Quindici anni or sono, la magistratura affidò in custodia giudiziale all’Antiquarium Arborense di Oristano alcuni materiali in bronzo: una brocca askoide nuragica in bronzo fuso, un frammento di tripode del Tardo Cipriota III e un gruppo di “strumenti chirurgici romani”, apparentemente provenienti da Forum Traiani (Fondongianus, 27 chilometri a nord-est di Oristano).
Il fatto del rinvenimento di strumenti chirurgici sarebbe stato davvero eccezionale perché poteva essere il primo contesto accertato dell’attività della chirurgia di un centro romano della Sardegna con medici che, a giudicare dai ferri rinvenuti, dovevano essere stati certamente di alto livello.
Il Professor Zucca dell’Università di Sassari parlò del rinvenimento alla stampa, evidenziando il rilievo della scoperta e accingendosi alla pubblicazione nella serie “L’Africa romana” dell’Università di Sassari insieme all’archeologo Tanino Demurtas. Contestualmente però, scoprendo il filone delle riproduzioni contemporanee di strumenti chirurgici romani provenienti soprattutto da Pompei e dalla Britannia, dopo un’ampia ricerca con il confronto tra gli oggetti sequestrati e i repertori provenienti da vari musei italiani ed europei, il professore si convinse dell’imitazione moderna e dunque rinunciò alla pubblicazione.
Morale della storia, gli unici rinvenimenti di “strumentazione chirurgica” in Sardegna al momento rimangono solo i singoli pezzi rinvenuti a Tharros e a Turris Libissonis (Porto Torres), secondo quanto tramandato dai dati ottocenteschi del Canonico Giovanni Spano, che però considerò “stromenti chirurgici” romani in bronzo quelli che oggi conosciamo essere rasoi punici, abbondanti a Tharros e Karales.
Forti di altre documentazioni sia letterarie sia archeologiche però (altre collezioni estremamente importanti sono state ritrovate in vari altri luoghi dell’impero, primo tra tutti Rimini, con la splendida strumentazione chirurgica rinvenuta nella c.d. Domus del Chirurgo), questa è comunque una bella occasione per fare alcune considerazioni sulla medicina e la chirurgia in età romana che, rinvenimenti a parte, anche nell’isola doveva senz’altro essere praticata.
A differenza della società greca, che riteneva la salute un fatto privato e personale, Roma con il tempo andò sempre più tutelando la sanità pubblica con l’istituzione di una serie di servizi igienici e sanitari per prevenire le malattie e migliorare le condizioni di salute: acquedotti, bagni pubblici, reti per le acque reflue, terme, sorveglianza igienica sugli alimenti, cloache e leggi sanitarie per la difesa della salute pubblica riconosciute e rinomate in tutto l’impero.
La medicina romana delle origini si connette alla medicina di altri popoli latini e, in particolar modo, all’etrusca disciplina, una pratica che consisteva nell’evocazione delle divinità attraverso oggetti, simboli, formule o altro.5 Medicina e religione erano strettamente interconnessi e gli aruspici rivestivano un ruolo fondamentale
“il maggiore esponente della medicina greca rimase Ippocrate (V/IV sec. a.C.), “il Padre della medicina”, che ebbe il merito di abbandonare l’approccio magico-religioso, far avanzare lo studio sistematico della medicina clinica riassumendo le conoscenze mediche delle scuole precedenti e descrivere le pratiche mediche attraverso il Corpus Hippocraticum e altre opere.”
I medici greci erano rinomati in tutto il mondo antico ma, leggendo le fonti, si nota che all’inizio non tutti a Roma erano ben disposti nei loro confronti. In fondo erano “barbari” che vantavano la capacità di guarire con metodi disinvolti, e spesso brutali, i malati.
Per i tradizionalisti, questa artificiosa medicina straniera sostituiva la buona vecchia medicina amministrata dal pater familias che generalmente, almeno nell’uomo adulto e libero, collegava le malattie del corpo ai mali dell’anima, il cui rilassamento rendeva il corpo meno attento e quindi più vulnerabile. Quella amministrata dal pater familias era una medicina domestica il cui fulcro erano il vino, alcuni frutti, parti di animali, l’olio, la lana e alcune piante, in primis il cavolo (brassica), ritenuto in grado di curare ogni tipo di malattia.
Nonostante tutto questo e la sfiducia dei tradizionalisti però, i medici greci continuarono ad arrivare. Secondo quanto attesta Plinio, il primo giunse a Roma dal Peloponneso nel 219 a.C.. Si trattava di Archagatos, figlio di Lysanias, che all’inizio fu così ben accolto che gli venne addirittura concessa la cittadinanza romana e un locale a spese dello stato. Esercitava come “vulnerarius”, specialista di ferite, effettuava amputazioni e incisioni e cauterizzazioni (secare, urĕre). Fu dapprima molto popolare, ma i suoi metodi energici gli fecero poi perdere la simpatia della popolazione che presto gli affibbiò il soprannome di carnifex (boia, macellaio).
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