N.61

Numero 62 – I Semestre 2023

Disponibile da Maggio 2023, il nuovo numero 62 di Sardegna Antica

Apriamo questo numero con un articolo che potrebbe apparire sostanzialmente provocatorio, ma che costituisce soltanto un insopprimibile grido di dolore volto a ottenere – finalmente! – il dovuto rispetto e la salvaguardia dei monumenti. La sconcertante vicenda è raccontata dall’incontenibile vena critica dell’archeologo ambientalista Lorenzo Scano, che ricostruisce l’infierire progressivo del maltrattamento attuato sul famoso monumento di Monte d’Accoddi.
Certo non sono le uniche vestigia incomprese e travisate da questa archeologia sarda bipolare, ma forse mai con così pervicaci e ingiustificate colpe. Non consola che la vicenda del nostro, trovi una sorta di fatti paralleli in ciò che accadde anche a Stonhenge in Inghilterra. Le vicende a cui questo monumento fu sottoposto dal dopoguerra a oggi, hanno dell’incredibile. Da ultimo fu ricostruito nelle parti alte con una ridicola gradinata completamente adespota per struttura e materiali: espressione vergognosa e immatura di istituzioni che giungono a creare un sito archeologico irreale e fasullo, ingannatore, violandone la natura originaria, forzando il monumento verso un quadro culturale e cronologico improprio.
Segue un articolo di Maurizio Feo in due parti: la prima riguarda l’archeologia in generale, quella internazionale nei suoi progressi evolutivi fino ad oggi; nella seconda parte (che leggeremo nel prossimo numero 63) compariranno più precisi riferimenti ai monumenti e agli archeologhi sardi.
Maura Andreoni ci intrattiene, sempre piacevolmente, con un breve e interessante excursus tra botanica, storiografia e mito, tratto dal suo libro “Alberi fiori e frutti nelle bandiere di stato”.
Una richiesta epistolare d’informazioni sull’oleandro – pianta spontanea onnipresente in Sardegna – è stata provvisoriamente soddisfatta da M. Feo: se i lettori dovessero avere validi contributi circa ambiente, fauna e flora della Sardegna, Storia, Tradizioni popolari, Arte i loro scritti saranno certamente ben accetti e presi in considerazione per la stampa.
Con un articolo intransigente: “Se crediamo a Platone”, M. Feo risponde – si spera definitivamente – ai reiterati inviti a parlare dell’ipotesi Atlantide/Sardegna, divenuta tanto di moda.
Numerose in questo numero sono le recensioni: alcune esprimono il nostro entusiasmo nei confronti di testi di cui si caldeggia la lettura; altre sono meno favorevoli, pur se talvolta riferite a scritti culturalmente validi, ma meno accessibili al vasto pubblico.
“Spigolando tra lessico e numeri”, di Giacobbe Manca, dà corpo e anima al detto latino: castigat ridendo mores: ci strappa sorrisi velati di tristezza mentre espone le carenze e le implicite malefatte croniche di una casta archeologica sarda irrimediabilmente inconsistente.
Nello Bruno ci conduce per mano, lungo percorsi – per tanti inconsueti – delle etimologie e dell’evoluzione dell’espressione verbale, stimolando nuove considerazioni (e dubbi!) su infondate acquisizioni linguistiche.
In un articolo d’economia, Giovanni Enna porta alla nostra attenzione interessanti dettagli storici pertinenti al lungo periodo d’interazione Fenicio- Punica con gli isolani sardi. Lo stesso, in un secondo articolo, ci rivela il molto tormentato periodo, poco conosciuto, dei circa 80 anni di dominazione vandalica e i conseguenti contrasti con la Chiesa e la popolazione locale.
Peppino Pischedda espone in dettaglio quale grande dose di coraggio fosse necessaria a una femminista ante litteram della seconda metà del ‘700 – Marie Gouze – per sostenere tesi che oggi (grazie a molte eroine interamente spese per la causa) sembrano quasi ovvietà: il vocabolo “femminista” fu coniato dopo la sua morte per decapitazione.
Pietro Martis offre una breve, eccellente istantanea di come un non sardo possa perdutamente innamorarsi dell’isola e dei suoi abitanti, solo per l’aver vissuto con loro durante un lavoro commissionato dal re piemontese: il rifacimento dell’ormai disastrata strada romana a Caralis Turris Libisonis, di cui Carlo Felice avocò a sé l’intero merito con una molto inopportuna statua.
Gian Gabriele Cau ritorna ancora sui sorprendenti studi epigrafici, osservabili sulle pareti di Sant’Antioco di Bisarcio. I curiosissimi e interessanti graffiti, sono raccontati dall’autore attraverso vivide “immagini filmiche”, com’egli riferisce, tra fede e storia.
Alessandro Atzeni e Sandro Garau, collaudata squadra sinergica di Architettura Preistorica, comunicano il loro più recente studio sul particolarissimo nuraghe complesso Duvilinò (Orgosolo), con con foto e rilievo planimetrico. I nostri propongono l’apparentamento con altri già noti edifici, analoghi per particolarità costruttive e nel contempo individuano una categoria di edifici che battezzano “nuraghi arroccati”. Con una convincente e attenta descrizione, mostrano – com’è d’uopo per archeologi preistorici – una grande sensibilità per i componenti delle strutture ed esplicitamente auspicano, nuove modalità tecnologiche di studio.

