N.62

Duvilinò e i “Nuraghe Arroccati”

Dall’analisi d’innumerevoli planimetrie di nuraghi registrate dagli scriventi nell’arco di ormai oltre 15 anni, abbiamo isolato una particolare categoria di nuraghi, da noi detta “nuraghi arroccati”. Sembra, infatti, di poter ravvisare un peculiare tipo di nuraghe, mai valutato come tale o non giustamente considerato nonostante la sua ampia diffusione.

A causa della natura “anomala” di questa particolare categoria, per via della ripetitiva modalità di insediamento su creste rocciose, questi monumenti sono spesso erroneamente confusi con i monumenti da altri definiti “protonuraghi”, un termine che già di per sé risulta fuorviante e di nessun valore.

Questo tipo di nuraghi, detti “arroccati”, con i nuraghi arcaici, hanno veramente poco in comune per quanto riguarda la tecnica edificatoria. I nuraghi “arroccati” si identificano immediatamente per la ripetitiva modalità con cui si insediano ad occupare gli intricati spazi presenti lungo le creste rocciose naturali. Le stesse rocce naturali affioranti sono assorbite integralmente sia nei paramenti murari dei monumenti, oppure sono utilizzate come un solido basamento (platea di fondazione).

In altri casi ancora si denota la curiosa procedura di inglobare le rocce naturali nel nucleo della struttura, occultandone la vista con abili rifasci. In questi virtuosi adattamenti si individuano vani, pozzetti e corridoi ipogeici (N.ghe Loelle di Buddusò, Siliqua di Quartu, Castrulongu di Gavoi, e molti altri casi). Nello sviluppo della cresta rocciosa occupata dal monumento si possono contare anche un certo numero di torri poste a diverse quote, secondo il naturale andamento della stessa. L’attento e minuzioso sfruttamento degli spazi è caratteristico di questi monumenti e coglie di sorpresa anche il visitatore più esperto.

All’interno di questi monumenti si possono apprezzare i collegamenti (con scalette o lunghi corridoi irregolari) tra le varie parti, che, in virtù della condizione di assorbire i massi naturali, presentano planimetrie di progetto che variano dall’essere circolari, ellittiche, sub squadrate, a semicerchio, reniformi, ecc. Nei margini della cresta, dove non si presenta la naturale continuità dei massi, sono realizzate delle muraglie di collegamento talvolta possenti, creando nell’insieme una visuale di continuità per l’intero sito.

A detta di alcuni ricercatori, la tecnica dell’“addossamento” che si osserva in queste opere ciclopiche, ha lo scopo di facilitare l’esecuzione nella costruzione; da questo dissentiamo in parte, perché si è osservato l’esatto contrario (come al Majore di Cheremule) che erigere su queste creste risulta maggiormente difficoltoso, vuoi per i precipizi in cui si va ad operare, oltre che per la stessa difficoltà di apporto del materiale litico e la sua elevazione a certe altezze, vuoi per lo stessa presenza delle rocce naturali che creano nell’atto edificatorio della struttura una discontinuità nell’opera (es. paramenti aggettanti).
In queste costruzioni, di conseguenza, oltre alla maestria e alla grande esperienza che dovevano avere i costruttori, emerge con maggior forza l’abilità degli stessi nell’adattarsi alle diverse situazioni e la capacità di variare il progetto architettonico, ma sempre cercando di mantenere esternamente quello che è l’aspetto “classico” del nuraghe monotorre al centro della struttura: Nuraghe Seruci di Gonnesa, Loelle di Buddusò Nolza di Meana Sardo, Scerì di Ilbono, Duvilinò di Orgosolo e numerosi altri presentano questa stessa caratteristica.

In questa compagine tipologica, i cui esempi vengono spesso inclusi nella categoria dei veri nuraghi arcaici, si classificano ugualmente nuraghi di forma sia semplice sia complessa (con addizione di più torri, come dei nuraghi complessi). Eppure, i nuraghi arroccati, per la maggiore, si mostrano normalmente di dimensioni più ridotte rispetto ai classici nuraghi a sviluppo verticale, ma questo è giustificato dalla conformazione della stessa vetta da insediare.
Lo sviluppo verticale e il gusto dell’“elevato”, esibito nei nuraghi a torre, in questo caso è subordinato alla stessa conformazione della cresta naturale insediata.
Il nuraghe diventa parte stessa della roccia da cui ha origine, amalgamandosi a essa, proiettandosi verso il cielo come la naturale estensione del picco roccioso di cui fa parte.

