Maurizio Feo

Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu

Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?

Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.

Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.

E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…

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[Recensione] Archeologia di Sardegna

L’isola Selvaggia e Duncan Mackenzie

Catturare un lettore è ardua impresa e così c’è, specie in Preistoria locale, chi ricorre a fantascienza e a fole piacevoli.

Giacobbe Manca è un archeologo, quindi attinge alla concreta realtà del passato, antico e recente.

Si tratta di un’analisi dettagliata, lucida, spietata, dell’Archeologia preistorica Sarda in un libro originalissimo che, insieme, parla dell’ambiente accademico sardo. In sinergia con Piero Cicalò, ottimo traduttore dall’inglese, pubblica gli scritti dell’archeologo scozzese Duncan Mackenzie, per la prima volta tutti insieme e in italiano.

Sono i resoconti delle esplorazioni eseguite nel primo decennio del Novecento su incarico della British School of Rome, diretta da Th. Ashby. In concreto sono appunti di viaggio tenuti da un turista speciale. Mackenzie era un valido orientalista, plurilingue; aveva affiancato Evans a Cnosso, ma era inesperto dei monumenti dell’Isola selvaggia e della Preistoria della Sardegna, sconosciuti proprio a tutti. Solo Nissardi gli diede delle dritte per orientarsi appena con i nuraghe.

Fu ignorato dagli altri “archeologi” sardi e dall’iperattivo Taramelli. Commise molti errori e ciò capita a chi fa ricerca in campi nuovi. Ciò non può essere motivo accettabile di ipocrita rivalsa da parte di infingardi, incapaci nei fatti tecnici e nelle conoscenze archeologiche, che avidamente avocarono a sé!

All’opera Giacobbe Manca premette un quadro articolato, chiaro nell’esposizione di complessi contenuti, motivi e procedura seguiti nello studio annoso. I pensieri integrali, finalmente tradotti, dei resoconti di Duncan Mackenzie (paternità ben sottaciuta per generazioni), sono disposti nelle pagine pari: a fronte di esse, sono le note che Manca appunta per l’indispensabile attualizzazione dei contenuti.

Ben presto si comprenderà che l’assoluta novità editoriale [tutta “l’opera sarda” di Mackenzie in italiano affidabile] non è affatto l’unico, né il maggior merito del libro. Traspare ovunque in quest’opera, “scomoda” per forma e sostanza, la padronanza della materia archeologica dell’Autore, al pari della sua acuta e intransigente capacità critica, ora divertita, ora sdegnata, ma sempre chiara e diretta: virtù essenziale di ogni docente.

Manca spiega anche molte cose, paradossali e dolorose per chi abbia a cuore l’archeologia in Sardegna e senta l’urgenza d’interventi salvifici.

Si tratta anche di un documentato, utilissimo avvertimento ai futuri archeologi sardi, che insegnerà molto a chi voglia e sappia leggere davvero; a chi ancora non conosca (?) certe scorciatoie nascoste e sordide della “cultura” accademica.

Nella sostanza, si tratta di un contenuto irriducibilmente ribelle, profondamente sarcastico, nei confronti di un establishment archeo-sardo inconcludente, pomposo e infingardo.

L’Autore, gentile e riguardoso verso la propria materia, è sempre rispettoso della verità, sopra ogni cosa. Deplora l’archeologia “senza contatto” (quella, per intenderci, di chi “mai scese da cavallo” per toccare con mano e cervello i monumenti sardi), che misconosce “l’archeologia interpretativa”, l’unica che proietta la luce dell’intelligenza sui muri sapienti e sui reperti trovati nel fango delle stratigrafie.

Giacobbe Manca ci racconta alcune verità innovative e inattese, non solo archeologiche, ma storiche e biografiche insieme. Alla fine si dovrà constatare come la realtà possa superare qualsiasi fantasia romanzesca. In verità, non è certo un “libro per tutti”: si deve leggerlo intimamente; bisogna comprenderne la necessità, ma se ne ottiene in premio una personale, fondata e libera opinione sui fatti archeologici e storiografici narrati.