Sommario

  • Monte d’Accoddi, la costruzione misteriosa – Lorenzo Scano
  • Dove va l’Archeologia – Maurizio Feo
  • L’olivo, un simbolo di pace sulle bandiere – Maura Andreoni
  • Il sorriso ingannatore – Maurizio Feo
  • Se crediamo a Platone – Maurizio Feo
  • Spigolando tra lessico e numeri – Giacobbe Manca
  • La terra A-bitata: Casa-Territorio-Popolo o del pensiero primitivo – Nello Bruno
  • Interazione economica tra Fenici, Punici e Sardi – Giovanni Enna
  • La chiesa sarda durante il periodo vandalico – Giovanni Enna
  • Recensione libro di Giacobbe Manca “Archeologia di Sardegna” – Maurizio Feo
  • Olympe de Gouges 1748-1793 – Peppino Pischedda
  • Carbonazzi, il suo stradone e il sigillo di Carlo Felice – Piero Martis
  • Episodi di guerra medievale nei graffiti di Sant’Antioco di Bisarcio – Gian Gabriele Cau
  • Il nuraghe Duvilinò e i “Nuraghi Arroccati”Alessandro Atzeni e Sandro Garau


IL NUOVO NUMERO IN EDICOLA

Numero 62 – I Semestre 2023 Read More »

Danza Nuragica

I principî giuridici sono molto importanti nella vita. Mi viene in mente un breve articolo letto qualche generazione fa, dove si ricordava una verità su un mondo di grassatori volti a tutto ciò che è animato e inanimato. Tutto è a rischio di furto e lucro privato. Una riflessione del diritto romano riguarda la… res omnium, che non può essere res nullius (le cose di tutti, poiché tali, non sono di qualcuno in particolare o, ancor meno, sono a disposizione dei più furbi).
Inoltre, godere in vita di un bene comune, inalienabile, non può dare il destro di assaltare a proprio uso e consumo la proprietà pubblica.
Il guardaboschi vivrà gran parte della vita fra alberi e animali selvatici, ma ciò non lo renderà mai padrone di quei beni naturali, che sono res omnium e non res nullius, ancorché egli li senta come suoi o vi sia profondamente affezionato.
Simile discorso si può fare per milioni di persone al servizio di privati e dello Stato.

Analogo discorso vale per l’usciere di un Museo o per i burocrati addetti alla tutela dei monumenti, per giochi politici o fatalità, dei quali beni si sentono certo i padroni e mostrano di fare di essi ciò che vogliono. Purtroppo, a volte occorrono secoli perché si conseguano norme giuridiche corrette.
Dunque: i monumenti preistorici, come le risorse naturali sono res omnium (o dovrebbero esserlo), nella loro fisicità e nell’importanza sociale, culturale e magari economica. Tutti sanno che è banale dirlo, lapalissiano… moltissimi ne sono certi, ma altrettanti no, sia perché l’argomento non li tocca sia perché asservono i beni archeologici come mezzi della propria ingorda carriera, sempre troppo lucrosa. Questi ultimi sono notevolmente i peggiori nemici dei beni archeologici; in loro prevale l’arroganza, la presunzione di un senso di potere assoluto: ne dispongono in nome di un vago diritto inesistente, solo preteso. Sono avvezzi alle scorciatoie per tessere di partito (le nuove chiavi elettroniche) e appartenenza alla nuova feudalità politica.
I monumenti preistorici, per loro stessa specificità, sono i più fragili davanti a tali bipedi narcisi, egocentrici e dunque insensati. Spesso, i giovani che lavorano al mantenimento e al godimento dei presidi turisticamente proponibili sono o hanno motivo per sentirsi sotto ricatto dalla superbia di questi tacchini tronfi, che spesso diventano aggressivi, impongono le loro amene favole da incapaci e minacciano ritorsioni… ove i giovani non manifestino sottomissione!

