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Il Nuraghe Longu di Chiaramonti

La regione storica Anglona, nel Nord della Sardegna, si gloria della presenza di numerosissime e particolari testimonianze preistoriche. Anche le più antiche tracce della presenza umana nell’isola ci giungono proprio da questo territorio: ben noti sono i ritrovamenti di utensili litici di selce in tecnica detta Clactoniana, attribuiti al paleolitico inferiore e datati da 250 a 700 mila anni. Esse provengono dalle balze quaternarie dislocate lungo il Rio Battana (detto anche Altana), nel tratto che scorre tra Martis, Laerru e Perfugas prima d’immettersi nel maggiore fiume Coghinas.
Il territorio è anche ricco di documenti monumentali e di reperti ascrivibili al Neolitico, attestato fin dalla fase media detta cultura di Bonu Ighinu. La straordinaria statuina, o veneretta di Dea Madre è una tra le numerose suppellettili: l’unica conosciuta con un bimbo tenuto al seno. L’oggetto è parzialmente mutilo, ma innegabilmente nella frattura è riconoscibile la sagoma del poppante.
Alla fase neolitica appartengono anche splendide domos de janas scavate nella roccia, che in quest’area sono spesso ricche di bassorilievi zoomorfi o teriomorfi (cioè, motivi magico-religiosi, che evocano animali o divinità totemiche a essi correlate) scolpiti nelle pareti. Questi singolari monumenti sono tombe collettive e risalgono almeno al Neolitico Medio, con una grande diffusione dalla fase recente.
In questi monumenti gli scalpellini mostrano sia una grande maestria nell’esecuzione, sia una profonda conoscenza degli affioramenti da scavare e delle pietre da utilizzare per riuscire ad aggredirli, scavando e decorando in diverso modo le sepolture.

L’indagine sul nuraghe Longu riporta alla piena Età del Bronzo e le peculiarità di questo nuraghe ci inducono a pensare che quegli antenati lontani, costruttori di rara maestria e intelligenza, abbiano ereditato le grandi abilità nella lavorazione della pietra da quei lontanissimi scalpellini neolitici, che oggi si apprezzano per i loro edifici a bastione e le torri preistoriche, chiamati nuraghe in Sardegna e così noti nel mondo.
La ricerca che da anni ci spinge a visitare e studiare queste straordinarie costruzioni, non a caso ci ha portato spesso nei territori dell’Anglona, una delle regioni dell’Isola particolarmente ricca di monumenti. Fra questi è pure ampia la casistica delle varianti, le cui specificità offrono il destro per arricchire sia le conoscenze architettoniche, sia la possibilità di prospettare le linee di un progresso generale, nelle tecniche e nel pensiero progettuale.
Il nuraghe Longu di Chiaramonti si trova in località Funtana Saltza, facilmente individuabile percorrendo la statale 672 verso Tempio, sulla sinistra, dopo circa 2 km oltre il più noto e ben visibile nuraghe Ruju, a brevissima distanza dalla strada, ma precluso alle visite. Il Longu è costruito con la locale trachite rossa. Un marcato e secolare spietramento lo ha ridotto alla sola camera basale; ne ha occluso l’ingresso rivolto a Sudest e messo in luce la rampa intermuraria, dalla quale oggi è possibile l’accesso. L’esterno è facilmente leggibile solo nel lato Nord-Nordest, laddove si apprezza la raffinata disposizione e lavorazione dei conci di blocchi disposti in filari; in questo lato la torre si eleva per 5 metri abbondanti sulle macerie. La muratura residua emerge dall’accumulo della rovina e lascia ipotizzare una struttura complessa dalle dimensioni di maggiori dimensioni. L’ispezione interna della torre può avvenire solo inerpicandosi sul materiale d’accumulo causato da spoliazione, fino a giungere quasi al colmo. Un incredibile squarcio aperto sul vano scala/rampa mostra subito misure da record: una larghezza di metri 1,50 alla base e di 1,10 al colmo del vano è indiscutibilmente eccezionale e finora unica.

Attraverso la posizione scomposta dei conci trachitici resta uno squarcio tra le murature, dal quale è possibile riconoscere l’esito di un vano intermurario, differente dalla camera basale, che è ricavato in uno spessore murario usualmente non vuotato nelle torri nuragiche Volendo dare una descrizione semplicistica vagamente orientativa a chi non ha mai varcato l’ingresso di queste torri preistoriche, si potrebbe dire che questi antichi edifici sono sostanzialmente costituiti da più paramenti concentrici, quasi gusci multipli, che racchiudono le camere disposte in genere fino a tre livelli; attorno a esse sono gli spazi dei vani di servizio: un apprestamento dell’ingresso, nicchie, rampe per giungere ai piani alti, ma anche vani accessori non canonici, anch’essi raggiungibili per mezzo di scale sussidiarie o attraverso botole servite da scale in legno. Il nuraghe Longu fa parte di una nutrita lista di torri che – limitandoci a guardare nella sola Anglona – sono appunto note per la presenza in esse di vani infra-piano, da alcuni detti mezzanini, e che allo stato attuale della ricerca sembrerebbero presenti con maggiore frequenza nell’area centro settentrionale dell’isola.