Ai “figliocci” coinvolti per carriera o conniventi per altri interessi darà ulteriori esacerbanti motivi per protestare (debolmente indignati) che solamente di menzogne malevoli si tratti: nessuno li priverà del sonno, né porrà in crisi le loro coscienze volatili, ma potranno ricevere buone dritte per pensare, finalmente! Anche quest’ultimo effetto s’aggiungerà ai molti innegabili meriti di questo libro, ennesimo atto d’amore – come tutti i numerosi scritti dell’Autore – verso la troppo bistrattata e mal compresa preistoria in cui ha profonde radici la popolazione sarda.

Maurizio Feo

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Duos Nuraghes di Borore

Tra il 1985 ed il 1998, l’archeologo Gary S. Webster, coadiuvato dalla moglie Maud, condusse nove stagioni di scavo sull’altopiano basaltico di Abbasanta, su “Duos Nuraghes”, presso Bòrore, in provincia di Nuoro. Aveva prima ottenuto il finanziamento congiunto della “National Geographic Society” e del “Sardinia Program” della Pennsylvania State University, oltre alla necessaria autorizzazione a procedere agli scavi del Ministero dei Beni Culturali di Roma (che gli affiancò P. Uras come delegato rappresentante). Gary Webster è uno dei principali interlocutori con i lettori di lingua inglese di archeologia sarda, per le sue numerose pubblicazioni e la sua familiarità con l’Italiano. Lo scavo é certamente uno dei primissimi effettuati con metodo rigoroso, da un archeologo che sapesse condurre un razionale lavoro di recupero di tutti gli elementi e reperti utili a formulare una datazione (stratigrafia, ceramiche, ossidiane, C14 sui resti biologici, flottazione). Lo scavo fu un’utilissima scuola e un prezioso esempio per quelli che assistettero e per i successivi scavi sardi. Altrettanto certamente, però, si devono poi sapere trarre le giuste conclusioni logiche dal proprio lavoro: e in questo, Webster – pur essendo un convinto fautore della cosiddetta “archeologia interpretativa” è in fondo un po’ venuto meno…

La scelta del sito

Webster giustifica la propria attenzione su un nuraghe di piccola taglia con la necessità di “mettere a fuoco una verità nuragica più quotidiana”, meno elitaria di quella espressa dai rari nuraghi giganteschi, o dalla piccola percentuale (non più di 20-30%) di quelli complessi di media taglia, che secondo lui non sarebbero altrettanto rappresentativi della realtà, anche se indubbiamente colpiscono maggiormente la fantasia.

[Già qui sembra di intravedere il concetto di “nuraghe medio”, o “nuraghe tipico”, che piace ancora a molti operatori nel campo. È da considerarsi senza dubbio un’idea ipersemplificazione]

Le fondamenta della Torre A sarebbero composte da enormi conci grezzi e irregolari, che giacerebbero direttamente sull’originale strato basaltico (a suo tempo messo a nudo dall’operazione di “stripping”) e quindi costituirebbero già uno strato artificiale, coevo a quelli che Webster interpretò come i primi e più antichi sedimenti rinvenuti nello scavo. E qui, sorge un primo problema/obiezione. È un fatto fastidioso anche per Webster, come si vedrà: una volta che si fosse raggiunto il solidissimo strato basaltico, già di per sé fondazione perfetta, quale motivo statico/strutturale/costruttivo avrebbe giustificato la sovrapposizione di un ulteriore strato di pietroni irregolari e non lavorati? Sorge il dubbio che lo strato interpretato dall’Autore come “fondazione” non lo sia davvero, bensì possa essere, forse, un esito di crollo, o anche un’aggiunta posteriore dovuta a riuso del sito.

I motivi di un’ipotesi irrispettosa

Se, per ipotesi, la “vera” fondazione originaria fosse invece proprio quello strato che fu a suo tempo esposto per decorticazione dai Costruttori, allora lo scavo di Webster non lo avrebbe raggiunto e la sua stratigrafia non prenderebbe in considerazione lo strato più antico del nuraghe stesso. Se ciò fosse vero, allora la datazione stratigrafica inizierebbe da uno strato che non è affatto il più antico, bensì è più superficiale ad esso e quindi più recente. Anche gli indicatori ceramici subirebbero la stessa sorte. L’insieme produrrebbe risultati finali non corretti.
Ma anche Webster deve avere preso in considerazione questo problema: egli ritiene di averlo risolto adducendo la possibilità che “l’edificazione nuragica sia avvenuta sopra un sito precedente”, del quale i Costruttori non avrebbero cancellato completamente le tracce.
A proposito di indicatori ceramici, Webster cita anche un frammento di vaso riferibile per aspetto all’Eneolitico e allo stile di Monte Claro. Alla fine, però, l’autore suggerisce di non prenderlo in considerazione ai fini della datazione, in quanto sarebbe un reperto “fuori posto”: la sua presenza sarebbe dovuta solo a vari rimaneggiamenti che il luogo ha subito nel corso del tempo

