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Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu

Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?

Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.

Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.

E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…

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La scarnificazione rituale

Dopo il dolore e lo sgomento causato dalla morte di una persona cara alla comunità, restava l’ingombrante necessità di “disfarsi delle spoglie”.
Da sempre l’umanità ha concepito modi e riti per esorcizzare quell’incompreso momento di passaggio tra la vita e le conseguenze della morte – certo per effetto di una tremenda (ancorché ineludibile) magia negativa.
Infinite sono, infatti, le testimonianze che tramandano, con chiara e spesso drammatica crudezza, le diversissime attenzioni al mondo del soprannaturale e al divino. Non solo erano pratiche diffuse ma esse sicuramente permeavano anche tutti gli aspetti della spiritualità, per cui la vita e la morte erano parte del quotidiano.
Anche la nostra Isola, come si osserva nell’ampio mondo mediterraneo che l’attornia, è disseminata di testimonianze archeologiche che rimandano a quel comune mondo magico-rituale. Pensiamo, per esempio, a quelle lastre istoriate – stele, menhir – unitamente alle superfici naturali prossime ai luoghi di culto, che almeno dal neolitico trasmettono misteriosi e pertanto affascinanti petroglifi, coppelle, concavità dette “preghiere”, cerchi, bastoncelli, schematizzazioni di vulve ecc., portatori di messaggi religiosi, cultuali ed escatologici.

Queste testimonianze antichissime di una visione del mondo ultraterreno, sono presenti in moltissimi monumenti funerari a testimoniare che la morte era considerata un aspetto della vita e viceversa. Alcuni monumenti sepolcrali antichi come domos de janas e le successive tombe di giganti sono, per loro struttura, inadatti a ricevere salme se le stesse non abbiano prima subito un precedente trattamento, che ne asporti le carni e lasci la semplice struttura ossea.
Gli inconvenienti della decomposizione, tutt’altro che trascurabili se non fosse stata esorcizzata con precedenti pratiche, nei monumenti detti, ne rendevano impossibile il seppellimento diretto.
Era quindi logico pensare che le necessità pratiche, informate da contenuti religiosi, filosofici ed escatologici, esprimessero pratiche rituali tese alla scarnificazione dei corpi con diverse metodiche: dall’esposizione agli agenti atmosferici o all’auspicato intervento di animali necrofagi che provvedessero a ripulire le ossa. Ciò avrebbe consentito l’utilizzo delle strutture preposte, appunto, alla cosiddetta deposizione secondaria, che si sostanziava in una raccolta delle sole ossa, dalle quali si possono talvolta ricevere importanti informazioni antropologiche.
Per esempio si può addurre l’esito dello scavo archeologico effettuato dalla dottoressa A. Foschi Nieddu, che nel 1974 ricevette l’incarico di studiare i reperti provenienti dalla tomba I di Filigosa presso Macomer. Oltre numerosi reperti fittili attribuiti alla cultura eneolitica proprio in questa tomba individuata e denominata Filigosa, dallo scavo provenivano, appunto, una gran quantità di ossa umane, che erano state esaminate dall’anatomo-patologo Franco Germanà.

Egli, da un’analisi preliminare osservava che una parte di queste ossa era combusta sino al midollo, mentre in altre aveva notato tracce di scarnificazione, segnalate dalle profonde scalfitture restate sulla loro superficie. Alla luce di tale autorevole parere, si potrebbero azzardare diverse conclusioni.
In primo luogo, si può osservare che i metodi di scarnificazione utilizzati erano almeno due: il fuoco e l’esposizione dei cadaveri all’azione di uccelli e animali necrofagi. Infatti, le profonde scalfitture osservate escludono l’intervento umano, secondo l’esperto parere di F. Germanà.
Lo stesso monumento suggerisce rispetto e attenzione a questi riti. Infatti nella cella A sono presenti un letto funebre e il focolare. Se ne può quindi dedurre che un’eventuale operazione di scarnificazione non sarebbe mai stata affidata a mani così maldestre da produrre le “scalfitture” improprie.
Il territorio dove è ubicata la tomba si presta facilmente ad attuare dei trattamenti sui cadaveri per opera di grifoni, corvi, falchi e altri animali necrofagi. Ci troviamo infatti ai piedi delle ultime propaggini della catena del Marghine dove le numerose balze basaltiche costituiscono l’habitat naturale di diverse specie di uccelli rapaci. Una roccia che sovrasta l’abitato di Birori è detta “Sa Rocca de Niu Corbu”: la roccia del nido del corvo.

A questo proposito è utile citare il particolare sito di Carraxioni, sulla montagna di Aritzo dove, davanti alla tomba di giganti omonima, a una sufficiente distanza è stata collocata ad arte una grande lastra, su un affioramento roccioso, che segna il crinale del luogo. Un distinto gradone mette ancor più in rilievo la lastra e va chiaramente incontro all’esigenza di favorire il decollo dei grandi rapaci, anche se appesantiti.

La ricerca di queste rare ma importantissime emergenze, ha dato risultati molto interessanti: alcuni di questi siti sono stati segnati in modo chiaro e indelebile da coppelle, coppelline, cerchi concentrici, e motivi angolari diversi, come chevron contrapposti a formare dei rombi: simboli analoghi in numerosi altri contesti non necessariamente legati ad ambienti funerari. Non deve stupire che i petroglifi, nella loro grande varietà, fossero considerati simboli di fertilità e rigenerazione e quindi logicamente presenti anche in momenti di vita: di fatto dimostrano che la morte fosse uno degli aspetti inscindibili dalla vita.
Uno di questi luoghi, che riassume forse tutte le caratteristiche opportune per la scarnificazione dei cadaveri, si trova all’interno di un’emergenza rocciosa in località Lottoniddo (Dorgali), nella vallata di Isalle: nella roccia è stata realizzata una cavità – forse sfruttando precedenti vuoti naturali – cavata e acconciata al modo di una camera di domo de janas, accomodata nelle pareti laterali alla maniera delle grotticelle artificiali neolitiche. Il pavimento granitico superstite è ricoperto dai citati segni cultuali.