Il mezzanino del nuraghe Longu entra a pieno diritto tra quelli definibili più unici che rari, potremmo quasi considerarlo come un corridoio interrotto in quota che si sviluppa da est a ovest del cono murario. La sua considerevole dimensione, che sul piano pavimentale abbiamo misurato in ben 12,60 metri di sviluppo, lo differenzia da quelli già noti che nella maggior parte dei casi terminano con un modesto spazio ricavato sopra l’ingresso.
Il vano mezzanino del Longu dal suo punto di apertura sulla nicchia d’andito oltrepassa di molto il sottostante corridoio d’ingresso. Lo stretto vano posto al colmo dell’edificio residuo, è qui descritto in modo assai parziale a causa delle condizioni deprecabili del nuraghe: noi lo definiamo mezzanino, ma uno scavo razionale del nuraghe potrebbe dimostrare che appartiene a una seconda rampa. È ora opportuno percorrere la rampa elicoidale intermuraria, dalle dimensioni inusitate e propriamente monumentali attraverso l’unica apertura che oggi consente l’accesso al monumento…

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La fase nuragica misteriosa

Tra il nuraghe Ui e le tombe di giganti di Madau

La torre secondaria del nuraghe Ui

Sono giunte in redazione le fotografie di una strana stanza di nuraghe, mai studiato, ancora sorprendentemente integra sotto l’insensata ed estesa rovina cui fu ridotto il nuraghe Ui di Chiaramonti. Il nuraghe non è mai stato preso in seria considerazione per uno studio o uno scavo da parte degli enti preposti.
A ovest dei resti del monumento, anche qui ridotto a rovina, alcune case coloniche estranee al nuraghe presidiano un verde podere posto nella valle. Assai verosimilmente le case furono edificate a detrimento del vicino nuraghe Ui, la cui planimetria, pur rivelando un edificio complesso, rimane al momento incomprensibile anche per l’intrico della vegetazione e per il degrado ubiquitario. Al colmo del rilievo s’individua la stanza inferiore della torre centrale, beante perché svettata nel terzo superiore, e attorno si vedono indizi di altre torrette svettate, diversamente disposte: tre sono certe; resta il dubbio che le altre ipotizzabili possano essere capanne dell’Età del ferro.
Alcune strutture sono tangenti alla torre antica e di esse almeno due sono staccate dal complesso: son poste a ridosso dell’ampio cortile antistante, cioè a Sud, dove convergono tutti gli ingressi dei vari ambienti, le cui aperture sono ora affossate per l’interramento assai consistente. La rovina è talmente fitta che al primo sguardo, nessuno direbbe che sott o quel cumulo si trovi ancora un vano intero.

I contadini qui stanziati dovettero notare che sotto quei blocchi sconnessi era nascosta una qualche cavità. Si aprì un’apertura che permise di affacciarsi ai paramenti interni di una camera di aspetto singolare. L’idea fissa di un tesoro, dovette accendere la frenesia con l’effetto di fare rimuovere altri blocchi, fino a determinare una brutta e ampia breccia nella quale un uomo riesce a entrare. Dalla base del foro c’è una caduta di circa un metro e mezzo per posare i piedi sul suolo della camera, quindi entrare nella camera richiede una scala adeguata.
Da come appare oggi la stanza, ripiena di terra e residui organici, non si hanno dubbi sul fatto che nessun tesoro fu rinvenuto ma, in cambio di ciò i vicini contadini acquistarono una stia bell’e pronta. Quest’uso “moderno” e imprevisto del nuraghe ha consentito che alcuni appassionati cultori di archeologia preistorica isolana, capitati lì per caso, dessero notizia del vano in questione, che appare realizzato con tecniche costruttive difformi dalle quelle più ricorrenti e note. Una delle singolarità di questa torretta è la consistenza del muro basale, che si può vedere solo dall’interno per uno sviluppo verticale di due metri, emergente sul pavimento attuale: verosimilmente prosegue immutato fino alla base antica della camera. Esso è realizzato in pietre trachitiche, relativamente piccole, in confronto con i blocchi del resto delle strutture in rovina, ma in specie rispetto alla copertura ogivale, che si configura come una sorta di scudo litico concavo e molto ribassato, anziché ogivale “al modo nuragico”.
Il muro è fatto a piccole pietre, compattate da un aggregante tenacissimo, che pare posto non a consolidare, quanto a riempire le fessure fra i blocchi. Tale impasto terragno e argilloso, annerito da residui carboniosi, pare indurito fortemente per l’esposizione a una temperatura molto elevata, che determinato l’arrossamento antico delle pietre del muro. Una teoria di lastrine uniforma la parte alta del muro, livellandolo all’altezza di circa due metri dal suolo attuale. Questo espediente servì, verosimilmente, per preparare un piano di posa omogeneo, in funzione della realizzazione della “nuova” copertura, che è certamente diversa da quella delle origini. Questa preparazione è necessariamente successiva a una demolizione, le cui cause naturalmente sfuggono. La volta aggiunta è del tutto singolare, sia per la dimensione dei blocchi utilizzati, che sono di dura trachite rossa prossima al basalto, sia per le dimensioni dei conci di forma irregolarmente conica, dalle dimensioni ben maggiori rispetto ai blocchetti utilizzati nell’anello basale, sia per il profilo della nuova copertura, fortemente ribassata e dunque dal fortissimo aggetto e direi proprio insolita negli edifici nuragici.

Le t.d.g. nn. 2 e 3 della necropoli di Madau – Fonni

Ancorché superstiti dalle demenziali a dir poco, integrazioni al cemento, hanno tratti in cui si osservano delle sovrapposizioni costruttive rapportabili a quelle del nuraghe Ui di Chiaramonti. Prendiamo la tomba 3 quale esempio meglio calzante con la torretta del nuraghe Ui. Nella sua camera, alla base è venuto in luce l’esito di una precedente tdg edificata con piccole lastre, che fu abbandonata in una fase a noi sconosciuta e, quindi, smantellata per ricostruirla con una tecnica completamente diversa.
La tecnica sovrapposta mostra grandi placche granitiche interne ed esterne alla camera, nell’esedra e nel corpo. Le grosse lastre hanno la “faccia ben bocciardata, ma anche anche le superfici di posa e affianca mento accuratamente preparate. Esse realizzano una tomba di giganti ben più monumentale rispetto alle precedenti, e l’imparentamento con le fasi costrutti ve della confinante tomba 2 è evidente. Entrambe le tombe appartengono a una fase molto evoluta fra le t.d.g. nuragiche e paiono precedere di qualche secolo la tecnica ben più raffi nata che osserviamo nelle successive, splendide tombe di Biristeddi, la cui raffinata esecuzione è esaltata dall’uso del basalto…