…Sembra quasi che ogni ragionamento debba compiacere un’ipotesi già formulata in precedenza: se non lo fa, non va tenuto in considerazione…

Questo articolo può apparire una critica ingenerosa all’operato di Webster.
In realtà, obiezioni, dubbi e quesiti, più che alla critica verso di lui, sono volti a corroborare un’affermazione che ci sembra doverosa.
Quello che si intende mettere a fuoco è la vera novità che riguarda la datazione. Seppure Webster abbia tentato di contenersi prudentemente entro i limiti del foglio protocollo imposto dall’Establishment Accademico (1500 a.C.), purtroppo uscì egualmente un poco dai margini: appena 380 anni. E così, alla fine, la datazione scientifica ufficiale che egli propose si è meritata la condanna alla non credibilità come eretica e sbagliata: eccedeva ufficialmente i limiti di antichità imposti de jure.

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[Recensione] Grandi Statue Sarde

Il fenomeno Orientalizzante nel cuore del Mediterraneo

Se si parte da premesse sbagliate, è quasi certo che non si raggiungeranno conclusioni corrette.

Così, quando si parla delle statue di Monti Prama, persino la prima definizione di “giganti” – dovuta al Lilliu, che le definì “kolossoi” – s’inizia già con il piede sbagliato. Perché mai ricorrere alla cultura greca e alla sua lingua estranea, per descrivere qualche cosa di prepotentemente sardo, così profondamente differente da ogni altra cosa greca?

E così, l’Autore propone piuttosto un altro nome, per lui più appropriato: quello di Grandi Statue Sarde. Esse sono di poco più grandi del vero, non gigantesche; sono statue a tutti gli effetti, indiscutibilmente sarde e sono “volumetriche”, cioè scolpite a tutto tondo; infine, sono senz’altro statue molto originali. Amare qualche cosa significa vincolarsi a rappresentarlo esattamente per ciò che è: con i pregi per cui si ama e con i difetti malgrado i quali si ama. Il libro, breve e chiaro, di agevole lettura, si attiene a questo principio di base.

Le statue non sono così antiche come qualcuno preferirebbe credere. Ci sono anzi chiare prove storiche, ben note all’archeologia internazionale, del fatto che – tra le statue prodotte dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo – le Grandi Statue Sarde figurano solo nel gruppo meno antico.

Il “monte delle palme” – Monti Prama, come lo chiamano i locali – non è un monte, bensì un dolce rilievo collinare: e se oggi ospita numerosi cespi spontanei di Palma Nana (Chamaerops Humilis, Palma di San Pietro), nulla ci assicura che anche nell’antichità fosse così.

Ecco: il libro procede prudentemente, elencando i dettagli con dati di fatto alla mano, senza condimenti di favole, né aggiunta di miti infondati, esaminando da vicino le prove materiali e formulando solo le più probabili e verosimili tra le ipotesi, sfrondando l’argomento di tutte le invenzioni.
Quello che resta è la realtà nuda, quella incontrovertibile, forse anche imbarazzante per alcuni, ma altrettanto stupefacente quanto tutte le multicolori falsità che nel tempo si sono andate inventando su queste antiche statue, su chi le scolpì, su quando e perché furono fatte…

Si ricorda appena di passaggio, in un’immagine, come il mito della Caverna di Platone da migliaia d’anni ci ammonisca su quanto sia facile cadere nell’errore: l’ombra, proiettata ingigantita sulla parete della caverna, sembra reale; e in fondo è reale, pur non costituendo affatto mai la realtà per intero! La Verità intera è data solamente dall’oggetto tridimensionale, la cui ombra si proietta sulla parete della caverna…

Alla fine della lettura di questo breve testo, corredato da un centinaio d’immagini, il Lettore otterrà un’idea piuttosto precisa e chiara dei grandi eventi storici che si verificarono nel Mediterraneo, cambiandolo per sempre e trasformandolo in un grandioso crogiolo culturale, regalandoci infine – insieme a numerosissimi doni – anche queste preziosissime Grandi Statue Sarde. Per quanto sembrino logore e frammentate, esse sono rivelatrici di un periodo della
storia sarda che è spesso stato colpevolmente sottovalutato, se non addirittura completamente frainteso. Esse ci aprono una comoda finestra sulla Verità di una Sardegna in cui le élite economiche del Sinis espressero appieno la propria orgogliosa ricchezza familiare anche nei sepolcri monumentali.