Invito al ballo
Casualmente, in una conferenza in quel di Ozieri, si parla di nuraghe. Un’attempata oratrice, fra le varie gaiezze da salotto disse che in un suo scavo archeologico – mi sfuggì dove – mise in luce una rampa gradinata nuragica a cielo aperto, posta fra due torrette. Sì è vero, non si disponeva ancora di questa casistica dacché mancò il Padre garante.
Oggidì ciascuno, sia pure con molte incertezze, ormai elabora per sé… lutto e disciplina.
Un mio fugace invito a specificare il fatto fu stroncato come lebbra: segreti di stato e… personali, soprattutto. Le domande non sono gradite: ¡nulla si concede ai rivali! C’è sempre qualcosa che sfugge a molti: la scala nuragica intermuraria a cielo aperto (sic?) mi mancava proprio, dopo mezzo secolo di visite attente ai monumenti nuragici. Urge tener conto di così acute novità.

Primo movimento
Per non cambiare pista da ballo… mi sovviene un’immagine lontana del nuraghe di San Nicola (ciò che ne resta), dell’omonima frazione distaccata di Ozieri, che fu svuotato nel cuore e nel “pericardio”.
Pressoché fagocitato dalle palazzine dell’abitato, sorprende per non essere ancora divenuto sede di una comoda discarica; per ora, qua e là, poche porcheriole eterogenee: ¡Un plauso al civismo dei popolani!
Davanti alla torre centrale è un piccolo cortile che accoglie le aperture di due torrette addossate e antistanti alla detta. È ben costruita… nella parte basale residua, più alta delle affiancate e foriera di curiosità per certa regolarità e ingiustificate aggiunte sopra e oltre l’architrave d’ingresso: ci sono anche tre filari elevati su tutti.
A Nord-Est del cortile si vedono gli esiti “a cielo aperto” di una rampa posta tra la torre centrale e l’edificio aggiunto intorno a Est; i blocchi ben martellati; tutto è in trachite e basalto.
Che sia quella la scala sotto le nuvole orecchiata alla conferenza? Indubbiamente, da qui puoi vedere le stelle… ora che l’edificio ha subito le chiudende ottocentesche e la frenesia dei grassi proprietari terrieri e chissà quali altri assalti per almeno tre quarti del Novecento.
Orbene, se all’archeologo manca una visione d’insieme della logica e dello spirito nell’architettura nuragica, per chi valuta, diviene difficile “vedere” la complessità originaria di un edificio con “scale aperte” e si è preda di idee naïves. Mi pare assurdo e non voglio credere… ma tutto è possibile!
Ricordo la patologica autostima dei burocrati per il ruolo rivestito, acuito davanti a un’eterogenea assemblea animata, legittimo campione del ben più ampio parco buoi produttore di biomassa, e così si affossa ancor più l’archeologia preistorica sarda.
Come quando ci si sente osservati, qualcosa nel San Nicola disturba equilibri e fascino antico.
È presto detto: al culmine della torre centrale è disposto in più filari, solo per un terzo del giro verso chi arriva, una sorta di placcaggio: una coroncina… da principessa, fatta di lastre affiancate poste di coltello e in altri modi: a un solo paramento per fortuna, fissato con zeppe e abbondante cemento… di ottima qualità.