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Tre Edifici nel Campidano

Su Nuraxi di Samatzai

In una foto dal drone che ne reclamizzò l’esistenza, il Su Nuraxi di Samatzai appariva come un edificio esteso e molto articolato composto dalla torretta centrale e da una coorte poco chiara di passaggi e torrette, alcune distinte e altre confuse tra le rovine ubiquitarie: dunque non esattamente enumerabili nella disposizione attorno alla prima.
Le linee vaghe lasciavano dubbi che potesse trattarsi di un pentalobo o, addirittura, un esalobo.
Urgeva una visita al sito. All’osservazione sul luogo, si distinguono bene le basi di quattro torrette poste a rombo attorno alla più antica, il cui ingresso si affaccia a Sud su un piccolo cortile interno, ora assai interrato per almeno m 1,50, i cui muri e le torri affiancate sono uniformemente smantellate all’altezza detta: in altre parole fin quasi ai filari di base.
Nulla si può dire su come fossero disposte le vie di transitabilità interna, che di norma convergono in ampia parte al cortile posto davanti all’accesso della torre centrale…

Su Sonadori di Villasor: un “simil-esalobo”

Dagli anni ’70, cioè “un pugno” di lustri dallo scavo di Su Nuraxi di Barumini, si vagheggiava nei corridoi dell’esistenza di un segretissimo esalobo.
In concreto però non è mai stato pubblicato da nessuno un nuraghe così edificato. Pentalobi, invece, se ne conoscono tre: oltre all’Arrubiu, Pitzu Cummu di Lunamatrona e Cobulas di Milis.
Qualche tempo fa, in Internet qualcuno cominciò a diffondere immagini di alcuni edifici assai complessi e persino fascinosi, specie se le foto erano prese dall’insolito punto di vista zenitale. I colori pastello sono galeotti… e con l’elettronica chissà quanto ancora si potranno imbellettare… i nuraghe, ma talvolta gli edifici sono difficilmente interpretabili nella reale complessità architettonica. Sono immagini da cui non si estrapolano contenuti scientifici.
Il reclamizzato “complesso” Su Sonadori di Villasor, per esempio, in bella evidenza e poca vegetazione, appare appunto come un esalobo fin troppo simmetrico: sei edifici circolari appaiono disposti, con regolarità ipnotica, attorno a una torretta piccola e semplice.
Diviene imperativo andare a vedere e analizzare questa rarità ben composta, semplicemente per “toccare con mano” ogni cosa, con i piedi per terra: vederne le tecniche costruttive e le concrete dimensioni…

Nuraghe Ui, Casteddu de Fanari e una “fase” misteriosa

E’ necessario partire da alcune delle tombe di giganti che mostrano particolari costruttivi che rimandano a strutture proprie di altrettanti nuraghe.
Raramente si trovano analoghe tecniche costruttive nelle tombe di giganti e nei nuraghe, ma talvolta capita. La distinzione fra le tecniche applicate nei suddetti monumenti non è netta.
Osserviamo ora una realtà stratigrafica esistente in entrambe le tombe n. 2 e 3 di Gremanu/Madau (Fonni). Per brevità osserviamo la parte basale di camera nella tomba 3, che è fatta di piccoli conci o lastrine. La parte sovrastante è resa con tecniche e materiali completamente diversi, così che a prima vista domina estesamente la fase meno antica, nella quale si evidenzia un muro realizzato con grandi lastre poste ortostate o di coltello, anche spesse. Specialmente le pareti esterne si configurano come un placcaggio raffinato, disposto sia attorno alla camera, sia davanti e dietro all’esedra.
L’evidente diversità delle parti basali nella tomba 3 e di tutto l’interno della tomba 2, costituite da lastrine e piccoli conci dalla sagoma inconfondibile, garantisce la specificità sia dell’una, sia dell’altra tomba.

Questa sovrapposizione tecnico-costruttiva, che rimanda alla medesima cronologia relativa, si ritrova singolarmente nel nuraghe Ui di Chiaramonti.
L’edificio è ampiamente smantellato e spogliato da non poterne ricavare la planimetria, né la consistenza del complesso. Solo infilando la testa in un’apertura ampia quanto le spalle, creatasi nel lato SSE, per l’asportazione di grossi blocchi basaltici che paiono comporre il tutto, s’intravede una camera ampia, composta da un alto anello basale organico di circa due metri, edificato con piccoli conci o lastrine di una pietra chiara che, vista a distanza pare essere una sorta di calcarenite. Sull’anello basale il muro s’innalza con conci di basalto, di buona dimensione e ben composti. In sostanza, in questo nuraghe si osserva la stessa successione stratigrafica muraria che si può osservare nelle citate t.d.g. di Fonni; l’identità stratigrafica in particolare è con la tomba n. 3, la cui camera antica a piccole lastre calcaree appare regolare come nel nuraghe Ui.

Un ulteriore, inaspettato esempio di parallelismo tecnico col nuraghe Ui di Chiaramonti e quindi con le due tombe di giganti di Madau, si trova in un’ampia camera del nuraghe complesso esistente all’interno del recinto turrito detto Su Casteddu de Fanari – a confine dei territori comunali di Decimoputzu e Vallermosa, posto a coronare una collina miocenica mammellonare ai cui piedi passava un’antica via dei metalli, tra l’Iglesiente e la città di Cagliari…

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Numero 64 – I Semestre 2024

Disponibile da Maggio 2024, il nuovo numero 64 di Sardegna Antica

In copertina Su Nuraxi di Samatzai, accompagnato nel retro dal misterioso Casteddu de Fanaris e dal curioso Su Sonadori di Villasor. Questi tre edifici preistorici campidanesi saranno analizzati in questo nuovo fascicolo da Giacobbe Manca.
Maurizio Feo ci parla della triste vicenda successiva alla scoperta del tempio ipogeo di Su Benatzu, un peccato capitale.
Maura Andreoni stavolta analizzerà la storia e il posto nei miti antichi di un’animale icona della nostra isola: la pecora.
Il professor Antonio Assorgia ci racconterà della presenza di Domenico Lovisato all’Esposizione Universale di Parigi 1889, mentre Roberto Manconi ci propone un’interessante teoria sulla scarnificazione rituale nella preistoria della Sardegna.
Il nostro Sandro Garau, studioso di architettura preistorica, ci farà conoscere inediti dettagli che sfuggono agli occhi meno esperti.
Giovanni Graziano Manca continua l’opera di studio della sua città, parlandoci di Egidio Bellorini e della sua raccolta dei canti popolari amorosi di Nuoro.
Chiudono questo numero gli articoli del ritrovato Andrea Muzzeddu, di Giovanni Enna sulla riforma agraria del risorgimento in Sardegna, e di Peppino Pischedda sul grande Emilio Lussu.