Una realtà sorprendente, che molti Sardi ancora neppure sospettano e che certamente non può (e non deve!) definirsi “nuragica”, come invece ancora molti oggi s’ostinano a fare.

Giacobbe Manca

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Le grandi statue sarde

Monti Prama

Si deve ammettere che il ritrovamento delle statue fu purtroppo presentato nel modo sbagliato, fin dal principio. Nel 1974, un quotidiano sardo annunciava trionfalmente per la prima volta, ovviamente dopo avere ottenuto le notizie da qualcuno che aveva l’autorità di diffonderle:

“Si tratta di un probabile tempio punico, con colonne fittili e lignee, capitelli, grossi blocchi squadrati di arenaria e i resti di un lastricato realizzato con blocchi di basalto scalpellato. Solo uno scavo potrà chiarire la forma del monumento. Dagli elementi finora in possesso si può ipotizzare un tempietto quadrangolare, con quattro colonne in arenaria di cui sono stati recuperati quattro capitelli decorati e basi in arenaria e basalto in cui s’infilavano travi lignee”.

È già evidente nell’annuncio di allora tutto l’entusiasmo immaginifico di oggi: nulla di quanto asserito inizialmente fu in seguito confermato dagli scavi, ma la miccia di quanto sarebbe successo dopo era stata imprudentemente accesa. Nel 1977 Lilliu escludeva che le statue potessero essere funerarie: oggi ci si orienta esclusivamente verso questa ipotesi. In particolare, il “lastricato” non è mai stato rinvenuto e così il “tempio” (ma ci si ostina ad ipotizzarli possibili). I “capitelli” erano in realtà i c.d. “modelli di nuraghi” e i “grossi blocchi” vari costituiscono reperti sparsi ancora non compresi. Non si sono rinvenute “colonne fittili” e naturalmente nessuno può aspettarsi che le colonne lignee possano essersi conservate, però le si ipotizza. Infine, il sito è interamente sardo, anche se niente affatto “nuragico” e meno che mai punico.

È ormai necessario prendere le distanze da una situazione imbarazzante, in cui troppi non addetti parlano a sproposito, spesso con toni niente affatto degni della cultura, rendendo incomprensibile ai più ogni questione archeologica e storica.

Le grandi statue sarde sono solamente personaggi maschili. Sembrano anzi ispirarsi all’iconografia di alcuni “bronzetti” sardi: quelli che portano armi. In particolare, si tratta di guerrieri con spada, schinieri e scudo, di arcieri con arco, bracciale paracorda e cardiophilax e di una terza (e duplice) categoria che nei bronzetti è molto rara, mentre nelle statue è invece preponderante: i “pugili”. Il termine adottato è probabilmente inappropriato.

Chi fece le statue

Su questo argomento c’è un discreto consenso scientifico: si pensa che gli artigiani delle statue sarde fossero di cultura siriana. La prima causa di tale attribuzione è tratta dai numerosi motivi stilistici (gli occhi tondi e grandi, la loro vernice nera, le trecce fluenti, la stola sfrangiata sulla tunica, il bordo dentellato delle calze sotto gli schinieri: tutti della medesima origine orientale, di cui esistono molti esempi). Poi, esiste il dato storico di una fuga di artigiani dalle coste della Siria, effettuata su vettori Fenici, probabilmente all’epoca del loro primo arrivo in Sardegna. Ciò daterebbe lo sbarco degli artigiani nella seconda metà del IX secolo a.C.

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La grande statuaria parte Seconda

La grande statuaria Italica

Inquadrato cronologicamente l’argomento generale, delineate le prime origini e la simbologia comune, oltre alle più antiche motivazioni primarie, si può finalmente affrontare quella parte del fenomeno espressivo artistico che riguarda la Statuaria Italica, con la speranza di comprenderla meglio nella sua fertile abbondanza e varietà.