In questa categoria dei nuraghi arroccati, il Loelle di Buddusò si evidenzia per avere, innegabilmente (come anima dell’impianto strutturale) un nucleo di solida roccia, dato dalla cresta naturale su cui è stato sviluppato il monumento. In questa situazione, quindi, non si sono potuti ottenere vuoti importanti (camere di base e simili) rispetto al pieno della massa muraria. Tuttavia, il nuraghe ne guadagna sotto l’aspetto puramente estetico, sembrando a prima vista, dall’esterno, un nuraghe complesso, con tutte le caratteristiche tipiche di questa categoria. Il nuraghe esercita così un’apparente imponenza unita a una chiara volontà di essere un punto di riferimento visibile in quella porzione di territorio.

Per somiglianza con la situazione sopra esposta, portiamo all’attenzione anche sul nuraghe Adoni di Villanovatulo, che si erge da un tacco calcareo a dominare il territorio sottostante. Il complesso quadrilobato è costituito dall’ipotetica immancabile torre centrale e da altre quattro torri unite con un robusto rifascio. La planimetria si presenta alquanto irregolare, dettata dalla presenza dei diversi piani emergenti dell’affioramento roccioso. In questa torre si conserva la camera del primo piano, svettata della sua copertura a ogiva. Visitando il monumento sono visibili le torri secondarie, le scale e i corridoi ma, nonostante gli scavi operati, non è stato ancora possibile raggiungere la camera inferiore o di base della torre centrale. Pertanto è lecito chiedersi se il detto vano è realmente raggiungibile, oppure (vista la categoria di progetto), semplicemente non esiste?

A rafforzare queste nostre ipotesi, portiamo il caso del nuraghe Duvilinò di Orgosolo, sito lungo la strada per Pratobello in località Settile, a una quota di 984 m.s.l.m. Il monumento, noto anche come Dovilineò, è realizzato con conci granitici di buona pezzatura. Anch’esso risulta inquadrabile come un nuraghe “arroccato”, sempre secondo la nostra suddivisione tipologica. Ciò è confermato anche da uno dei massi affiorante nel corridoio del nuraghe, pertinente al basamento roccioso, che pare ancora incontrarsi, alla fine del corridoio del nuraghe. Visto dall’esterno si presenta con le fattezze di un nuraghe complesso, che s’innalza per circa 12 metri, costituito da quella che sembrerebbe la torre centrale alla quale furono aggiunte tutt’intorno altre tre torri secondarie. Gran parte del complesso va letteralmente a occupare un affioramento roccioso di granito, visibilmente affiorante nei paramenti all’interno del corridoio e alla base della platea. Si accede al monumento attraverso una porta architravata a luce trapezoidale (base 75 cm alt. 160, alto 60) con un notevole architrave che nella foggia e nella lavorazione ricorda un menhir aniconico…

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Monte D’accoddi, la costruzione misteriosa

Ci troviamo davanti a un ufficietto, sulla strada Sassari- Portotorres, e chiediamo all’impiegato qualche notizia su un monumento chiamato “altare preistorico di Monte d’Accoddi”. Ci viene fornita una cartina, in cui campeggia un disegno quadrangolare: si tratta di una piattaforma, e alcune capanne nella sommità. Per la datazione, si legge: “Prenuragico”; ulteriore notizia, la collocazione nella “cultura di Ozieri”(?). Non siamo convinti, neanche un po’.

Andiamo comunque verso il monumento, che si presenta molto più simile a uno “ziqqurat” di ben nota facies semitica, che all’oscuro budello della grotta di san Michele, all’alta periferia di Ozieri.
Qualche informazione l’abbiamo anche noi: dal lontano 1954, quando Ercole Contu fu richiamato da Bologna, ad oggi, si percepisce un chiaro imbarazzo che sembra perdurare nel mondo dell’archeologia “ufficiale”, intendo dire tra soprintendenze e istituti universitari. C’è proprio da chiedersi come mai!

La tradizionale cronologia “nuragica”, infatti, l’unica allora accreditata, non si dimostrava particolarmente adeguata ad accogliere questo monumento ciclopico nel suo ambito. Forse l’ambito ricercato era più antico; “prenuragico” quindi? Che in concreto non significa nulla. Si tratta di un vago Nuraghe arcaico? Magari inanemente detto – con velleitaria terminologia lilliana – pseudonuraghe? Che pure nulla vuol dire! Proprio no, non è credibile.
D’altronde, i termini “fenicio” e “semitico”, – passato il fascismo romano – sembrano ancora oggi scorretti, inopportuni, fuori luogo e, dunque, in ambiente sono usati il meno possibile.
Nel tempo, dagli anni ’50, il terreno circostante fu modificato e sconvolto: la foto aerea dei primi scavi, post 1955, mostra un territorio estesamente decorticato, ridotto a una piazza d’armi. I mucchi di gusci di molluschi – cardium in prevalenza – nell’archeologia nordica sono tenuti quale archivio stratigrafico e materiale prezioso, (kiokkomeddinger = mucchi di conchiglie o discariche preistoriche); ma in questo caso sono stati asportati e delocalizzati.
Dei menhir rinvenuti nel circondario, che erano quattro, “solo” uno è stato ricollocato – “a sentimento” – e in posizione verticale (gli altri tre sono dispersi).