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Raichinas

In una bella sera d’agosto la dottoressa Maria Pala,Senior lecturer (Docente) presso l’Università di Huddersfield, ha tenuto un’interessante conferenza nel suggestivo scenario del sito archeologico Su Romanzesu, presso Bitti. Ha spiegato brevemente come si compone il DNA, che cosa siano i Geni, il Genoma, i due tipi di DNA (nucleare e mitocondriale). Quindi ha passato in rassegna gli studi di popolazione meno recenti, fino a scendere nel dettaglio di quelli più aggiornati e volti alla ricerca delle radici genetiche della popolazione sarda.
La giovane ricercatrice espone sostanzialmente due studi di genetica, di cui, come correttamente viene a precisare, non è autrice.
La sua trattazione è stata ordinata e rigorosamente scientifica, restando rispettosamente a portata di comprensibilità da parte di un pubblico numeroso e attento di non addetti ai lavori. Naturalmente, ha escluso dalla propria esposizione tutte le fantasticherie divenute tanto di moda sull’isola negli ultimi tempi.

Ha spiegato che cosa sia l’Archeogenetica, che consiste nell’applicazione della Genetica molecolare allo studio del passato delle generazioni umane. Analizza la variabilità genetica sia di popolazioni attuali, sia di popolazioni antiche. Ci si chiede: come può l’Archeogenetica, oggi, studiare il passato?
Ciò è possibile perché il nostro DNA attuale è una copia che deriva da quello dei nostri antenati del passato: letteralmente, ne contiene molti “pezzi” identici ed altri che si sono progressivamente e in varia misura modificati nel corso dei millenni (mutazioni). In un certo senso, si può dire che il DNA quasi possieda una propria “memoria”. Pertanto analizzando il Dna attuale si può ricostruire il passato e risalire fino all’origine delle specie (questo è vero in teoria; in pratica no, ma solo per l’irreperibilità del materiale, perché il Dna col tempo si deteriora). Analizzando il DNA antico si può quasi andare indietro nel tempo e avere una “visione” (genetica, s’intende) del passato: in questo modo si può talvolta aggiungere un tassello al quadro sempre incompleto della ricostruzione del passato che l’archeologia ci offre. Il sequenziamento del DNA iniziò negli anni ‘80, ma è solo dal 2000 che si è potuto tecnologica mente tentare e ottenere il completo sequenziamento di tutto il genoma (NGS: new generation sequencing).

L’archeologia fornisce il dato archeologico, cioè quali possano essere stati i cambiamenti di stile di vita (“cultura materiale”), eventuali espansioni di popolazioni, oppure il loro declino. Praticamente essa risponde – o tenta di rispondere – alle domande: cosa, dove, quando. L’Archeogenetica, invece, analizzando le composizioni dei DNA moderni e quelle del DNA antico disponibile riesce a risalire a epoche passate e a “vedere” persino movimenti migratori di popolazioni: in tal modo essa riesce a rispondere precisa mente alle domande: chi e da dove.
È poi comunemente noto che esistono due modelli teorici generali tra cui scegliere (con grande difficoltà per gli archeologi, come nel caso degli Etruschi) quando si debba descrivere nascita ed evoluzione delle civiltà del passato: essi sono quelli della diffusione culturale e demica. Il primo modello corrisponde alla trasmissione di un’idea (o di un metodo, o di una tecnica: per esempio, la coltura di un tipo di pianta non autoctona, originaria di un’altra regione geografica), senza una vera e propria migrazione di popolazione. L’unica cosa che viaggia in quel caso è l’idea: lo fa attraverso scambi verbali (e commerciali) tra individui, comunicazione interpersonale, emulazione e apprendimento.
Alla fine, lo stile di vita di una popolazione B si modifica e diviene simile a quello della popolazione A, dalla quale è originata l’idea in oggetto, ma con la tecnica Admixture, si osserva che la composizione genetica della popolazione (DNA moderno) B è rimasta invariata ed è ancora quella precedente allo scambio culturale (DNA antico). Secondo questo modello sembra possa aver viaggiato la realizzazione del “vaso campaniforme” (cultura del v. campaniforme), la cui distribuzione in Europa è tanto discontinua e irregolare da essere definita “a macchia di leopardo”.

Il secondo modello implica invece lo spostamento di un numero sensibile di individui, che portano con sé la propria tecnologia, la lingua, la filosofia: per esempio, come avvenne nella “conquista” del Nuovo Mondo da parte degli europei dopo il 1500. Nel secondo caso, si assiste – sì – alla modifica dello stile di vita, ma essa si accompagna anche a una modifica rilevabile del patrimonio genetico, che nel caso del Nord America è stata drammatica: il DNA antico dei nativi è oggi quasi scomparso, pressocché completamente sostituito da quello dei moderni coloni europei. In questo caso si parla di “replacement” (sostituzione), più che di “admixture” (mescolamento).
È evidente che una vera diffusione culturale possa essere sensibilmente più veloce di una diffusione demica, che dipende dalle possibilità di spostamento degli esseri umani. All’atto pratico, la diffusione culturale è considerata un evento più raro di quella demica. Ciò è forse anche dovuto al fatto che possa essere più difficile da dimostrare: ma è indiscusso che sia sempre stata molto meno ricercata. Forse è realmente meno frequente.
Dal 1994 si è scoperta l’unicità genetica dei Sardi, grazie ai primi studi di L. Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, che adottarono – non era ancora disponibile il DNA – 95 marcatori classici (tra cui, per esempio, i gruppi sanguigni del sistema AB0 e altri indicatori non genetici, ma determinati da geni) e si accorsero di non potere rappresentare la Sardegna nelle loro mappe grafiche di gradienti di frequenza dei marcatori: perché i dati della popolazione sarda erano terribilmente fuori scala. Comparvero in seguito altri risultati con differenze di distribuzione che indicavano in modo non definitivo le popolazioni di Corsica e Sardegna come possibili “isolatigenetici”, separati dalle altre popolazioni europee…

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Raichinas Leggi tutto »

Numero 65 – II Semestre 2024

Disponibile da Novembre 2024, il nuovo numero 65 di Sardegna Antica

In copertina la monumentale rampa intermuraria del Nuraghe Longu di Chiaramonti (dall’articolo di Paolo Lombardi e più).