I Piceni

Piceni” è un nome esoetnico, tardo, imposto dai Romani e dai Greci (con la derivazione mitologica da “Pikus”, Marte): essi chiamavano se stessi “Safini” ed erano di lingua Osca, indoeuropea. Il “Safnio Sannio dei Romani – s’estendeva dai Monti Sabini ad Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata, fino alla Calabria. Avevano fama d’essere grandi guerrieri e mercenari molto affidabili. I Romani estesero il termine “Sabelli” agli Osco parlanti (Peligni, Vestini, Marrucini e Marsi), oltre che a popolazioni sannitiche (Sanniti, Frentani, Sidicini, Lucani, Apuli, Bruzi).

La popolazione italica dei Piceni era stanziata sulle coste del mar Adriatico. Di essa ci è pervenuta l’opera che per almeno 40 anni (dal 1934 al 1974) fu considerata l’unica rimasta e la più monumentale dell’arte italica: il guerriero di Capestrano, alto 223 cm e databile al VI secolo a.C.

Dal 1934, quando fu scoperta, fino al 1974, data della scoperta delle statue di Mont’e Prama.

La statua calcarea, sorretta da due evidenti puntelli laterali, decorati da due lance incise, raffigura un guerriero a dimensione maggiore del normale, con gioielli ed armi da parata. Si tratta probabilmente della rappresentazione di un defunto illustre, posta come segnacolo per la sua tomba. L’anatomia della figura umana non è definita come nei kouroi greci, ma è più approssimativa, mentre molta più cura è stata dispensata nel raffigurare i dettagli come le armi, che sottolineano il rango e l’importanza del personaggio. Se ne parlerà di seguito più diffusamente.

La Puglia

In Puglia i Greci trovarono le popolazioni di Dauni, Peuceti e Messapi, organizzate in centri urbani dai vivi rapporti con le città elleniche sulla sponda opposta dell’Adriatico.

Tra le produzioni più significative di queste popolazioni ci sono le stele funerarie, come quelle trovate a Siponto. Scolpite in calcare locale nel VII secolo a.C., riportano varie decorazioni a graffito, che rappresentano il defunto con immagini poco naturalistiche, incorniciate da motivi geometrici.

Gli Etruschi

In Etruria, per propria fortuna geologica, erano presenti molte specie differenti di pietra: il marmo delle Alpi Apuane (che fu da essi trascurato, salvo eccezioni, fino ad epoca tarda), la pietra serena, l’alabastro di Volterra, vari tipi di tufo (tra cui il nenfro e la pietra fetida).

Così detta per via dell’odore sulfureo che emette, quando la si scalfisce.

Di conseguenza gli Etruschi avevano un’antica  quanto grande familiarità con la pietra e certamente la sapevano lavorare. La usarono nell’urbanistica: prevalentemente nelle fondazioni, e nelle opere di difesa, che sono tutte tarde, con l’eccezione di Roselle (VII sec. a. C.). Gli alzati degli edifici erano realizzati in doppia palizzata di legno, riempita di ciottoli e poi intonacata, oppure in mattoni crudi d’argilla. Hanno sempre lesinato la pietra: per questo resta così poco della loro edilizia civile. Con la pietra – invece – identificavano volentieri l’edilizia funeraria: per questo le loro tombe hanno sfidato i secoli, tanto da sembrare a molti la loro unica realizzazione edilizia.

Tagliavano il tufo in mattoni e costruivano una volta ogivale autoportante, poi mettevano al centro, per sicurezza, un pilastro tanto imponente quanto superfluo dal punto di vista statico.

Dal V secolo non costruirono più le tombe con la pietra, bensì nella pietra: comparvero così le tombe a dado.