Ci si accorge della genialità di tale realizzazione archeologica, certo freudiana, solo guardando alle spalle della chiostra di conci, dove – lieve sollievo – nessun muro di spalla sostiene tanta magnificenza: non ci speravo proprio e c’è da incrociare le dita.
La cosa ha prodotto, verso Sud-Est, un innalzamento regale del nuraghe centrale aprendo così cento altri inchini, come epiteti, adatti per i mai abbastanza “apprezzati archeologi/ghe” della soprintendenza: oserei dire ¡mai onorati/e abbastanza!
La prima piroetta introduce al diritto mondiale dei monumenti. Per esempio: ¿Chi autorizza i burocrati della soprintendenza a violentare in questo modo una reliquia della preistoria contro ogni dettato di leggi italiane e accordi internazionali in materia? ¿Ora il nuraghe è più bello?… ¿Scientificamente è più rilevante? ¡Buon Signore del cielo, guardi e lasci fare! ¿Mai un fulmine?…

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO SU SARDEGNA ANTICA N.61

Danza Nuragica Read More »

Numero 61 – II Semestre 2022

Disponibile da Novembre 2022, il nuovo numero 61 di Sardegna Antica

Il numero 61 della Rivista Sardegna Antica, si presenta denso di argomenti intreressanti, che ci sembrano adatti al periodo che stiamo attraversando: si parla infatti di Salute, come anche di Guerra Mondiale, senza dimenticare il nostro costante imperativo, che consiste nella corretta interpretazione della storia della Sardegna. Vediamo una breve rassegna delle ricerche e gli studi proprosti al vostro gradimento.
Per prima, M. Andreoni, con l’articolo Homo Patiens, accoglie egregiamente il lettore, accompagnandolo tra magia, religione e medicina del mondo antico: lo guida sicura tra le acque curative sarde di Fordongianus, attraverso l’Etrusca Disciplina, le pratiche medico-superstiziose greche e latine, fino alla nascita del simbolo del Caduceo, quasi alle soglie della scienza medica. Seguono due articoli di M. Feo, volti a ribadire i validi motivi dell’equidistanza di Sardegna Antica sia dalle imprecisioni dell’Accademia (Pietà religiosa e vanità terrena) su cronologia e interpretazione materiale), sia dalla “Fantarcheologia” di molti non addetti ai lavori (Gil Gamesh. L’eroe e la scrittura) circa l’invenzione della “scrittura nuragica”. A. Assorgia (Il Supramonte di Baunei) descrive e spiega le fascinose meraviglie geologiche, archeologiche e botaniche del Monte di Baunei, rivelandone alcune ignote e proponendo nuove prospettive di ricerca. G. Manca (Danza Nuragica) interviene con un’ulteriore sua critica – sarcastica e umoristica, come d’uso, ma sempre didattica e ben argomentata – verso l’atteggiamento superficiale e inconcludente dell’Accademia sarda nei confronti della civiltà nativa, cui restano dunque scarse possibilità d’essere compresa e conosciuta.
A. Atzeni (La prima alabarda in Sardegna) ci offre un sintetico, ma veramente ottimo esempio di archeologia interpretativa, dimostrando che essa è possibile anche in Sardegna: una fresca ventata di benvenuta razionalità, fonte di ottimismo.
Seguono due articoli d’argomento bellico, visti i tempi attuali: il primo è di G. Enna (La Grande Guerra e l’epopea della Brigata Sassari), che rievoca anche da un punto di vista sardo, rilevanti fatti storici, economici e di costume, che prepararono, accompagnarono e seguirono alla Grande Guerra; il secondo è di P. Pischedda (I Dimonios e Raimondo Scintu), che fa rivivere l’Eroe Scintu, la Brigata Sassari e aneddoti poco noti di valore, dedizione ed eroismo isolano. Insieme, i due articoli compongono un unico racconto in cui sembra d’intravvedere – per un momento – il genio di Emilio Lussu, che firmò un terribile diario resoconto (l’unico esistente!) della Prima Guerra Mondiale.
Quindi C. Maccioni (Il Fuoco. Francesco Ciusa e Sebastiano Satta) espone un ben documentato studio, veramente interessante e pieno di riferimenti, nel quale svela un parallelo tanto artistico, quanto profondamente umano tra i due amici e artisti nuoresi, partendo da un bassorilievo donato dal Ciusa al Satta e accompagnando quest’ultimo – il più anziano – oltre la prematura scomparsa per malattia, fino al monumento funebre dedicatogli dall’amico scultore.
Giovanni Graziano Manca (Marcello Serra nel cinema documentario sardo) descrive il Serra come un sardo che voleva far conoscere l’amata terra al vasto pubblico televisivo. Spiega che il suo modo di documentare l’isola come un luogo magico, forse mentiva un poco (certamente non quanto si mente oggi in costosissimi filmati infondati!), quasi mostrandosi in attesa di un fulgido futuro che, purtroppo, ancora non è arrivato.
Infine Nello Bruno (Su Irgu Marras) spiega, per gli amanti delle lingue e dell’etimologia, la derivazione forse semitica di una definizione dialettale sarda per un fenomeno naturale come i lampi a ciel sereno. A quanto pare la spiegazione passerebbe per quel simpatico e raro mammifero marino noto come “bue marino”, la foca monaca: altrimenti, la denominazione dialettale non troverebbe una plausibile spiegazione. Completa le pagine di questo numero la citazione di tre libri interessanti: uno è “Sorprendenti piante del Friuli” (di S. Costantini e A. Moro), un altro riguarda le “Statue di Mont’e Prama” (di P. Secci) e un terzo “1802, La rivoluzione che non ci fu” (di G. e A. Muzzeddu).

