Raichinas
In una bella sera d’agosto la dottoressa Maria Pala,Senior lecturer (Docente) presso l’Università di Huddersfield, ha tenuto un’interessante conferenza nel suggestivo scenario del sito archeologico Su Romanzesu, presso Bitti. Ha spiegato brevemente come si compone il DNA, che cosa siano i Geni, il Genoma, i due tipi di DNA (nucleare e mitocondriale). Quindi ha passato in rassegna gli studi di popolazione meno recenti, fino a scendere nel dettaglio di quelli più aggiornati e volti alla ricerca delle radici genetiche della popolazione sarda.
La giovane ricercatrice espone sostanzialmente due studi di genetica, di cui, come correttamente viene a precisare, non è autrice.
La sua trattazione è stata ordinata e rigorosamente scientifica, restando rispettosamente a portata di comprensibilità da parte di un pubblico numeroso e attento di non addetti ai lavori. Naturalmente, ha escluso dalla propria esposizione tutte le fantasticherie divenute tanto di moda sull’isola negli ultimi tempi.
Ha spiegato che cosa sia l’Archeogenetica, che consiste nell’applicazione della Genetica molecolare allo studio del passato delle generazioni umane. Analizza la variabilità genetica sia di popolazioni attuali, sia di popolazioni antiche. Ci si chiede: come può l’Archeogenetica, oggi, studiare il passato?
Ciò è possibile perché il nostro DNA attuale è una copia che deriva da quello dei nostri antenati del passato: letteralmente, ne contiene molti “pezzi” identici ed altri che si sono progressivamente e in varia misura modificati nel corso dei millenni (mutazioni). In un certo senso, si può dire che il DNA quasi possieda una propria “memoria”. Pertanto analizzando il Dna attuale si può ricostruire il passato e risalire fino all’origine delle specie (questo è vero in teoria; in pratica no, ma solo per l’irreperibilità del materiale, perché il Dna col tempo si deteriora). Analizzando il DNA antico si può quasi andare indietro nel tempo e avere una “visione” (genetica, s’intende) del passato: in questo modo si può talvolta aggiungere un tassello al quadro sempre incompleto della ricostruzione del passato che l’archeologia ci offre. Il sequenziamento del DNA iniziò negli anni ‘80, ma è solo dal 2000 che si è potuto tecnologica mente tentare e ottenere il completo sequenziamento di tutto il genoma (NGS: new generation sequencing).
L’archeologia fornisce il dato archeologico, cioè quali possano essere stati i cambiamenti di stile di vita (“cultura materiale”), eventuali espansioni di popolazioni, oppure il loro declino. Praticamente essa risponde – o tenta di rispondere – alle domande: cosa, dove, quando. L’Archeogenetica, invece, analizzando le composizioni dei DNA moderni e quelle del DNA antico disponibile riesce a risalire a epoche passate e a “vedere” persino movimenti migratori di popolazioni: in tal modo essa riesce a rispondere precisa mente alle domande: chi e da dove.
È poi comunemente noto che esistono due modelli teorici generali tra cui scegliere (con grande difficoltà per gli archeologi, come nel caso degli Etruschi) quando si debba descrivere nascita ed evoluzione delle civiltà del passato: essi sono quelli della diffusione culturale e demica. Il primo modello corrisponde alla trasmissione di un’idea (o di un metodo, o di una tecnica: per esempio, la coltura di un tipo di pianta non autoctona, originaria di un’altra regione geografica), senza una vera e propria migrazione di popolazione. L’unica cosa che viaggia in quel caso è l’idea: lo fa attraverso scambi verbali (e commerciali) tra individui, comunicazione interpersonale, emulazione e apprendimento.
Alla fine, lo stile di vita di una popolazione B si modifica e diviene simile a quello della popolazione A, dalla quale è originata l’idea in oggetto, ma con la tecnica Admixture, si osserva che la composizione genetica della popolazione (DNA moderno) B è rimasta invariata ed è ancora quella precedente allo scambio culturale (DNA antico). Secondo questo modello sembra possa aver viaggiato la realizzazione del “vaso campaniforme” (cultura del v. campaniforme), la cui distribuzione in Europa è tanto discontinua e irregolare da essere definita “a macchia di leopardo”.
Il secondo modello implica invece lo spostamento di un numero sensibile di individui, che portano con sé la propria tecnologia, la lingua, la filosofia: per esempio, come avvenne nella “conquista” del Nuovo Mondo da parte degli europei dopo il 1500. Nel secondo caso, si assiste – sì – alla modifica dello stile di vita, ma essa si accompagna anche a una modifica rilevabile del patrimonio genetico, che nel caso del Nord America è stata drammatica: il DNA antico dei nativi è oggi quasi scomparso, pressocché completamente sostituito da quello dei moderni coloni europei. In questo caso si parla di “replacement” (sostituzione), più che di “admixture” (mescolamento).
È evidente che una vera diffusione culturale possa essere sensibilmente più veloce di una diffusione demica, che dipende dalle possibilità di spostamento degli esseri umani. All’atto pratico, la diffusione culturale è considerata un evento più raro di quella demica. Ciò è forse anche dovuto al fatto che possa essere più difficile da dimostrare: ma è indiscusso che sia sempre stata molto meno ricercata. Forse è realmente meno frequente.
Dal 1994 si è scoperta l’unicità genetica dei Sardi, grazie ai primi studi di L. Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, che adottarono – non era ancora disponibile il DNA – 95 marcatori classici (tra cui, per esempio, i gruppi sanguigni del sistema AB0 e altri indicatori non genetici, ma determinati da geni) e si accorsero di non potere rappresentare la Sardegna nelle loro mappe grafiche di gradienti di frequenza dei marcatori: perché i dati della popolazione sarda erano terribilmente fuori scala. Comparvero in seguito altri risultati con differenze di distribuzione che indicavano in modo non definitivo le popolazioni di Corsica e Sardegna come possibili “isolatigenetici”, separati dalle altre popolazioni europee…
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