A “dado reale”, se con le 4 pareti in vista; a “mezzo dado” se solo con il fronte e due pareti laterali; a “finto dado” se presentavano solo il fronte, scolpito ed ornato

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Editoriale numero 57 – Maurizio Feo

Questo numero della Rivista giunge in ritardo, in quanto la malattia covidale ha ostacolato per mesi tutte le attività umane. Per qualche tempo, l’incertezza per il futuro ha stornato l’attenzione di ognuno da tutto ciò che non fosse in diretto rapporto con l’essenziale e con la sopravvivenza. Oggi, seppure nessuno di noi possa dirsi ancora certo del futuro, abbiamo qualche robusto punto fermo e qualche speranza in più: e la Rivista rivede la luce, finalmente, perché almeno qualcuno ha ripreso a leggere…

Il punto fermo è dato dalla cognizione certa di avere l’ottima arma del distanziamento sanitario, che ha già funzionato bene e che in Sardegna è più agevole, anche per via della bassa densità di popolazione (che di per sé è già una difesa contro le epidemie!). La speranza risiede nell’eventuale prossimo vaccino (più di ventidue studi nel mondo daranno, prima o poi, qualche risultato) e nel migliore trattamento medico-farmacologico. E così oggi annunciamo i nostri programmi.

Abbiamo preparato diversi argomenti interessanti, ormai già pronti, su temi sensibili per i Sardi, che ci sono stati sollecitati da tempo e che sappiamo saranno di grande interesse non solamente per loro: tanto, che di alcuni di essi stiamo già programmando un’edizione sotto forma di libro…

A differenza dei numerosi ciarlatani che oggi predicano da tutti i pulpiti, noi non fingiamo di conoscere con assoluta certezza quale futuro ci attenda: ma siamo prudenti e ottimisti, e ci auguriamo che almeno ci permetta – questo futuro – la libertà di condividere con i lettori gli studi e le intuizioni circa il nostro trascorso comune nel Mediterraneo. Perché quello – il nostro passato – crediamo invece di conoscerlo abbastanza bene e di saperlo descrivere in modo convincente e appassionante.

A tutti un “ben ritrovati”, e carissimi auguri di cuore!

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La Grande Statuaria

È necessaria una certa pazienza al fine d’ottenere la rappresentazione completa di un quadro composito. Esso si è andato componendo in un lunghissimo periodo di tempo, in varie aree geografiche distanti tra loro e presso differenti culture, confermando alla fine che esiste un unico meccanismo creativo sottostante, che è proprio dell’Uomo.

La statuaria è solo una delle numerose espressioni dell’Arte, in particolare di quella che riguarda la scultura della pietra locale nelle sue varietà.

L’arte Italica è quella prodotta dalle varie popolazioni abitanti la penisola italiana nel periodo protostorico, tra la prima età del ferro (IX-VIII secolo a.C.) e il completo dominio di Roma (inizio del I secolo a.C.).

Per la produzione artistica precedente si parla di arte preistorica, per quella successiva di arte romana, per la quale gli influssi originali provenienti dalla tradizione artistica italica divengono solo una delle tante componenti di quella dominante Si deve guardare all’arte dello scolpire nella sua prospettiva, a partire dai primi tentativi realizzativi e quindi motivazionali. In quest’ottica i betili, i menhir e i differenti tipi di stele, tutti insieme rappresentano i primi stadi evolutivi di questa particolare espressione dell’arte.

Stele (sing. e plur. ; raro il plur. -i), lastra oblunga di pietra, ornata con decorazioni, bassorilievi, iscrizioni e sim., infissa nel terreno o poggiata su un basamento, avente lo scopo di ricordare un seppellimento (s. funeraria), lo scioglimento di un voto (s. votiva), un fatto memorabile avvenuto in quel luogo, o anche di indicare un termine di confine

A saper ben leggere le forme, i simboli e i materiali, se ne possono trarre di volta in volta preziose informazioni sulle culture che ne permisero la comparsa e ne fecero uso.

Per ciò che attiene alla statuaria, la storiografia generalmente non include nell’arte italica né quella prodotta nelle colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia, né quella etrusca, né quella sarda che era peraltro di fatto sconosciuta fino alla scoperta delle statue inizialmente dette “Giganti di Monte ‘e Prama”, avvenuta nel 1974.

In linea di massima i popoli italici, anche sotto il dominio greco, mantennero sempre una tendenza ad un’espressione artistica meno formalizzata e più vivace e spontanea.

Questa espressività locale rimase più chiaramente avvertibile in particolare nelle popolazioni abitanti in aspre zone montane, più lontane dal contatto greco, come i Piceni o i Sanniti.

Si devono aggiungere a questi i Sardi, che certamente filtrarono gli apporti culturali esterni, scegliendo ed adottando ciò che di quelli trovavano più consoni a propri gusti ed esigenze.