Nella parte anteriore del monumento, anche la pietra di altare è delocalizzata, (non si trovava nella situazione attuale, al pari dei due sferoidi con coppelle, che furono anch’essi delocalizzati e posti in bella vista e in posizione arterfatta). Ancora peggio, se si potesse, devo rimarcare che la grande stanza segnalata al piano di campagna non è stata ancora studiata, né descritta in modo scientificamente adeguato, e oggi è ben chiusa da un lucchetto… ché non si possa vedere.
Nessun cartello, o targhetta, che indichi e spieghi in modo non generico (figuriamoci in modo esauriente) sia i singoli monumenti, sia la dislocazione complessiva, magari contenuta in un’attesa cartografia che comprenda i molti siti individuati e forse ancora esistenti nel raggio di alcune centinaia di metri: che magari comprenda anche le numerose e splendide domos de janas.
Negli ampi spazi del sito non ci sono strutture di accoglienza, come una semplice panchina, un bagno; A fronte di tante dolorose mancanze, si deve riconoscere, un preciso richiamo all’attualità è presente. Inglobato in un alto gradone, un gomito di fognatura di plastica pvc arancione testimonia archeologicamente l’ultima ri-occupazione moderna di quel sito: naturalmente – si deve credere – durante il “restauro” avvenuto sotto la gestione della locale soprintendenza. Insomma, l’impressione/certezza di pressapochismo e sottovalutazione, anche alla luce degli studi e delle pubblicazioni in merito, resta allo studioso e al visitatore occasionale.

Il senso di mistero era già stato ben provocato in noi dai cartelli stradali, che indicano il sito come “monumento preistorico”. Ecco, infine, un’altra definizione priva di significato: “prima della scrittura”, cioè, prima che gli attuali abitanti della Nurra imparassero a scrivere? Oppure: prima che l’umanità conquistasse quel dono? Nei pieghevoli forniti, leggesi “prenuragico”, ovvero “prima dei nuraghe?” Quanto prima?
La datazione più antica di questi monumenti è indicata all’inizio del secondo millennio a.C., ma allora… quanto tempo prima? In realtà, sono state effettuate, a suo tempo, delle datazioni radiometriche, con il noto metodo del Libby all’isotopo radioattivo C14, ma sappiamo che i prelievi furono effettuati a livello del piano di campagna e nella parte interna della cosiddetta “grotta/camera rossa”. Questo, in archeologia significa che la datazione risultante, qualunque essa sia, non riguarda il monumento soprastante, sicuramente edificato in seguito, ma – ancora una volta – non sappiamo quanto. Appare certo, se i prelievi utili alla cronologia radiometrica furono effettuati dal piano di base, fu ottenuta una sicura datazione… delle frequentazioni nelle campagne della Nurra, non certo però del muto monumento soprastante. Il riferimento alle ceramiche rinvenute nel circondario, peraltro, non dimostra affatto che tali reperti fossero coevi al monumento; dunque resta proprio ipotetica la sua collocazione in questa o quell’altra temperie culturale.

Veniamo al dunque:
È cosa nota la misera fine della teoria scientifico-astronomica su Stonehenge allorquando fu reso noto che i grandi piedritti erano stati ri-collocati in luogo e posizione diverse da quella originaria: in merito, esiste ampia letteratura. Per quel sito, si evince una prima collocazione dei massi effettuata in modo “casuale” nella prima metà del ‘900 ma si registra anche un ulteriore spostamento nel 1964, tanto che solo 7 architravi su 25 risultano in posizione invariata.
Simile trattamento, parrebbe proprio, fu realisticamente riservato nel nostro sito di Sassari in questione: al menhir o betilo, come pure agli sferoidi e, certamente al cosiddetto altare sacrificale, del quale si variò la posizione e l’orientamento. Mi viene difficile capire che cosa, con che cosa e in quale situazione i “nostri studiosi” abbiano allineato la “sfera celeste”, visto che un calcolo della precessione degli equinozi ci riporta a una visibilità della Croce del Sud dal nostro sito, riconducibile a svariate (imprecise!) migliaia di anni fa…

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