Sommario

  • Peccato Capitale. Il tempio ipogeo di Su Benatzu – Maurizio Feo
  • Gli Ovini, tra Natura, Storia e Mito – Maura Andreoni
  • Architettura a secco. Letture e Riflessioni – Maurizio Feo
  • Domenico Lovisato all’Esposizione Universale di Parigi 1889 – Antonio Assorgia
  • La scarnificazione rituale – Roberto Manconi
  • Tre edifici nel Campidano – Giacobbe Manca
  • Dettagli trascurati nell’Architettura preistorica – Sandro Garau
  • Egidio Bellorini, i Canti popolari amorosi di Nuoro – Giovanni Graziano Manca
  • Mistificazione e Storia – Andrea Muzzeddu
  • Risorgimento e riforma agraria – Giovanni Enna
  • Emilio Lussu, patriota e sardista – Peppino Pischedda


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Le epigrafi di San Pietro di Sorres e San Pietro di Oschiri

San Pietro di Sorres – 1221 L’epigrafe commemorativa

La cronologia dell’antica cattedrale di San Pietro di Sorres in agro di Borutta, tra le più eleganti e raffinate basiliche medievali della Sardegna, è stata oggetto di studio e terreno di confronto di numerosi studiosi sin dai primi del Novecento.
«Un impenetrabile silenzio avvolge l’origine e le vicende della Chiesa di S. Pietro di Sorres; non si conosce né il nome dell’architetto, né l’epoca in cui venne costrutta». Esordisce così, nel 1907, il regio soprintendente Dionigi Scano, che ipotizza che l’abbaziale benedettina sia stata costruita in un’unica soluzione, nel corso del xii secolo. Raffaello Delogu, sulla base dell’analisi formale delle strutture, individua due distinte fasi costruttive riferibili alla seconda metà dell’xi secolo, e una terza alla fine del xii. Dell’impianto più antico, resterebbe un tratto inglobato nel paramento meridionale; di un secondo, di qualche tempo più recente, distinto da fori pontai rettangolari disposti verticalmente, resterebbero tracce in tutte le quattro facce della chiesa, per una altezza di tre-quattro metri.

Ragionevolmente il Delogu confonde la chiesa di Sorres con il S. Antioco di Bisarcio, che ha i fori pontai quadrati solo nella parte superiore. In realtà, nei due fianchi del S. Pietro, sotto i fori pontai rettangolari si osservano gli stessi fori quadrati delle parti alte della chiesa, per cui è irricevibile l’ipotesi di una seconda fase alla fine del xi secolo. Lo studioso assume quindi una lunga sospensione dei lavori, il cui riavvio sarebbe conseguente le chiese pistoiesi sorte tra il 1160 e il 1170 e le chiese pisane erette entro l’ultimo decennio del secolo xii. Su questa base si dovrebbe ammettere che «i lavori, iniziati tra il 1170 ed il 1180, si concludessero prima dello spirare del secolo».

Un più attento esame permette – in questa sede – l’integrazione e la rilettura dell’epigrafe, scolpita su due righe in un volgare locale, in caratteri capitali, onciali e cifre arabiche. Ha uno specchio epigrafico di cm 56 x cm 18 e una altezza di caratteri compresa tra cm 3 e cm 7. Dopo una croce patente, con funzione dedicatoria e il nome del responsabile della fabbrica di Sorres «+ mariane maistro», insieme a poche altre lettere di complemento, l’iscrizione fissa – nel «1221» – l’anno di ultimazione dei lavori e di consacrazione dell’altare.
Al nuovo dato consegue un aggiornamento della cronologia della costruzione, che deve essere posticipata di circa un quarto di secolo, quando la chiesa fu completata o forse ricostruita tra la fine del xii secolo e il 1221, direttamente sul paramento di base di metà della seconda metà dell’xi secolo. Raffaello Delogu nel 1953 scriveva che «le sole maestranze capaci di realizzare simili volte [cupoliformi del S. Pietro di Sorres] sembrerebbero, nella Sardegna settentrionale del xii secolo, quelle francesi e, per la vicinanza geografica e d’ambito politico culturale, le stesse che voltavano la “galilea” del S. Antioco di Bisarcio».

San Pietro di Oschiri-1609 L’epigrafe della dedicazione

Alla periferia occidentale dell’abitato di Oschiri sorge, su un modesto poggio, una piccola chiesa seicentesca, eretta forse su un tempio bizantino già consacrato a San Pietro, da cui proverrebbe un reliquiario litico bivalve, oggi disperso, ma di cui resta una rara immagine e qualche nota bibliografica. Nell’architrave basaltica del portale di ingresso della chiesetta è scolpita, a basso rilievo, una inedita epigrafe in lingua latina e greca, in prevalente scrittura capitale epigrafica, insieme a cifre arabiche, a un numero romano e al disegno di una piccola colomba in volo. Ha uno specchio epigrafico di circa 160 x 30 cm e un’altezza dei caratteri compresa tra 7 e 15 cm circa. Non è di facile interpretazione per un buon numero di abbreviature per troncamento e maggiormente per l’anarchia dell’ortografia, sacrificata da un estroso lapicida per un bizzarro gusto estetico, teso alla rappresentazione di una struttura piramidale che converge verso una
croce mediana, forse evocativa del monte Calvario, per certo di una tensione verso l’alto, quindi di una ricerca delle realtà celesti e soprannaturali.

Al centro dell’epigrafe, entro un quadrato bordato di un listello, è il cosiddetto “Trigramma di San Bernardino” – “jhs” – una sorta di logo cristiano che, per alcuni autori, sarebbe abbreviatura per contrazione del greco per “jh[σου]ς” (“Jesûs” = Gesù), con una croce potenziata costruita sull’asta orizzontale della “h”, secondo uno schema introdotto dal Frate di Siena nel secondo decennio del xv secolo. Alla sinistra del quadrato, nella riga in basso, la cronologia della consacrazione della chiesa è introdotta da una “A” maiuscola, di un corpo ben superiore a tutte le altre lettere dell’epigrafe, e da una “d” minuscola, nell’insieme canonica abbreviatura di “a(nno) d(omini)”, accompagnate dalle cifre arabiche “16” (il giorno) e dal numero romano “x” (il mese). In simmetria, alla destra del quadrato, nella riga in basso, è il numero dell’anno – il “1609” – seguito da una croce greca potenziata, in luogo della croce patente, di norma riscontrata nelle epigrafi di consacrazione di un tempio. Così intesa, la cronologia – “ad 16 x † ihs 1609” – celebra, insieme al Gesù nel cui sacro nome è fatta la dedicazione, quel venerdì 16 ottobre del 1609 della intitolazione della chiesa…

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Is Montalgios

Tra le pratiche che hanno contribuito a qualificare l’identità comunitaria dei suoi abitanti come montalgios (montanari) e biaxiantes (cavallanti o viandanti girovaghi), vi è senz’altro l’attività d’incetta e commercio della neve.