È corretto credere che l’arte italica abbia avuto origine già secoli prima del IX secolo a.C., quando ci furono i primi scambi commerciali nel sud Italia, e gli esempi più chiari sono i dolmen e i menhir del Salento, insieme ai graffiti nelle grotte del Gargano.

“Autoctono” non è mai veramente nessuno: ognuno deriva da qualcun altro, altrove, cui è debitore di qualche prestito culturale e genetico

Le popolazioni che meglio svilupparono un’arte propria, sempre sotto l’influenza dei coloni della Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., furono gli Etruschi e i Dauni di Puglia, seguiti dai campani di Capua.

L’arte spaziò dall’architettura monumentale dei templi, come nel miglior esempio nell’area sacra di Paestum, all’uso della ceramica, della terracotta e del bronzo per sculture minori di monumenti funebri, di vasi e di statuette votive.

L’arte italica, sviluppatasi nell’VIII secolo a.C., si fuse infine con quella di Roma nel I secolo a.C. dopo le campagne di conquista dell’Urbe del III secolo a.C., partendo da Taranto, dalla Sicilia durante le guerre puniche, e infine durante le guerre sannitiche e la guerra sociale nel I secolo a.C.; i primi contatti, al livello architettonico, erano comparsi nel III secolo a.C..

Dopo l’assimilazione romana di tutto il potere italico, l’arte di tali popolazioni scomparirà con la piena unificazione politica di Roma del territorio peninsulare.

Comunicazione mediatica

È inteso che vi sia stato un obbligatoriamente lungo periodo di evoluzione dell’espressività umana attraverso la scultura della pietra.

Oggi forse nessuno si stupisce più tanto del fatto che un messaggio possa essere indifferentemente comunicato da un’immagine fissa su un cartellone, come anche da un’immagine mobile su uno schermo riflettente, o addirittura da uno schermo diafano sul quale l’immagine è trasferita da molto lontano.

Al riguardo, la tecnologia mediatica più avanzata 5.000 anni fa era la pietra incisa eventualmente colorata: ed era altrettanto stupefacente quanto lo è oggi un sofisticato ologramma tridimensionale.

Naturalmente, doveva essere grande la motivazione, per spingere all’impiego di tanto impegno e del lungo tempo necessario alla realizzazione dell’opera.

Perché fare le statue?

La simbologia rappresentativa delle statue è – in fondo – anche la simbologia dei gesti. L’espressione umana attraverso le immagini grafiche graffiate, o dipinte e quelle volumetriche sempre più corpose degli altorilievi e delle statue a tutto tondo si basa su alcune posture ed alcuni gesti ed espressioni che dovettero essere inventati. È in Mesopotamia che si codifica per la prima volta il sistema dei valori semantici legati a ciascun gesto.

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  • I Lamassu
  • Statue stele
  • Le stele lunigianesi
  • Un inciso

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LA GUERRA PIÙ ANTICA

Premessa Alla domanda: “Qual è la guerra più antica?”, la risposta più corretta sembrerebbe essere: “Quella del 2.700 a.C., vinta da Sumer contro l’Elam, in cui Enembaragesi, re di Kish, spogliò gli Elamiti di tutti i loro possedimenti”.
Fu certamente una guerra tra due popolazioni ricche e stanziali ormai da vari millenni. Ma fu solo la prima riportata per iscritto dagli annalisti: e certamente fu preceduta da mille altre…

L’evidenza archeologica di “guerra” più antica in assoluto appartiene al sito di Jebel Sahaba, nell’odierno Sudan settentrionale ed è datata attorno ai 12.000 anni prima di Cristo. Quegli antichi resti d’esseri umani uccisi in azioni violente di guerra, ottennero un’accurata sepoltura nel vicino cimitero di Qadan: ciò lascia intuire che una popolazione già stabilizzata e non più nomade, ebbe modo e tempo di provvedere a sepolture tradizionali. Ciò conferma la “regola” della sedentarietà che causerebbe la guerra.

Il problema In questi ultimi anni, si assiste ad un tambureggiante crescendo rievocativo delle presunte grandezze culturali, marinare e militari dei Sardi del passato.
Più spesso si tratta d’iniziative d’entusiasti “non addetti ai lavori” (come chi scrive questo articolo, s’intende!), ma talvolta persino di aventi diritto, con tanto di titolo d’archeologo.
Si può fare un po’ di chiarezza?
…LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 52

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