Sommario

  • Raichinas – Maurizio Feo
  • Un Dio fra i fiori – Maura Andreoni
  • La sindrome Dunning Kruger – Maurizio Feo
  • Vulcanesimo a Baunei – Antonio Assorgia
  • Un bronzetto sardo (?) dalla Sicilia – Alessandro Atzeni
  • Una fase nuragica misteriosa – Giacobbe Manca
  • Il nuraghe Longu di Chiaramonti – Paolo Lombardi e Gigi Rocca
  • Ida Comaschi Caria, la grande paleontologa sarda – Giovanni Graziano Manca
  • Mistificazione Storica – Andrea Muzzeddu
  • Nobiltà spagnola, piemontese e i sardi – Giovanni Enna
  • La sarda rivoluzione incompiuta (1793-1802) – Peppino Pischedda


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Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu

Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?

Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.

Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.

E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…

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La scarnificazione rituale

Dopo il dolore e lo sgomento causato dalla morte di una persona cara alla comunità, restava l’ingombrante necessità di “disfarsi delle spoglie”.
Da sempre l’umanità ha concepito modi e riti per esorcizzare quell’incompreso momento di passaggio tra la vita e le conseguenze della morte – certo per effetto di una tremenda (ancorché ineludibile) magia negativa.
Infinite sono, infatti, le testimonianze che tramandano, con chiara e spesso drammatica crudezza, le diversissime attenzioni al mondo del soprannaturale e al divino. Non solo erano pratiche diffuse ma esse sicuramente permeavano anche tutti gli aspetti della spiritualità, per cui la vita e la morte erano parte del quotidiano.
Anche la nostra Isola, come si osserva nell’ampio mondo mediterraneo che l’attornia, è disseminata di testimonianze archeologiche che rimandano a quel comune mondo magico-rituale. Pensiamo, per esempio, a quelle lastre istoriate – stele, menhir – unitamente alle superfici naturali prossime ai luoghi di culto, che almeno dal neolitico trasmettono misteriosi e pertanto affascinanti petroglifi, coppelle, concavità dette “preghiere”, cerchi, bastoncelli, schematizzazioni di vulve ecc., portatori di messaggi religiosi, cultuali ed escatologici.

Queste testimonianze antichissime di una visione del mondo ultraterreno, sono presenti in moltissimi monumenti funerari a testimoniare che la morte era considerata un aspetto della vita e viceversa. Alcuni monumenti sepolcrali antichi come domos de janas e le successive tombe di giganti sono, per loro struttura, inadatti a ricevere salme se le stesse non abbiano prima subito un precedente trattamento, che ne asporti le carni e lasci la semplice struttura ossea.
Gli inconvenienti della decomposizione, tutt’altro che trascurabili se non fosse stata esorcizzata con precedenti pratiche, nei monumenti detti, ne rendevano impossibile il seppellimento diretto.
Era quindi logico pensare che le necessità pratiche, informate da contenuti religiosi, filosofici ed escatologici, esprimessero pratiche rituali tese alla scarnificazione dei corpi con diverse metodiche: dall’esposizione agli agenti atmosferici o all’auspicato intervento di animali necrofagi che provvedessero a ripulire le ossa. Ciò avrebbe consentito l’utilizzo delle strutture preposte, appunto, alla cosiddetta deposizione secondaria, che si sostanziava in una raccolta delle sole ossa, dalle quali si possono talvolta ricevere importanti informazioni antropologiche.
Per esempio si può addurre l’esito dello scavo archeologico effettuato dalla dottoressa A. Foschi Nieddu, che nel 1974 ricevette l’incarico di studiare i reperti provenienti dalla tomba I di Filigosa presso Macomer. Oltre numerosi reperti fittili attribuiti alla cultura eneolitica proprio in questa tomba individuata e denominata Filigosa, dallo scavo provenivano, appunto, una gran quantità di ossa umane, che erano state esaminate dall’anatomo-patologo Franco Germanà.

Egli, da un’analisi preliminare osservava che una parte di queste ossa era combusta sino al midollo, mentre in altre aveva notato tracce di scarnificazione, segnalate dalle profonde scalfitture restate sulla loro superficie. Alla luce di tale autorevole parere, si potrebbero azzardare diverse conclusioni.
In primo luogo, si può osservare che i metodi di scarnificazione utilizzati erano almeno due: il fuoco e l’esposizione dei cadaveri all’azione di uccelli e animali necrofagi. Infatti, le profonde scalfitture osservate escludono l’intervento umano, secondo l’esperto parere di F. Germanà.
Lo stesso monumento suggerisce rispetto e attenzione a questi riti. Infatti nella cella A sono presenti un letto funebre e il focolare. Se ne può quindi dedurre che un’eventuale operazione di scarnificazione non sarebbe mai stata affidata a mani così maldestre da produrre le “scalfitture” improprie.
Il territorio dove è ubicata la tomba si presta facilmente ad attuare dei trattamenti sui cadaveri per opera di grifoni, corvi, falchi e altri animali necrofagi. Ci troviamo infatti ai piedi delle ultime propaggini della catena del Marghine dove le numerose balze basaltiche costituiscono l’habitat naturale di diverse specie di uccelli rapaci. Una roccia che sovrasta l’abitato di Birori è detta “Sa Rocca de Niu Corbu”: la roccia del nido del corvo.

A questo proposito è utile citare il particolare sito di Carraxioni, sulla montagna di Aritzo dove, davanti alla tomba di giganti omonima, a una sufficiente distanza è stata collocata ad arte una grande lastra, su un affioramento roccioso, che segna il crinale del luogo. Un distinto gradone mette ancor più in rilievo la lastra e va chiaramente incontro all’esigenza di favorire il decollo dei grandi rapaci, anche se appesantiti.