L’etnonimo aritzesos ha identificato fino alla metà del Novecento, in gran parte dell’Isola, i venditori girovaghi di castagne e nocciole ma soprattutto di neve e carapigna. In Sardegna lo sfruttamento commerciale della neve è nato ad Aritzo nel 1636, a prestar fede a un documento di molto posteriore datato 1696 conservato presso l’Archivio di Stato di Cagliari, che riportata in veste parziale “dal regesto del Pinna”. L’attività ebbe inizio quando gli imprenditori aritzesi Gerolamo Pirella, Antonio Cuy Lay e Giovanni Bachisio Fadda scavarono a proprie spese alcuni pozzi nelle montagne di Aritzo per conservarvi la neve. Chiesero quindi al Re Filippo IV, nel 1636, di stabilire l’arbitrio o privativa per la provvista della città di Cagliari, e ne ottennero essi stessi la concessione regia, versando alla cassa regia la somma di 35.000 reali. In seguito la presa e la conservazione della neve si faceva anche sulle montagne di “Parte Olla” e in quelle di “Fontana Cungiada”, aumentando anche il numero dei pozzi sul Gennargentu, tanto che nel 1704 si rinnovarono i sette già esistenti e se ne costruirono altri tre.

Dice Giuseppe Luigi Devilla, La Barbagia e i Barbaricini, 1889: “Questo lavoro dava pane a molte famiglie e fruttava molti denari agli industriali”.
Una copiosa documentazione rivela che i profitti erano cospicui, al punto che i titolari della gabella spesso potevano permettersi di risiedere a Cagliari, preoccupandosi unicamente di affidare a sovrintendenti o a soci in affari l’esecuzione dei lavori ad Aritzo dove si recavano solo per i sopraluoghi. Ancora il Devilla osserva come il commercio della neve fosse: “… scaduto dell’importanza che aveva prima per il grandissimo uso del ghiaccio venduto a prezzo di nulla”. L’apertura poi di una fabbrica del ghiaccio a Cagliari nel 1903 accelerò ulteriormente la decadenza dell’attività, tanto che nel 1921, in una delibera di Consiglio, si afferma che: “Un tempo era in fiore l’industria della neve che si raccoglieva d’inverno e si smerciava d’estate, trasportandola a dorso di cavallo in tutti i paesi di pianura per preparare i sorbetti refrigeranti nelle feste popolari”.

A sentire M. Roberti, La privativa della neve in Sardegna, 1910, l’areale del commercio della neve era molto ampio, estendendosi quasi all’intera Isola: “La neve veniva trasportata con carri e sopra cavalli, sia a Cagliari sia nelle altre città: a Sassari, a Nuoro, a Oristano, ad Alghero, a Laconi, e anche in molti centri minori: Noragugume, Ploaghe, Codrongianus, specialmente dove erano ville signorili.” Alcuni di queste distanze erano molto lunghe e potevano essere percorse in diversi giorni di marcia, intervallati da brevi soste ai postolgios, poste fisse lungo l’itinerario ove alle carovane, soprattutto ai cavalli, era possibile dare ristoro. Quel che si può documentare con certezza è che a Cagliari, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, nei mesi di luglio e agosto, le carovane erano composte anche di dieci cavalli. I primi cavallanti giungevano ogni giorno intorno alle cinque o le sei del mattino, dopo un percorso di circa centoventi chilometri. Se ne può dunque arguire che il viaggio aveva avuto inizio la mattina del giorno precedente.

I viaggi più lunghi erano però quelli diretti verso Alghero, Sassari e i centri del Logudoro, che duravano anche cinque o sei giorni. In molti di questi centri, come avveniva a Cagliari con le Fondas della neve erano presenti dei veri e propri depositi sotterranei, sas nieras regolarmente alimentati fino ai primi decenni del Novecento In essi, come nelle neviere madri, il ghiaccio era conservato per strati tenuti separati dalla paglia. A Ploaghe, questo deposito, ancora esistente, è costruito attorno a una cavità rocciosa e coperto con una cupola di pietra e calce: è noto come Sa Niera o Maria Marronca.

Untulgeras

Erano costruzioni – trappola edificate in pietra di scisto ed elevate con muratura a secco, databili – le prime – tra il XVI e il XVII secolo, quando giunse ad Aritzo un gruppo di monaci, molto probabilmente appartenenti all’ordine dei Gesuiti: in un documento datato 1578 si menziona, infatti, un Gesuita Aritzese, certo Francisco Noco. Nelle untulgeras si deponevano carogne di animali o capi di bestiame falcidiato dalle morie dovute a malattie epidemiche o per altri motivi, per attirarvi gli avvoltoi. In esse mancavano ampi spazi di manovra e i grifoni ormai sazi e appesantiti non riuscivano più a spiccare il volo, né potevano mettersi in salvo dagli uomini, che li abbattevano facilmente a colpi di bastone.

Dal Cinquecento fino agli inizi dell’Ottocento le penne dei volatili di taglia medio-grande erano utilizzate per la scrittura. Erano utilizzate solamente le penne delle ali, con una determinata curvatura, che consentisse una buona impugnatura. Staccata dal povero rapace, la penna era quindi temperata col calore, tagliata di sbieco, appuntita e fessurata in punta per distribuire l’inchiostro. La descritta “pratica venatoria” impietosa verso animali indifesi, si fondava su una consolidata etnoornitologia accompagnata, manco a dirlo, da convinzioni magico religiose. L’analisi della classificazione dei rapaci, nella forma in cui è stata concepita dai nativi, consente di cogliere come dalla comunità veniva categorizzato quel particolare settore del mondo ornitologico. I rapaci sono definiti is (il) aes e di essi si tramanda una conoscenza puntuale. Erano tutti cacciati per sfruttarne le penne: sugli avvoltoi è stata esercitata una caccia sistematica su vasta scala e con metodi “industriali”.
Allora l’impresa era facilitata in quanto allora gli avvoltoi erano numerosi e di semplice cattura senza armi da fuoco. La loro mattanza si basava su un sistema coerente di saperi e credenze messi in atto da addetti “specializzati”.

Il sistema museale di Aritzo

L’Ecomuseo della Montagna Sarda o del Gennargentu è un sistema museale distribuito sul territorio comunale di Aritzo e articolato in più aree espositive che raccontano la cultura delle comunità del centro Sardegna attraverso la riproposizione degli spazi domestici, degli antichi mestieri, del vestiario tradizionale e di quello del camuffamento legato al Carnevale, per arrivare a illustrare i rituali religiosi e le pratiche magico-stregoniche.
Il percorso museale, nato nel 1980 per iniziativa di un’associazione di volontariato che ha organizzato la raccolta degli oltre quattromila reperti donati dalla cittadinanza, rappresenta una componente inscindibile del patrimonio identitario e ambientale del paese.