Si segnala che le opinioni espresse nelle relative recensioni sono valutazioni personali e che certo non avremmo perso tempo con analisi di libri che non meritano menzione. Infine, a proposito di libri, è forse il caso di annunciare l’imminente edizione di uno nuovo dell’archeologo G. Manca, che è tanto poco atteso quanto sarà sorprendente: “Archeologia dell’Isola Selvaggia: from an original idea by Duncan Mackenzie”, di cui si mostra la copertina. Il titolo bilingue allude al fatto che si tratta di un’affidabile traduzione – commentata e spiegata da Manca – dall’originale inglese dei testi dell’archeologo scozzese, inviato in Sardegna dalla British School of Rome. Lo stesso che Arthur Evans aveva scelto come compagno per scavare a Cnosso. Nel nuovo libro di Manca si descrivono gli eventi, talvolta contorti e complessi, che impedirono una pronta traduzione e divulgazione degli scritti originali. Si sottolineano gli errori in cui incappò lo scozzese, solo apparentemente bene accolto dagli archeologi sardi coevi. Si racconta come avvenne che tali errori di valutazione architettonica furono presi per veritieri in accademia e riproposti pedissequamente, senza alcun senso critico, né dubbi in altri testi.
Insomma, non è solo un libro di archeologia sarda: è anche – e soprattutto – un resoconto di storia dell’archeologia sarda degli ultimi anni, così come può legittimamente raccontarla chi quegli anni ha vissuto in prima persona. La veste grafica è curata da un ottimo tecnico di scuola moderna e richiama i contenuti attraverso gli schemi dei monumenti analizzati. Nel retro copertina è il ritratto di Mackenzie è reso con una tecnica elettronica attraverso i suoi stessi scritti inglesi. Il CSCM e la Grafica del Parteolla sono certi che l’opera sarà rivoluzionaria per l’Archeologia sarda.
Un libro che non prenderà polvere su uno scaffale…

Sommario

  • Homo patiens – Maura Andreoni
  • Pietà Religiosa e Vanità Terrena – Maurizio Feo
  • Ghilgaméš. L’eroe e la scrittura – Maurizio Feo
  • Il Supramonte di Baunei, nuove scoperte – Antonio Assorgia
  • Danza Nuragica – Giacobbe Manca
  • La prima alabarda preistorica in Sardegna – Alessandro Atzeni
  • La Grande Guerra e l’epopea della Brigata Sassari – Giovanni Enna
  • I Dimonios e Raimondo Scintu – Peppino Pischedda
  • Il Fuoco: Francesco Ciusa e Sebastiano Satta – Carlo Maccioni
  • Marcello Serra e il cinema documentario sardo – Giovanni Graziano Manca
  • Su Irgu marras- Nello Bruno

IL NUOVO NUMERO IN EDICOLA

Numero 61 – II Semestre 2022 Read More »

Homo Patiens

Quindici anni or sono, la magistratura affidò in custodia giudiziale all’Antiquarium Arborense di Oristano alcuni materiali in bronzo: una brocca askoide nuragica in bronzo fuso, un frammento di tripode del Tardo Cipriota III e un gruppo di “strumenti chirurgici romani”, apparentemente provenienti da Forum Traiani (Fondongianus, 27 chilometri a nord-est di Oristano).
Il fatto del rinvenimento di strumenti chirurgici sarebbe stato davvero eccezionale perché poteva essere il primo contesto accertato dell’attività della chirurgia di un centro romano della Sardegna con medici che, a giudicare dai ferri rinvenuti, dovevano essere stati certamente di alto livello.