La ricerca di queste rare ma importantissime emergenze, ha dato risultati molto interessanti: alcuni di questi siti sono stati segnati in modo chiaro e indelebile da coppelle, coppelline, cerchi concentrici, e motivi angolari diversi, come chevron contrapposti a formare dei rombi: simboli analoghi in numerosi altri contesti non necessariamente legati ad ambienti funerari. Non deve stupire che i petroglifi, nella loro grande varietà, fossero considerati simboli di fertilità e rigenerazione e quindi logicamente presenti anche in momenti di vita: di fatto dimostrano che la morte fosse uno degli aspetti inscindibili dalla vita.
Uno di questi luoghi, che riassume forse tutte le caratteristiche opportune per la scarnificazione dei cadaveri, si trova all’interno di un’emergenza rocciosa in località Lottoniddo (Dorgali), nella vallata di Isalle: nella roccia è stata realizzata una cavità – forse sfruttando precedenti vuoti naturali – cavata e acconciata al modo di una camera di domo de janas, accomodata nelle pareti laterali alla maniera delle grotticelle artificiali neolitiche. Il pavimento granitico superstite è ricoperto dai citati segni cultuali.

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Tre Edifici nel Campidano

Su Nuraxi di Samatzai

In una foto dal drone che ne reclamizzò l’esistenza, il Su Nuraxi di Samatzai appariva come un edificio esteso e molto articolato composto dalla torretta centrale e da una coorte poco chiara di passaggi e torrette, alcune distinte e altre confuse tra le rovine ubiquitarie: dunque non esattamente enumerabili nella disposizione attorno alla prima.
Le linee vaghe lasciavano dubbi che potesse trattarsi di un pentalobo o, addirittura, un esalobo.
Urgeva una visita al sito. All’osservazione sul luogo, si distinguono bene le basi di quattro torrette poste a rombo attorno alla più antica, il cui ingresso si affaccia a Sud su un piccolo cortile interno, ora assai interrato per almeno m 1,50, i cui muri e le torri affiancate sono uniformemente smantellate all’altezza detta: in altre parole fin quasi ai filari di base.
Nulla si può dire su come fossero disposte le vie di transitabilità interna, che di norma convergono in ampia parte al cortile posto davanti all’accesso della torre centrale…

Su Sonadori di Villasor: un “simil-esalobo”

Dagli anni ’70, cioè “un pugno” di lustri dallo scavo di Su Nuraxi di Barumini, si vagheggiava nei corridoi dell’esistenza di un segretissimo esalobo.
In concreto però non è mai stato pubblicato da nessuno un nuraghe così edificato. Pentalobi, invece, se ne conoscono tre: oltre all’Arrubiu, Pitzu Cummu di Lunamatrona e Cobulas di Milis.
Qualche tempo fa, in Internet qualcuno cominciò a diffondere immagini di alcuni edifici assai complessi e persino fascinosi, specie se le foto erano prese dall’insolito punto di vista zenitale. I colori pastello sono galeotti… e con l’elettronica chissà quanto ancora si potranno imbellettare… i nuraghe, ma talvolta gli edifici sono difficilmente interpretabili nella reale complessità architettonica. Sono immagini da cui non si estrapolano contenuti scientifici.
Il reclamizzato “complesso” Su Sonadori di Villasor, per esempio, in bella evidenza e poca vegetazione, appare appunto come un esalobo fin troppo simmetrico: sei edifici circolari appaiono disposti, con regolarità ipnotica, attorno a una torretta piccola e semplice.
Diviene imperativo andare a vedere e analizzare questa rarità ben composta, semplicemente per “toccare con mano” ogni cosa, con i piedi per terra: vederne le tecniche costruttive e le concrete dimensioni…

Nuraghe Ui, Casteddu de Fanari e una “fase” misteriosa

E’ necessario partire da alcune delle tombe di giganti che mostrano particolari costruttivi che rimandano a strutture proprie di altrettanti nuraghe.
Raramente si trovano analoghe tecniche costruttive nelle tombe di giganti e nei nuraghe, ma talvolta capita. La distinzione fra le tecniche applicate nei suddetti monumenti non è netta.
Osserviamo ora una realtà stratigrafica esistente in entrambe le tombe n. 2 e 3 di Gremanu/Madau (Fonni). Per brevità osserviamo la parte basale di camera nella tomba 3, che è fatta di piccoli conci o lastrine. La parte sovrastante è resa con tecniche e materiali completamente diversi, così che a prima vista domina estesamente la fase meno antica, nella quale si evidenzia un muro realizzato con grandi lastre poste ortostate o di coltello, anche spesse. Specialmente le pareti esterne si configurano come un placcaggio raffinato, disposto sia attorno alla camera, sia davanti e dietro all’esedra.
L’evidente diversità delle parti basali nella tomba 3 e di tutto l’interno della tomba 2, costituite da lastrine e piccoli conci dalla sagoma inconfondibile, garantisce la specificità sia dell’una, sia dell’altra tomba.

Questa sovrapposizione tecnico-costruttiva, che rimanda alla medesima cronologia relativa, si ritrova singolarmente nel nuraghe Ui di Chiaramonti.
L’edificio è ampiamente smantellato e spogliato da non poterne ricavare la planimetria, né la consistenza del complesso. Solo infilando la testa in un’apertura ampia quanto le spalle, creatasi nel lato SSE, per l’asportazione di grossi blocchi basaltici che paiono comporre il tutto, s’intravede una camera ampia, composta da un alto anello basale organico di circa due metri, edificato con piccoli conci o lastrine di una pietra chiara che, vista a distanza pare essere una sorta di calcarenite. Sull’anello basale il muro s’innalza con conci di basalto, di buona dimensione e ben composti. In sostanza, in questo nuraghe si osserva la stessa successione stratigrafica muraria che si può osservare nelle citate t.d.g. di Fonni; l’identità stratigrafica in particolare è con la tomba n. 3, la cui camera antica a piccole lastre calcaree appare regolare come nel nuraghe Ui.