Il Museo prigione regia in epoca spagnola, nella seconda metà del 1800 fino al 1936, è diventata carcere mandamentale per i detenuti del circondario in attesa di giudizio. Ubicata nel centro storico, in una cornice di dimore tradizionali di montagna, l’edificio ospita la mostra permanente su Magia e Stregoneria in Sardegna tra il XV e il XVII secolo.

Al centro del paese: Casa Devilla, dimora padronale di una famiglia borghese legata all’antica industria della neve, accoglie oggi una collezione di oggetti di artigianato locale tra cui spicca la cassa nuziale intagliata, manufatto ligneo tradizionale aritzese; il corpo più antico dell’abitazione conserva il nucleo architettonico d’impianto spagnolo.

In Pratza ‘e Iscola, presso la vecchia sede del palazzo comunale, si trova il Museo d’arte dedicato al pittore, ritrattista e incisore Antonio Mura, nato ad Aritzo (Nuoro) nel 1902 e morto a Firenze nel 1972. Artista completo, sia per preparazione professionale sia per adeguata cultura, si distinse nell’esecuzione di opere sacre, seguendo la sua ispirazione profondamente religiosa.

Infine, all’interno del Parco Comunale Pastissu, il Museo Etnografico.
Un percorso espositivo di 8 sale tematiche, in cui sono presenti i reperti relativi alla cultura materiale di una comunità del centro Sardegna. Il Museo illustra il sistema di sussistenza agro-silvo-pastorale, con riferimento ai processi di acquisizione, trasformazione, distribuzione e consumo nel tempo e nello spazio delle risorse alimentari, delle lavorazioni artigiane, del commercio itinerante dei frutti del bosco,, della musica e del settore del vestiario tradizionale.

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Paesaggio di Aritzo – Tra Preistoria, Storia e Geologia

Adagiato sul versante Nord-Ovest del Gennargentu, la montagna più alta della Sardegna, il paese di Aritzo è notoriamente famoso per l’aria salubre, per la coltiva zione delle castagne (Castanea sativa) e per il delizioso sorbetto ottenuto dalle nevi del Gennargentu, chiamato carapigna. Ai prodotti del territorio, a cui sono peraltro dedicate due sagre in agosto e nel mese di ottobre, questo ridente paese affianca anche un’offerta culturale ragguardevole, con ben quattro musei: l’Ecomuseo della montagna sarda, nonché Museo etnografico, la Casa Museo Devilla, il Museo di Arte Moderna e contemporanea Antonio Mura, e le prigioni spagnole di Sa Bovida. Si tratta per la maggioranza di musei etnografici, contemporanei o antropologici, a cui sarebbe opportuno affiancare anche un museo naturalistico-archeologico.

Sebbene il comune non sia particolarmente noto per i suoi monumenti, il territorio è ricco di testimonianze che necessitano di essere “riscoperte”: documentate, elencate e valorizzate. Non può esistere alcuna tutela o valorizzazione se il bene è noto soltanto in forma verbale o, peggio, nella memoria degli anziani. Il nostro articolo nasce con queste intenzioni. L’opportunità per svolgere un simile elenco si è rivelata durante la proficua collaborazione tra gli scriventi, il comune di Aritzo, in particolare nelle figure del Sindaco Paolo Fontana, del vicesindaco Gianluca Moro, dell’assessore alla cultura Andrea Figus, e di tutti i collaboratori museali, in particolare Antonello Todde, che ci ha accompagnato durante le numerose visite.

Coadiuvati dal parere del direttore di questa stessa rivista, abbiamo così proceduto a effettuare più visite per il territorio, accompagnati dai sopraddetti rappresentanti della comunità. Il nostro censimento archeologico vuole essere inteso come un primo approccio documentabile al territorio Aritzese, affinché questi monumenti rimangano impressi nella memoria scritta, e si proceda nel futuro per la loro giusta tutela e valorizzazione. La preistoria del comune di Aritzo comincia il suo percorso evidenziata dalla presenza di diverse Domos de Janas sparse per ripidi sentieri montani, forre incassate e vette irraggiungibili se non a piedi. Le prime che possiamo documentare durante il nostro viaggio si affacciano sul versante Sud della montagna, verso il Flumendosa.
Non sembra essere un caso che la maggior parte dei monumenti da noi evidenziati siano rivolti verso il principale fiume della Sardegna.

.La preistoria del comune aritzese compie poi un balzo nel tempo, con il nuraghe Sa Mecure e la vicina tomba dei giganti di Su Carraxione, posta più in alto rispetto allo sperone roccioso in cui è situato il nuraghe, ascrivibile al tipo arcaico.Il materiale per la sua costruzione, prevalentemente granitico, sembra essere stato cavato dallo stesso sperone roccioso a strapiombo sul Flumendosa, da cui si gode una visione eccezionale sugli altri nuraghi localizzati verso ovest.

Non sembra possibile invece osservare il nuraghe Ardasai di Seui, coperto da un fianco della montagna più a Sud-Est. Il nuraghe si trova nella posizione di 39°55’24” N 9°15’47” E, ad una quota di 978 m.s.l.m. Il sito risulta sicuramente come il più monumentale del territorio di Aritzo, per la potenza dei materiali che si trovano ancora in loco e per la considerevole superficie che occupa il monumento. Il monumento, di difficile lettura per quanto riguarda la sua ipotetica planimetria, suggerisce sul lato orientale la chiara evidenza di un lungo corridoio oramai distrutto, con ancora lunghi tratti di un singolo paramento in aggetto. In vetta si osservano invece i resti di piccole camere o vani oramai distrutti o non rilevabili correttamente.
Non lontano dal monumento ciclopico, in direzione di una vicina fonte d’acqua perenne, si localizza quella che dagli anziani e dalla memoria popolare è nota come “Sa Perda ‘e su Costiu”. Questa, riconosciuta dai locali come un qualcosa di non naturale, su cui si è posata la mano umana, non si tratta in realtà di un presunto altare, come vorrebbe suggerire la fantasia popolare. In particolare, i locali raccontano che la pietra venisse utilizzata per compiere offerte animali per scopi propiziatori. A nostro giudizio si tratta invece dei resti di un più imponente muro ciclopico, con evidente presenza in un breve tratto di un autentico paramento murario e di altre sparute tracce, che possono essere osservate anche tra i massi naturali del costone roccioso su cui è stato insediato il monumento. Doveva presumibilmente trattarsi di un nuraghe, ipoteticamente del tipo arcaico, realizzato con massi di granito, ora prevalentemente crollati verso il basso, ad Est del monumento. Il facile accesso della strada, quasi a ridosso del presunto nuraghe, come la sua vicinanza ad una fonte d’acqua, sicuramente frequentata sin dall’antichità, deve aver contribuito al lento ma inesorabile smontaggio del monumento.