Il Professor Zucca dell’Università di Sassari parlò del rinvenimento alla stampa, evidenziando il rilievo della scoperta e accingendosi alla pubblicazione nella serie “L’Africa romana” dell’Università di Sassari insieme all’archeologo Tanino Demurtas. Contestualmente però, scoprendo il filone delle riproduzioni contemporanee di strumenti chirurgici romani provenienti soprattutto da Pompei e dalla Britannia, dopo un’ampia ricerca con il confronto tra gli oggetti sequestrati e i repertori provenienti da vari musei italiani ed europei, il professore si convinse dell’imitazione moderna e dunque rinunciò alla pubblicazione.

Morale della storia, gli unici rinvenimenti di “strumentazione chirurgica” in Sardegna al momento rimangono solo i singoli pezzi rinvenuti a Tharros e a Turris Libissonis (Porto Torres), secondo quanto tramandato dai dati ottocenteschi del Canonico Giovanni Spano, che però considerò “stromenti chirurgici” romani in bronzo quelli che oggi conosciamo essere rasoi punici, abbondanti a Tharros e Karales.
Forti di altre documentazioni sia letterarie sia archeologiche però (altre collezioni estremamente importanti sono state ritrovate in vari altri luoghi dell’impero, primo tra tutti Rimini, con la splendida strumentazione chirurgica rinvenuta nella c.d. Domus del Chirurgo), questa è comunque una bella occasione per fare alcune considerazioni sulla medicina e la chirurgia in età romana che, rinvenimenti a parte, anche nell’isola doveva senz’altro essere praticata.

A differenza della società greca, che riteneva la salute un fatto privato e personale, Roma con il tempo andò sempre più tutelando la sanità pubblica con l’istituzione di una serie di servizi igienici e sanitari per prevenire le malattie e migliorare le condizioni di salute: acquedotti, bagni pubblici, reti per le acque reflue, terme, sorveglianza igienica sugli alimenti, cloache e leggi sanitarie per la difesa della salute pubblica riconosciute e rinomate in tutto l’impero.
La medicina romana delle origini si connette alla medicina di altri popoli latini e, in particolar modo, all’etrusca disciplina, una pratica che consisteva nell’evocazione delle divinità attraverso oggetti, simboli, formule o altro.5 Medicina e religione erano strettamente interconnessi e gli aruspici rivestivano un ruolo fondamentale

“il maggiore esponente della medicina greca rimase Ippocrate (V/IV sec. a.C.), “il Padre della medicina”, che ebbe il merito di abbandonare l’approccio magico-religioso, far avanzare lo studio sistematico della medicina clinica riassumendo le conoscenze mediche delle scuole precedenti e descrivere le pratiche mediche attraverso il Corpus Hippocraticum e altre opere.”

I medici greci erano rinomati in tutto il mondo antico ma, leggendo le fonti, si nota che all’inizio non tutti a Roma erano ben disposti nei loro confronti. In fondo erano “barbari” che vantavano la capacità di guarire con metodi disinvolti, e spesso brutali, i malati.
Per i tradizionalisti, questa artificiosa medicina straniera sostituiva la buona vecchia medicina amministrata dal pater familias che generalmente, almeno nell’uomo adulto e libero, collegava le malattie del corpo ai mali dell’anima, il cui rilassamento rendeva il corpo meno attento e quindi più vulnerabile. Quella amministrata dal pater familias era una medicina domestica il cui fulcro erano il vino, alcuni frutti, parti di animali, l’olio, la lana e alcune piante, in primis il cavolo (brassica), ritenuto in grado di curare ogni tipo di malattia.