Un ulteriore, inaspettato esempio di parallelismo tecnico col nuraghe Ui di Chiaramonti e quindi con le due tombe di giganti di Madau, si trova in un’ampia camera del nuraghe complesso esistente all’interno del recinto turrito detto Su Casteddu de Fanari – a confine dei territori comunali di Decimoputzu e Vallermosa, posto a coronare una collina miocenica mammellonare ai cui piedi passava un’antica via dei metalli, tra l’Iglesiente e la città di Cagliari…

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Tre Edifici nel Campidano Leggi tutto »

Numero 64 – I Semestre 2024

Disponibile da Maggio 2024, il nuovo numero 64 di Sardegna Antica

In copertina Su Nuraxi di Samatzai, accompagnato nel retro dal misterioso Casteddu de Fanaris e dal curioso Su Sonadori di Villasor. Questi tre edifici preistorici campidanesi saranno analizzati in questo nuovo fascicolo da Giacobbe Manca.
Maurizio Feo ci parla della triste vicenda successiva alla scoperta del tempio ipogeo di Su Benatzu, un peccato capitale.
Maura Andreoni stavolta analizzerà la storia e il posto nei miti antichi di un’animale icona della nostra isola: la pecora.
Il professor Antonio Assorgia ci racconterà della presenza di Domenico Lovisato all’Esposizione Universale di Parigi 1889, mentre Roberto Manconi ci propone un’interessante teoria sulla scarnificazione rituale nella preistoria della Sardegna.
Il nostro Sandro Garau, studioso di architettura preistorica, ci farà conoscere inediti dettagli che sfuggono agli occhi meno esperti.
Giovanni Graziano Manca continua l’opera di studio della sua città, parlandoci di Egidio Bellorini e della sua raccolta dei canti popolari amorosi di Nuoro.
Chiudono questo numero gli articoli del ritrovato Andrea Muzzeddu, di Giovanni Enna sulla riforma agraria del risorgimento in Sardegna, e di Peppino Pischedda sul grande Emilio Lussu.

Sommario

  • Peccato Capitale. Il tempio ipogeo di Su Benatzu – Maurizio Feo
  • Gli Ovini, tra Natura, Storia e Mito – Maura Andreoni
  • Architettura a secco. Letture e Riflessioni – Maurizio Feo
  • Domenico Lovisato all’Esposizione Universale di Parigi 1889 – Antonio Assorgia
  • La scarnificazione rituale – Roberto Manconi
  • Tre edifici nel Campidano – Giacobbe Manca
  • Dettagli trascurati nell’Architettura preistorica – Sandro Garau
  • Egidio Bellorini, i Canti popolari amorosi di Nuoro – Giovanni Graziano Manca
  • Mistificazione e Storia – Andrea Muzzeddu
  • Risorgimento e riforma agraria – Giovanni Enna
  • Emilio Lussu, patriota e sardista – Peppino Pischedda


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Le epigrafi di San Pietro di Sorres e San Pietro di Oschiri

San Pietro di Sorres – 1221 L’epigrafe commemorativa

La cronologia dell’antica cattedrale di San Pietro di Sorres in agro di Borutta, tra le più eleganti e raffinate basiliche medievali della Sardegna, è stata oggetto di studio e terreno di confronto di numerosi studiosi sin dai primi del Novecento.
«Un impenetrabile silenzio avvolge l’origine e le vicende della Chiesa di S. Pietro di Sorres; non si conosce né il nome dell’architetto, né l’epoca in cui venne costrutta». Esordisce così, nel 1907, il regio soprintendente Dionigi Scano, che ipotizza che l’abbaziale benedettina sia stata costruita in un’unica soluzione, nel corso del xii secolo. Raffaello Delogu, sulla base dell’analisi formale delle strutture, individua due distinte fasi costruttive riferibili alla seconda metà dell’xi secolo, e una terza alla fine del xii. Dell’impianto più antico, resterebbe un tratto inglobato nel paramento meridionale; di un secondo, di qualche tempo più recente, distinto da fori pontai rettangolari disposti verticalmente, resterebbero tracce in tutte le quattro facce della chiesa, per una altezza di tre-quattro metri.

Ragionevolmente il Delogu confonde la chiesa di Sorres con il S. Antioco di Bisarcio, che ha i fori pontai quadrati solo nella parte superiore. In realtà, nei due fianchi del S. Pietro, sotto i fori pontai rettangolari si osservano gli stessi fori quadrati delle parti alte della chiesa, per cui è irricevibile l’ipotesi di una seconda fase alla fine del xi secolo. Lo studioso assume quindi una lunga sospensione dei lavori, il cui riavvio sarebbe conseguente le chiese pistoiesi sorte tra il 1160 e il 1170 e le chiese pisane erette entro l’ultimo decennio del secolo xii. Su questa base si dovrebbe ammettere che «i lavori, iniziati tra il 1170 ed il 1180, si concludessero prima dello spirare del secolo».

Un più attento esame permette – in questa sede – l’integrazione e la rilettura dell’epigrafe, scolpita su due righe in un volgare locale, in caratteri capitali, onciali e cifre arabiche. Ha uno specchio epigrafico di cm 56 x cm 18 e una altezza di caratteri compresa tra cm 3 e cm 7. Dopo una croce patente, con funzione dedicatoria e il nome del responsabile della fabbrica di Sorres «+ mariane maistro», insieme a poche altre lettere di complemento, l’iscrizione fissa – nel «1221» – l’anno di ultimazione dei lavori e di consacrazione dell’altare.
Al nuovo dato consegue un aggiornamento della cronologia della costruzione, che deve essere posticipata di circa un quarto di secolo, quando la chiesa fu completata o forse ricostruita tra la fine del xii secolo e il 1221, direttamente sul paramento di base di metà della seconda metà dell’xi secolo. Raffaello Delogu nel 1953 scriveva che «le sole maestranze capaci di realizzare simili volte [cupoliformi del S. Pietro di Sorres] sembrerebbero, nella Sardegna settentrionale del xii secolo, quelle francesi e, per la vicinanza geografica e d’ambito politico culturale, le stesse che voltavano la “galilea” del S. Antioco di Bisarcio».