La tomba di Carraxione si trova nella posizione di 39°55’35” N 9°15’47” E a una quota di 1056 m.s.l.m., il monumento in questione si presenta in condizioni decisamente migliori rispetto ai precedenti due nuraghi. È stato possibile eseguire più accurate misure mediante metro laser, oltre che delle efficaci foto dall’alto. Tramite queste è stato possibile determinare che la zona archeologica risulta essere molto più ampia di quanto ipotizzato in passato, con la strada che attraversa addirittura il cerchio di pietre, che diparte dalle due ali dell’esedra, e che tange il perimetro esterno di una formazione rocciosa naturale disposta di poco più a Nord. Di estrema importanza, su tale formazione, è possibile rilevare un singolo masso di forma pressoché ellittica, con misure di 2.80 m per 2.20 m, per uno spessore medio di circa 40 cm (coordinate 39°55’36.7”N 9°15’47.3”E), apparentemente non lavorato, e di forma schiacciata, a somiglianza di uno spesso lastrone. Questo macigno apparentemente naturale risulta invece, a nostro parere, esser stato movimentato sino all’attuale posizione, e stabilizzato mediante l’inserimento su uno dei lati di un piccolo concio, come una zeppa, per bloccare il masso in posizione pressoché orizzontale.

La sua estrema vicinanza alla tomba, la sua posizione poco discosta dal sopracitato circolo di pietre e il suo aspetto di spessa lastra pianeggiante, rialzata ed elevata rispetto al suolo circostante, fanno presumere che si tratti di un altare per le offerte, o addirittura di un masso per la scarnificazione. Tale ipotesi, trova ampio conforto tra gli scritti di G. Manca, in particolare riguardo l’uso di tale rituale presso le tombe dei giganti, presso cui volatili saprofagi come corvi, cornacchie e avvoltoi procedevano alla rimozione dei tessuti molli dalle carcasse.

Il Texile: Attualmente è tutelato come area SIC (sito di interesse comunitario), e, dal punto di vista antropologico vanta anche una frequentazione dal neolitico, secondo quanto riportato da precedenti studi.
La visita corale al monumento, accompagnati dai rappresentanti civici, ha permesso di apprezzare la visione del territorio dall’alto del tacco calcareo, in tutto simile al più noto monumento di Perda Liana. Lo sguardo spazia verso Sud-Est, lungo i tonneri calcarei e le forre del Flumendosa, attraversando il territorio di Gadoni, Seulo, Sadali. Durante giornate particolarmente terse, è possibile vedere, nel cagliaritano, le assai distanti vette dei monti dei Sette Fratelli. Un monumento naturale così eccezionale come il Texile trova ulteriore importanza antropologica nel suo presumibile utilizzo antico come “luogo alto” da parte delle popolazioni che s’insediarono in Sardegna e qui radicatesi dalla fine dell’età del bronzo e forse ancor più dagli inizi dell’età del ferro. Al riguardo della presenza del luogo alto, sul tacco calacreo è possibile osservare, sia pure poco visibile, il disegno a semicerchio di un muro, facilmente equivocabile come un affioramento roccioso, proprio nel punto più alto della cima del Texile.

La forma a semicerchio consente di stimare una misura in forma ellittica di 7.40 m per 5.50 m, a integrare parzialmente gli affioramenti rocciosi del lato W, mentre nel lato N/E si osserva per un altro tratto di m 1.50 e un’altezza di 1. La sovrapposizione dei pochi massi visibili permette di determinare la presenza di un autentico paramento murario, mentre nel lato Sud, si osservano tre chiari conci a coda, disposti a raggiera con la facciata concava ben lavorata con misure di 40-50 cm per una lunghezza verso la coda dai 50 ai 67 cm. Tutti questi elementi architettonici sono attualmente seminascosti dai sedimenti. La diversa natura litologica dei massi evidenzia ti (scisti, arenarie) farebbe pensare che si tratti di un non meglio precisato monumento; i resti delle strutture murarie lasciano presumere che sul pianoro naturale del Texile sia stata realizzata dall’uomo qualche tipo di opera molto più affine a un edificio cultuale dell’età del ferro, piuttosto che un nuraghe. È documentato, infatti, che dal Texile di Aritzo provenisse una navicella bronzea (del periodo detto, appunto)con protome di animale, riportata come conservata presso il museo archeologico di Cagliari…

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Numero 63 – II Semestre 2023

Disponibile da Novembre 2023, il nuovo numero 63 di Sardegna Antica

Come suggerito dalla copertina questo nuovo fascicolo è in parte dedicato ad Aritzo con due lunghi articoli: uno sul suo bellissimo paesaggio archeologico e geologico di Alessandro Atzeni, e uno sulla sua ricca storia e tradizioni, a cura del sistema museale di Aritzo.
Segue la seconda parte dell’ articolo di Maurizio Feo sull’archeologia con precisi riferimenti ai monumenti e agli archeologhi sardi.
Lorenzo Scano ci rivela gli interessanti antefatti al famoso restauro sulle statue di Monti Prama a Li Punti, nei quali fu coinvolto in prima persona.
Maura Andreoni continua l’analisi degli elementi iconografici legati al mondo botanico presenti sulla bandiera italiana, incominciata nel precedente numero con l’olivo che, insieme alla quercia, cinge l’emblema che arricchisce il tricolore nella variante navale di Stato.
Il professor Antonio Assorgia ci farà conoscere i primi studi sul vulcanesimo in Sardegna, mentre Giovanni Enna stavolta indaga sul rapporto tra i famosi templari e la nostra isola.
Nello Bruno continua i suoi studi linguistici analizzando il sostrato arcaico dei dialetti sardi che svela relitti semitici.
Peppino Pischedda ci parlerà di Vincenzo Sulis, patriota sardo e vittima dei Savoia, Giovanni Graziano Manca ci farà conoscere il progettista della cattedrale di Nuoro, Fra Antonio Cano, e Gian Gabriele Cau ci svelerà il contenuto di due epigrafi nelle chiese di San Pietro di Sorres e San Pietro di Oschiri.
Infine il commosso ricordo di Giacobbe Manca per una cara amica della Sardegna, la regista e antropologa friulana Cristiane Rorato.

Sommario


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Duvilinò e i “Nuraghe Arroccati”

Dall’analisi d’innumerevoli planimetrie di nuraghi registrate dagli scriventi nell’arco di ormai oltre 15 anni, abbiamo isolato una particolare categoria di nuraghi, da noi detta “nuraghi arroccati”. Sembra, infatti, di poter ravvisare un peculiare tipo di nuraghe, mai valutato come tale o non giustamente considerato nonostante la sua ampia diffusione.