Nonostante tutto questo e la sfiducia dei tradizionalisti però, i medici greci continuarono ad arrivare. Secondo quanto attesta Plinio, il primo giunse a Roma dal Peloponneso nel 219 a.C.. Si trattava di Archagatos, figlio di Lysanias, che all’inizio fu così ben accolto che gli venne addirittura concessa la cittadinanza romana e un locale a spese dello stato. Esercitava come “vulnerarius”, specialista di ferite, effettuava amputazioni e incisioni e cauterizzazioni (secare, urĕre). Fu dapprima molto popolare, ma i suoi metodi energici gli fecero poi perdere la simpatia della popolazione che presto gli affibbiò il soprannome di carnifex (boia, macellaio).

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO SU SARDEGNA ANTICA N.61

Homo Patiens Read More »

La prima alabarda in Sardegna

Prima alabarda preistorica ritrovata in Sardegna

Le cosiddette “alabarde” sono una particolare classe di armi, così denominate a livello archeologico, che nella pre-protostoria precedono e poi vengono completamente sostituite dalle spade nel ruolo bellico e rappresentativo.
La spada, infatti, è l’arma per eccellenza del guerriero, in quanto strumento appositamente progettato per il combattimento. A differenza di altre armi come lance, archi, frombole e asce, non esiste un uso secondario (come la caccia) per quest’oggetto, che vada aldilà dello scopo di ledere un altro essere umano. L’unica funzione alternativa della spada è quella di rappresentanza, ovvero quando assurge al rango di oggetto da esibire per rafforzare o sottolineare lo status, in vita come nella morte, del suo portatore.
Un ruolo somigliante dovette svolgere anche l’alabarda, infatti, quest’arma è ampiamente nota per aver preceduto l’invenzione della spada.
Di fatto, il suo utilizzo si colloca tra la fine dell’età del rame e l’inizio dell’età del bronzo nell’intera Europa, quando i pugnali e le daghe iniziano a svilupparsi in lunghezza, diventando vere e proprie spade.

Il termine “alabarda” non è esattamente corretto, ed è stato mutuato dalla nomenclatura delle armi medioevali.
Indica un’arma lunga, che si sviluppa intorno all’XI secolo A.D. per poi standardizzarsi intorno al XIV secolo A.D. È composta da una lama larga, solitamente più o meno parallela al manico su cui è inastata, dotata di una punta centrale, che prosegue idealmente lungo la direzione dell’asta, e da un “becco”, o una generica punta, usata per agganciare o bucare.

L’alabarda preistorica, invece, è più simile a un’ascia dotata di un’unica punta a forma di becco e solitamente asimmetrica, con uno dei lati taglienti maggiormente incurvato verso le mani dell’utilizzatore, probabilmente per accentuare il colpo di punta dato dall’alto. Sono famose le raffigurazioni di quest’oggetto sulle statue stele del Trentino, come quelle rinvenute presso riva del Garda, o le raffigurazioni rupestri della Val Camonica, dove l’arma è rappresentata numerose volte.

L’alabarda, infatti, era estremamente diffusa e viene ritenuta, a buon diritto, un’arma di rappresentanza.”

Considerate tutte le implicazioni di carattere sociale, e la considerevole mancanza di frequenti riscontri per questo oggetto in relazione alla Sardegna preistorica, è stato identificato dallo scrivente e pubblicato nella propria tesi di laurea magistrale un singolo esemplare di 25 cm rinvenuto negli scavi del Nuraghe Seruci di Gonnesa. Tale arma tuttavia, fu interpretata, a causa della semplicità estrema e della natura ambigua, come una “punta di lancia”. Singolare è che l’oggetto sia rappresentato nella cartellonistica del nuraghe e, tuttavia, le relazioni di scavo non fanno cenno alcuno a questo oggetto. In ogni caso può dirsi certa la sua provenienza dal monumento detto. Se dovesse essere accettato e condiviso che di un’alabarda si tratti, come qui sostengo, si avrebbe un rinvenimento straordinario e da esso deriverebbe una diversa ipotesi di lettura del tipo di società dalla quale esso proviene. Se appartenesse al gruppo umano che affrontò la costruzione e l’amministrazione dei monumenti propriamente nuragici, si dovrà mutare la valutazione che attualmente si vagheggia per esso…

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO SU SARDEGNA ANTICA N.61

La prima alabarda in Sardegna Read More »