San Pietro di Oschiri-1609 L’epigrafe della dedicazione

Alla periferia occidentale dell’abitato di Oschiri sorge, su un modesto poggio, una piccola chiesa seicentesca, eretta forse su un tempio bizantino già consacrato a San Pietro, da cui proverrebbe un reliquiario litico bivalve, oggi disperso, ma di cui resta una rara immagine e qualche nota bibliografica. Nell’architrave basaltica del portale di ingresso della chiesetta è scolpita, a basso rilievo, una inedita epigrafe in lingua latina e greca, in prevalente scrittura capitale epigrafica, insieme a cifre arabiche, a un numero romano e al disegno di una piccola colomba in volo. Ha uno specchio epigrafico di circa 160 x 30 cm e un’altezza dei caratteri compresa tra 7 e 15 cm circa. Non è di facile interpretazione per un buon numero di abbreviature per troncamento e maggiormente per l’anarchia dell’ortografia, sacrificata da un estroso lapicida per un bizzarro gusto estetico, teso alla rappresentazione di una struttura piramidale che converge verso una
croce mediana, forse evocativa del monte Calvario, per certo di una tensione verso l’alto, quindi di una ricerca delle realtà celesti e soprannaturali.

Al centro dell’epigrafe, entro un quadrato bordato di un listello, è il cosiddetto “Trigramma di San Bernardino” – “jhs” – una sorta di logo cristiano che, per alcuni autori, sarebbe abbreviatura per contrazione del greco per “jh[σου]ς” (“Jesûs” = Gesù), con una croce potenziata costruita sull’asta orizzontale della “h”, secondo uno schema introdotto dal Frate di Siena nel secondo decennio del xv secolo. Alla sinistra del quadrato, nella riga in basso, la cronologia della consacrazione della chiesa è introdotta da una “A” maiuscola, di un corpo ben superiore a tutte le altre lettere dell’epigrafe, e da una “d” minuscola, nell’insieme canonica abbreviatura di “a(nno) d(omini)”, accompagnate dalle cifre arabiche “16” (il giorno) e dal numero romano “x” (il mese). In simmetria, alla destra del quadrato, nella riga in basso, è il numero dell’anno – il “1609” – seguito da una croce greca potenziata, in luogo della croce patente, di norma riscontrata nelle epigrafi di consacrazione di un tempio. Così intesa, la cronologia – “ad 16 x † ihs 1609” – celebra, insieme al Gesù nel cui sacro nome è fatta la dedicazione, quel venerdì 16 ottobre del 1609 della intitolazione della chiesa…

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Is Montalgios

Tra le pratiche che hanno contribuito a qualificare l’identità comunitaria dei suoi abitanti come montalgios (montanari) e biaxiantes (cavallanti o viandanti girovaghi), vi è senz’altro l’attività d’incetta e commercio della neve.

L’etnonimo aritzesos ha identificato fino alla metà del Novecento, in gran parte dell’Isola, i venditori girovaghi di castagne e nocciole ma soprattutto di neve e carapigna. In Sardegna lo sfruttamento commerciale della neve è nato ad Aritzo nel 1636, a prestar fede a un documento di molto posteriore datato 1696 conservato presso l’Archivio di Stato di Cagliari, che riportata in veste parziale “dal regesto del Pinna”. L’attività ebbe inizio quando gli imprenditori aritzesi Gerolamo Pirella, Antonio Cuy Lay e Giovanni Bachisio Fadda scavarono a proprie spese alcuni pozzi nelle montagne di Aritzo per conservarvi la neve. Chiesero quindi al Re Filippo IV, nel 1636, di stabilire l’arbitrio o privativa per la provvista della città di Cagliari, e ne ottennero essi stessi la concessione regia, versando alla cassa regia la somma di 35.000 reali. In seguito la presa e la conservazione della neve si faceva anche sulle montagne di “Parte Olla” e in quelle di “Fontana Cungiada”, aumentando anche il numero dei pozzi sul Gennargentu, tanto che nel 1704 si rinnovarono i sette già esistenti e se ne costruirono altri tre.

Dice Giuseppe Luigi Devilla, La Barbagia e i Barbaricini, 1889: “Questo lavoro dava pane a molte famiglie e fruttava molti denari agli industriali”.
Una copiosa documentazione rivela che i profitti erano cospicui, al punto che i titolari della gabella spesso potevano permettersi di risiedere a Cagliari, preoccupandosi unicamente di affidare a sovrintendenti o a soci in affari l’esecuzione dei lavori ad Aritzo dove si recavano solo per i sopraluoghi. Ancora il Devilla osserva come il commercio della neve fosse: “… scaduto dell’importanza che aveva prima per il grandissimo uso del ghiaccio venduto a prezzo di nulla”. L’apertura poi di una fabbrica del ghiaccio a Cagliari nel 1903 accelerò ulteriormente la decadenza dell’attività, tanto che nel 1921, in una delibera di Consiglio, si afferma che: “Un tempo era in fiore l’industria della neve che si raccoglieva d’inverno e si smerciava d’estate, trasportandola a dorso di cavallo in tutti i paesi di pianura per preparare i sorbetti refrigeranti nelle feste popolari”.