A causa della natura “anomala” di questa particolare categoria, per via della ripetitiva modalità di insediamento su creste rocciose, questi monumenti sono spesso erroneamente confusi con i monumenti da altri definiti “protonuraghi”, un termine che già di per sé risulta fuorviante e di nessun valore.

Questo tipo di nuraghi, detti “arroccati”, con i nuraghi arcaici, hanno veramente poco in comune per quanto riguarda la tecnica edificatoria. I nuraghi “arroccati” si identificano immediatamente per la ripetitiva modalità con cui si insediano ad occupare gli intricati spazi presenti lungo le creste rocciose naturali. Le stesse rocce naturali affioranti sono assorbite integralmente sia nei paramenti murari dei monumenti, oppure sono utilizzate come un solido basamento (platea di fondazione).

In altri casi ancora si denota la curiosa procedura di inglobare le rocce naturali nel nucleo della struttura, occultandone la vista con abili rifasci. In questi virtuosi adattamenti si individuano vani, pozzetti e corridoi ipogeici (N.ghe Loelle di Buddusò, Siliqua di Quartu, Castrulongu di Gavoi, e molti altri casi). Nello sviluppo della cresta rocciosa occupata dal monumento si possono contare anche un certo numero di torri poste a diverse quote, secondo il naturale andamento della stessa. L’attento e minuzioso sfruttamento degli spazi è caratteristico di questi monumenti e coglie di sorpresa anche il visitatore più esperto.

All’interno di questi monumenti si possono apprezzare i collegamenti (con scalette o lunghi corridoi irregolari) tra le varie parti, che, in virtù della condizione di assorbire i massi naturali, presentano planimetrie di progetto che variano dall’essere circolari, ellittiche, sub squadrate, a semicerchio, reniformi, ecc. Nei margini della cresta, dove non si presenta la naturale continuità dei massi, sono realizzate delle muraglie di collegamento talvolta possenti, creando nell’insieme una visuale di continuità per l’intero sito.

A detta di alcuni ricercatori, la tecnica dell’“addossamento” che si osserva in queste opere ciclopiche, ha lo scopo di facilitare l’esecuzione nella costruzione; da questo dissentiamo in parte, perché si è osservato l’esatto contrario (come al Majore di Cheremule) che erigere su queste creste risulta maggiormente difficoltoso, vuoi per i precipizi in cui si va ad operare, oltre che per la stessa difficoltà di apporto del materiale litico e la sua elevazione a certe altezze, vuoi per lo stessa presenza delle rocce naturali che creano nell’atto edificatorio della struttura una discontinuità nell’opera (es. paramenti aggettanti).
In queste costruzioni, di conseguenza, oltre alla maestria e alla grande esperienza che dovevano avere i costruttori, emerge con maggior forza l’abilità degli stessi nell’adattarsi alle diverse situazioni e la capacità di variare il progetto architettonico, ma sempre cercando di mantenere esternamente quello che è l’aspetto “classico” del nuraghe monotorre al centro della struttura: Nuraghe Seruci di Gonnesa, Loelle di Buddusò Nolza di Meana Sardo, Scerì di Ilbono, Duvilinò di Orgosolo e numerosi altri presentano questa stessa caratteristica.

In questa compagine tipologica, i cui esempi vengono spesso inclusi nella categoria dei veri nuraghi arcaici, si classificano ugualmente nuraghi di forma sia semplice sia complessa (con addizione di più torri, come dei nuraghi complessi). Eppure, i nuraghi arroccati, per la maggiore, si mostrano normalmente di dimensioni più ridotte rispetto ai classici nuraghi a sviluppo verticale, ma questo è giustificato dalla conformazione della stessa vetta da insediare.
Lo sviluppo verticale e il gusto dell’“elevato”, esibito nei nuraghi a torre, in questo caso è subordinato alla stessa conformazione della cresta naturale insediata.
Il nuraghe diventa parte stessa della roccia da cui ha origine, amalgamandosi a essa, proiettandosi verso il cielo come la naturale estensione del picco roccioso di cui fa parte.

In questa categoria dei nuraghi arroccati, il Loelle di Buddusò si evidenzia per avere, innegabilmente (come anima dell’impianto strutturale) un nucleo di solida roccia, dato dalla cresta naturale su cui è stato sviluppato il monumento. In questa situazione, quindi, non si sono potuti ottenere vuoti importanti (camere di base e simili) rispetto al pieno della massa muraria. Tuttavia, il nuraghe ne guadagna sotto l’aspetto puramente estetico, sembrando a prima vista, dall’esterno, un nuraghe complesso, con tutte le caratteristiche tipiche di questa categoria. Il nuraghe esercita così un’apparente imponenza unita a una chiara volontà di essere un punto di riferimento visibile in quella porzione di territorio.

Per somiglianza con la situazione sopra esposta, portiamo all’attenzione anche sul nuraghe Adoni di Villanovatulo, che si erge da un tacco calcareo a dominare il territorio sottostante. Il complesso quadrilobato è costituito dall’ipotetica immancabile torre centrale e da altre quattro torri unite con un robusto rifascio. La planimetria si presenta alquanto irregolare, dettata dalla presenza dei diversi piani emergenti dell’affioramento roccioso. In questa torre si conserva la camera del primo piano, svettata della sua copertura a ogiva. Visitando il monumento sono visibili le torri secondarie, le scale e i corridoi ma, nonostante gli scavi operati, non è stato ancora possibile raggiungere la camera inferiore o di base della torre centrale. Pertanto è lecito chiedersi se il detto vano è realmente raggiungibile, oppure (vista la categoria di progetto), semplicemente non esiste?

A rafforzare queste nostre ipotesi, portiamo il caso del nuraghe Duvilinò di Orgosolo, sito lungo la strada per Pratobello in località Settile, a una quota di 984 m.s.l.m. Il monumento, noto anche come Dovilineò, è realizzato con conci granitici di buona pezzatura. Anch’esso risulta inquadrabile come un nuraghe “arroccato”, sempre secondo la nostra suddivisione tipologica. Ciò è confermato anche da uno dei massi affiorante nel corridoio del nuraghe, pertinente al basamento roccioso, che pare ancora incontrarsi, alla fine del corridoio del nuraghe. Visto dall’esterno si presenta con le fattezze di un nuraghe complesso, che s’innalza per circa 12 metri, costituito da quella che sembrerebbe la torre centrale alla quale furono aggiunte tutt’intorno altre tre torri secondarie. Gran parte del complesso va letteralmente a occupare un affioramento roccioso di granito, visibilmente affiorante nei paramenti all’interno del corridoio e alla base della platea. Si accede al monumento attraverso una porta architravata a luce trapezoidale (base 75 cm alt. 160, alto 60) con un notevole architrave che nella foggia e nella lavorazione ricorda un menhir aniconico…

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Monte D’accoddi, la costruzione misteriosa

Ci troviamo davanti a un ufficietto, sulla strada Sassari- Portotorres, e chiediamo all’impiegato qualche notizia su un monumento chiamato “altare preistorico di Monte d’Accoddi”. Ci viene fornita una cartina, in cui campeggia un disegno quadrangolare: si tratta di una piattaforma, e alcune capanne nella sommità. Per la datazione, si legge: “Prenuragico”; ulteriore notizia, la collocazione nella “cultura di Ozieri”(?). Non siamo convinti, neanche un po’.

