dal Codice feliciano.

Tale codice rappresenta una testimonianza legislativa durevole della Sardegna medievale. Il testo appare prezioso e caratterizzato dalla sconcertante attualità a causa delle tematiche che affrontava (tra cui, la tutela delle donne e dei minori, la difesa del territorio, l’usura).
Il codice di Eleonora rappresentava una delle maggiori espressioni del “diritto volgare”, inteso come complesso di norme e consuetudini provenienti dalla tradizione romano-bizantina, che in Sardegna aveva assunto qualità peculiari.

Dai Bizantini ai giudicati

Nel 534 la Sardegna venne conquistata dai Bizantini e inclusa nell’esarcato di Cartagine anziché in quello di Ravenna. Come provincia dell’impero romano d’Oriente, era amministrata da uno iudex civile, residente a Cagliari, e da un magister militum, una sorta di governatore militare, che sottostava all’esarca di Cartagine.

Tale condizione si protrasse fino agli inizi del secolo IX, quando le incursioni saracene posero fine alla dominazione bizantina e la Sardegna si trovò a dover provvedere autonomamente alla propria difesa nei con- fronti dei pirati barbareschi. In questo periodo si forma- rono probabilmente i “giudicati”: Torres a nord-ovest; Gallura a nord-est; Cagliari a sud-ovest e Arborea, nella parte centro-occidentale dell’isola.

Queste nuove quattro circoscrizioni, governate da famiglie isolane strettamente imparentate tra di loro, abbandonarono le precedenti ripartizioni territoriali bizantine. Durante l’Alto Medio- evo, la Sardegna non subì alcuna dominazione e fu in grado di strutturare un modello politico proprio, decentralizzato e di tipo monarchico.

Tra il 1113 e il 1115 la minaccia saracena venne definitivamente debellata mediante l’intervento
dei Pisani e della flotta genovese. Le due Repubbliche marinare influirono, in seguito, sui destini dell’isola.
Struttura socio-economica durante i giudicati L’amministrazione del Giudicato di Arborea era centrale e periferica (affidata ai curatores).

I luoghi in cui si amministrava la giustizia erano denominati “Corone” (tribunali). Le principali erano quattro:
la Corona de “Sabios” (tribunale supremo presieduto dal giudice); la Corona de Chida de Berruda (riunione dei majorales o consiglio degli anziani; le curatorie e parte degli abitanti dei villaggi si riunivano a Oristano per assumere decisioni); la Corona de logu (indetta dai giudici) e la Corona de portu (decideva sulle controversie marittime).

Esaminando gli eventi dell’epoca attraverso le norme vigenti, affiora un contrasto fra due componenti importanti dell’economia di quel tempo: i pastori e i contadini. I giudici di Arborea, per il fatto che la coltivazione dei cereali era di primaria importanza per il sostentamento del popolo e, in particolare, delle milizie locali, assumevano soprattutto le difese dei contadini dal mo- mento che i pastori non rispettavano la destinazione dei terreni coltivati.

La struttura economica isolana del Medioevo era chiusa e curtense, basata sull’agricoltura e la pastorizia.
Tuttavia, non erano carenti delle forme artigianali vivaci, come la tessitura dell’orbace, la lavorazione dei pellami,la produzione del sale, la pesca del corallo, l’estrazione del ferro e del rame, la grande disponibilità di legname.

Anche se gran parte della popolazione, specialmente all’interno del territorio, versava in condizioni di indigenza, la Sardegna non era priva di risorse e alcune attività commerciali apparivano remunerative.

Nei primi anni del ‘300, gli abitanti del villaggio erano tenuti, se capifamiglia, al pagamento di un datium (tributo dovuto per l’appartenenza a un territorio, quindi, un’imposta personale, che tassa la ricchezza di un contribuente tenendo conto delle sue condizioni familiari, economiche, sociali); i coltivatori erano obbligati al conferimento del triticum (grano e orzo, in lingua sar- da: laore) per l’uso della terra; gli allevatori assegnavano il pecus (pegus) quale corrispettivo per il pascolo (queste ultime erano imposte reali, che assoggettano oggettivamente ad imposta i singoli redditi posseduti).

I giudici sardi favorirono l’insediamento dei pisani e dei genovesi nelle città portuali, mediante la concessione di franchigie doganali ed agevolazioni tributarie, al fine di incrementare gli scambi mercantili. In un’economia prevalentemente di sussistenza, con scambi interni per molto tempo fondati sul baratto, non si avvertiva la necessità di una monetazione indigena.

Per questo motivo, nei “giudicati”, era sufficiente la circolazione di monete provenienti dall’esterno. Fino alla presenza nell’isola degli Aragonesi, la circolazione monetaria corrente era quasi interamente composta da monete pisane e genovesi (per lo scambio con l’esterno si utilizzava il fiorino d’oro, moneta pregiata dell’epoca).

L’argento, prodotto a Villa di Chiesa (Iglesias) veniva esportato, tranne quello utilizzato per coniare monete.

Alla presenza pisana è connessa la prima moneta coniata in Sardegna nel Medioevo. Guelfo e Lotto, figli del conte Ugolino della Gherardesca, in aperto conflitto con il comune di Pisa in seguito alla sconfitta nella battaglia della Meloria, si arroccarono dentro le mura di Villa di Chiesa e disposero la coniazione di una moneta a bassa lega d’argento.

Nella Sardegna catalano-aragonese la monetazione ebbe inizio intorno al 1234, con l’emissione dell’alfonsino d’argento e dell’alfonsino minuto di mistura.3
Più o meno di pari passo nasce nell’Isola, nella seconda metà del ᾽300, una monetazione di origine giudicale, arborense, documentata da fonti storiche dell’epoca.

In quel periodo era in atto un risveglio dell’economia reale: i prodotti della terra e della pastorizia abbondavano e venivano esportati nella penisola italiana, in Francia e in Spagna, sovente con navi condotte da marinai sudditi del giudicato d’Arborea. La moneta arborense (il denaro), introdotta nei primi anni dopo il 1390, corrispondeva al progetto politico di disporre di risorse finanziarie proprie necessarie a sostenere le ingenti spese di una attività governativa, che aveva mire espansionistiche, e di possedere mezzi monetari diversi da quelli in uso nello Stato nemico.

Articolo completo sul numero 55


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