A sentire M. Roberti, La privativa della neve in Sardegna, 1910, l’areale del commercio della neve era molto ampio, estendendosi quasi all’intera Isola: “La neve veniva trasportata con carri e sopra cavalli, sia a Cagliari sia nelle altre città: a Sassari, a Nuoro, a Oristano, ad Alghero, a Laconi, e anche in molti centri minori: Noragugume, Ploaghe, Codrongianus, specialmente dove erano ville signorili.” Alcuni di queste distanze erano molto lunghe e potevano essere percorse in diversi giorni di marcia, intervallati da brevi soste ai postolgios, poste fisse lungo l’itinerario ove alle carovane, soprattutto ai cavalli, era possibile dare ristoro. Quel che si può documentare con certezza è che a Cagliari, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, nei mesi di luglio e agosto, le carovane erano composte anche di dieci cavalli. I primi cavallanti giungevano ogni giorno intorno alle cinque o le sei del mattino, dopo un percorso di circa centoventi chilometri. Se ne può dunque arguire che il viaggio aveva avuto inizio la mattina del giorno precedente.

I viaggi più lunghi erano però quelli diretti verso Alghero, Sassari e i centri del Logudoro, che duravano anche cinque o sei giorni. In molti di questi centri, come avveniva a Cagliari con le Fondas della neve erano presenti dei veri e propri depositi sotterranei, sas nieras regolarmente alimentati fino ai primi decenni del Novecento In essi, come nelle neviere madri, il ghiaccio era conservato per strati tenuti separati dalla paglia. A Ploaghe, questo deposito, ancora esistente, è costruito attorno a una cavità rocciosa e coperto con una cupola di pietra e calce: è noto come Sa Niera o Maria Marronca.

Untulgeras

Erano costruzioni – trappola edificate in pietra di scisto ed elevate con muratura a secco, databili – le prime – tra il XVI e il XVII secolo, quando giunse ad Aritzo un gruppo di monaci, molto probabilmente appartenenti all’ordine dei Gesuiti: in un documento datato 1578 si menziona, infatti, un Gesuita Aritzese, certo Francisco Noco. Nelle untulgeras si deponevano carogne di animali o capi di bestiame falcidiato dalle morie dovute a malattie epidemiche o per altri motivi, per attirarvi gli avvoltoi. In esse mancavano ampi spazi di manovra e i grifoni ormai sazi e appesantiti non riuscivano più a spiccare il volo, né potevano mettersi in salvo dagli uomini, che li abbattevano facilmente a colpi di bastone.

Dal Cinquecento fino agli inizi dell’Ottocento le penne dei volatili di taglia medio-grande erano utilizzate per la scrittura. Erano utilizzate solamente le penne delle ali, con una determinata curvatura, che consentisse una buona impugnatura. Staccata dal povero rapace, la penna era quindi temperata col calore, tagliata di sbieco, appuntita e fessurata in punta per distribuire l’inchiostro. La descritta “pratica venatoria” impietosa verso animali indifesi, si fondava su una consolidata etnoornitologia accompagnata, manco a dirlo, da convinzioni magico religiose. L’analisi della classificazione dei rapaci, nella forma in cui è stata concepita dai nativi, consente di cogliere come dalla comunità veniva categorizzato quel particolare settore del mondo ornitologico. I rapaci sono definiti is (il) aes e di essi si tramanda una conoscenza puntuale. Erano tutti cacciati per sfruttarne le penne: sugli avvoltoi è stata esercitata una caccia sistematica su vasta scala e con metodi “industriali”.
Allora l’impresa era facilitata in quanto allora gli avvoltoi erano numerosi e di semplice cattura senza armi da fuoco. La loro mattanza si basava su un sistema coerente di saperi e credenze messi in atto da addetti “specializzati”.

Il sistema museale di Aritzo

L’Ecomuseo della Montagna Sarda o del Gennargentu è un sistema museale distribuito sul territorio comunale di Aritzo e articolato in più aree espositive che raccontano la cultura delle comunità del centro Sardegna attraverso la riproposizione degli spazi domestici, degli antichi mestieri, del vestiario tradizionale e di quello del camuffamento legato al Carnevale, per arrivare a illustrare i rituali religiosi e le pratiche magico-stregoniche.
Il percorso museale, nato nel 1980 per iniziativa di un’associazione di volontariato che ha organizzato la raccolta degli oltre quattromila reperti donati dalla cittadinanza, rappresenta una componente inscindibile del patrimonio identitario e ambientale del paese.

Il Museo prigione regia in epoca spagnola, nella seconda metà del 1800 fino al 1936, è diventata carcere mandamentale per i detenuti del circondario in attesa di giudizio. Ubicata nel centro storico, in una cornice di dimore tradizionali di montagna, l’edificio ospita la mostra permanente su Magia e Stregoneria in Sardegna tra il XV e il XVII secolo.

Al centro del paese: Casa Devilla, dimora padronale di una famiglia borghese legata all’antica industria della neve, accoglie oggi una collezione di oggetti di artigianato locale tra cui spicca la cassa nuziale intagliata, manufatto ligneo tradizionale aritzese; il corpo più antico dell’abitazione conserva il nucleo architettonico d’impianto spagnolo.

In Pratza ‘e Iscola, presso la vecchia sede del palazzo comunale, si trova il Museo d’arte dedicato al pittore, ritrattista e incisore Antonio Mura, nato ad Aritzo (Nuoro) nel 1902 e morto a Firenze nel 1972. Artista completo, sia per preparazione professionale sia per adeguata cultura, si distinse nell’esecuzione di opere sacre, seguendo la sua ispirazione profondamente religiosa.

Infine, all’interno del Parco Comunale Pastissu, il Museo Etnografico.
Un percorso espositivo di 8 sale tematiche, in cui sono presenti i reperti relativi alla cultura materiale di una comunità del centro Sardegna. Il Museo illustra il sistema di sussistenza agro-silvo-pastorale, con riferimento ai processi di acquisizione, trasformazione, distribuzione e consumo nel tempo e nello spazio delle risorse alimentari, delle lavorazioni artigiane, del commercio itinerante dei frutti del bosco,, della musica e del settore del vestiario tradizionale.

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