Andiamo comunque verso il monumento, che si presenta molto più simile a uno “ziqqurat” di ben nota facies semitica, che all’oscuro budello della grotta di san Michele, all’alta periferia di Ozieri.
Qualche informazione l’abbiamo anche noi: dal lontano 1954, quando Ercole Contu fu richiamato da Bologna, ad oggi, si percepisce un chiaro imbarazzo che sembra perdurare nel mondo dell’archeologia “ufficiale”, intendo dire tra soprintendenze e istituti universitari. C’è proprio da chiedersi come mai!

La tradizionale cronologia “nuragica”, infatti, l’unica allora accreditata, non si dimostrava particolarmente adeguata ad accogliere questo monumento ciclopico nel suo ambito. Forse l’ambito ricercato era più antico; “prenuragico” quindi? Che in concreto non significa nulla. Si tratta di un vago Nuraghe arcaico? Magari inanemente detto – con velleitaria terminologia lilliana – pseudonuraghe? Che pure nulla vuol dire! Proprio no, non è credibile.
D’altronde, i termini “fenicio” e “semitico”, – passato il fascismo romano – sembrano ancora oggi scorretti, inopportuni, fuori luogo e, dunque, in ambiente sono usati il meno possibile.
Nel tempo, dagli anni ’50, il terreno circostante fu modificato e sconvolto: la foto aerea dei primi scavi, post 1955, mostra un territorio estesamente decorticato, ridotto a una piazza d’armi. I mucchi di gusci di molluschi – cardium in prevalenza – nell’archeologia nordica sono tenuti quale archivio stratigrafico e materiale prezioso, (kiokkomeddinger = mucchi di conchiglie o discariche preistoriche); ma in questo caso sono stati asportati e delocalizzati.
Dei menhir rinvenuti nel circondario, che erano quattro, “solo” uno è stato ricollocato – “a sentimento” – e in posizione verticale (gli altri tre sono dispersi).

Nella parte anteriore del monumento, anche la pietra di altare è delocalizzata, (non si trovava nella situazione attuale, al pari dei due sferoidi con coppelle, che furono anch’essi delocalizzati e posti in bella vista e in posizione arterfatta). Ancora peggio, se si potesse, devo rimarcare che la grande stanza segnalata al piano di campagna non è stata ancora studiata, né descritta in modo scientificamente adeguato, e oggi è ben chiusa da un lucchetto… ché non si possa vedere.
Nessun cartello, o targhetta, che indichi e spieghi in modo non generico (figuriamoci in modo esauriente) sia i singoli monumenti, sia la dislocazione complessiva, magari contenuta in un’attesa cartografia che comprenda i molti siti individuati e forse ancora esistenti nel raggio di alcune centinaia di metri: che magari comprenda anche le numerose e splendide domos de janas.
Negli ampi spazi del sito non ci sono strutture di accoglienza, come una semplice panchina, un bagno; A fronte di tante dolorose mancanze, si deve riconoscere, un preciso richiamo all’attualità è presente. Inglobato in un alto gradone, un gomito di fognatura di plastica pvc arancione testimonia archeologicamente l’ultima ri-occupazione moderna di quel sito: naturalmente – si deve credere – durante il “restauro” avvenuto sotto la gestione della locale soprintendenza. Insomma, l’impressione/certezza di pressapochismo e sottovalutazione, anche alla luce degli studi e delle pubblicazioni in merito, resta allo studioso e al visitatore occasionale.

Il senso di mistero era già stato ben provocato in noi dai cartelli stradali, che indicano il sito come “monumento preistorico”. Ecco, infine, un’altra definizione priva di significato: “prima della scrittura”, cioè, prima che gli attuali abitanti della Nurra imparassero a scrivere? Oppure: prima che l’umanità conquistasse quel dono? Nei pieghevoli forniti, leggesi “prenuragico”, ovvero “prima dei nuraghe?” Quanto prima?
La datazione più antica di questi monumenti è indicata all’inizio del secondo millennio a.C., ma allora… quanto tempo prima? In realtà, sono state effettuate, a suo tempo, delle datazioni radiometriche, con il noto metodo del Libby all’isotopo radioattivo C14, ma sappiamo che i prelievi furono effettuati a livello del piano di campagna e nella parte interna della cosiddetta “grotta/camera rossa”. Questo, in archeologia significa che la datazione risultante, qualunque essa sia, non riguarda il monumento soprastante, sicuramente edificato in seguito, ma – ancora una volta – non sappiamo quanto. Appare certo, se i prelievi utili alla cronologia radiometrica furono effettuati dal piano di base, fu ottenuta una sicura datazione… delle frequentazioni nelle campagne della Nurra, non certo però del muto monumento soprastante. Il riferimento alle ceramiche rinvenute nel circondario, peraltro, non dimostra affatto che tali reperti fossero coevi al monumento; dunque resta proprio ipotetica la sua collocazione in questa o quell’altra temperie culturale.

Veniamo al dunque:
È cosa nota la misera fine della teoria scientifico-astronomica su Stonehenge allorquando fu reso noto che i grandi piedritti erano stati ri-collocati in luogo e posizione diverse da quella originaria: in merito, esiste ampia letteratura. Per quel sito, si evince una prima collocazione dei massi effettuata in modo “casuale” nella prima metà del ‘900 ma si registra anche un ulteriore spostamento nel 1964, tanto che solo 7 architravi su 25 risultano in posizione invariata.
Simile trattamento, parrebbe proprio, fu realisticamente riservato nel nostro sito di Sassari in questione: al menhir o betilo, come pure agli sferoidi e, certamente al cosiddetto altare sacrificale, del quale si variò la posizione e l’orientamento. Mi viene difficile capire che cosa, con che cosa e in quale situazione i “nostri studiosi” abbiano allineato la “sfera celeste”, visto che un calcolo della precessione degli equinozi ci riporta a una visibilità della Croce del Sud dal nostro sito, riconducibile a svariate (imprecise!) migliaia di anni fa…

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