Tra le pratiche che hanno contribuito a qualificare l’identità comunitaria dei suoi abitanti come montalgios (montanari) e biaxiantes (cavallanti o viandanti girovaghi), vi è senz’altro l’attività d’incetta e commercio della neve.
L’etnonimo aritzesos ha identificato fino alla metà del Novecento, in gran parte dell’Isola, i venditori girovaghi di castagne e nocciole ma soprattutto di neve e carapigna. In Sardegna lo sfruttamento commerciale della neve è nato ad Aritzo nel 1636, a prestar fede a un documento di molto posteriore datato 1696 conservato presso l’Archivio di Stato di Cagliari, che riportata in veste parziale “dal regesto del Pinna”. L’attività ebbe inizio quando gli imprenditori aritzesi Gerolamo Pirella, Antonio Cuy Lay e Giovanni Bachisio Fadda scavarono a proprie spese alcuni pozzi nelle montagne di Aritzo per conservarvi la neve. Chiesero quindi al Re Filippo IV, nel 1636, di stabilire l’arbitrio o privativa per la provvista della città di Cagliari, e ne ottennero essi stessi la concessione regia, versando alla cassa regia la somma di 35.000 reali. In seguito la presa e la conservazione della neve si faceva anche sulle montagne di “Parte Olla” e in quelle di “Fontana Cungiada”, aumentando anche il numero dei pozzi sul Gennargentu, tanto che nel 1704 si rinnovarono i sette già esistenti e se ne costruirono altri tre.
Dice Giuseppe Luigi Devilla, La Barbagia e i Barbaricini, 1889: “Questo lavoro dava pane a molte famiglie e fruttava molti denari agli industriali”.
Una copiosa documentazione rivela che i profitti erano cospicui, al punto che i titolari della gabella spesso potevano permettersi di risiedere a Cagliari, preoccupandosi unicamente di affidare a sovrintendenti o a soci in affari l’esecuzione dei lavori ad Aritzo dove si recavano solo per i sopraluoghi. Ancora il Devilla osserva come il commercio della neve fosse: “… scaduto dell’importanza che aveva prima per il grandissimo uso del ghiaccio venduto a prezzo di nulla”. L’apertura poi di una fabbrica del ghiaccio a Cagliari nel 1903 accelerò ulteriormente la decadenza dell’attività, tanto che nel 1921, in una delibera di Consiglio, si afferma che: “Un tempo era in fiore l’industria della neve che si raccoglieva d’inverno e si smerciava d’estate, trasportandola a dorso di cavallo in tutti i paesi di pianura per preparare i sorbetti refrigeranti nelle feste popolari”.
A sentire M. Roberti, La privativa della neve in Sardegna, 1910, l’areale del commercio della neve era molto ampio, estendendosi quasi all’intera Isola: “La neve veniva trasportata con carri e sopra cavalli, sia a Cagliari sia nelle altre città: a Sassari, a Nuoro, a Oristano, ad Alghero, a Laconi, e anche in molti centri minori: Noragugume, Ploaghe, Codrongianus, specialmente dove erano ville signorili.” Alcuni di queste distanze erano molto lunghe e potevano essere percorse in diversi giorni di marcia, intervallati da brevi soste ai postolgios, poste fisse lungo l’itinerario ove alle carovane, soprattutto ai cavalli, era possibile dare ristoro. Quel che si può documentare con certezza è che a Cagliari, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, nei mesi di luglio e agosto, le carovane erano composte anche di dieci cavalli. I primi cavallanti giungevano ogni giorno intorno alle cinque o le sei del mattino, dopo un percorso di circa centoventi chilometri. Se ne può dunque arguire che il viaggio aveva avuto inizio la mattina del giorno precedente.
I viaggi più lunghi erano però quelli diretti verso Alghero, Sassari e i centri del Logudoro, che duravano anche cinque o sei giorni. In molti di questi centri, come avveniva a Cagliari con le Fondas della neve erano presenti dei veri e propri depositi sotterranei, sas nieras regolarmente alimentati fino ai primi decenni del Novecento In essi, come nelle neviere madri, il ghiaccio era conservato per strati tenuti separati dalla paglia. A Ploaghe, questo deposito, ancora esistente, è costruito attorno a una cavità rocciosa e coperto con una cupola di pietra e calce: è noto come Sa Niera o Maria Marronca.
Untulgeras
Erano costruzioni – trappola edificate in pietra di scisto ed elevate con muratura a secco, databili – le prime – tra il XVI e il XVII secolo, quando giunse ad Aritzo un gruppo di monaci, molto probabilmente appartenenti all’ordine dei Gesuiti: in un documento datato 1578 si menziona, infatti, un Gesuita Aritzese, certo Francisco Noco. Nelle untulgeras si deponevano carogne di animali o capi di bestiame falcidiato dalle morie dovute a malattie epidemiche o per altri motivi, per attirarvi gli avvoltoi. In esse mancavano ampi spazi di manovra e i grifoni ormai sazi e appesantiti non riuscivano più a spiccare il volo, né potevano mettersi in salvo dagli uomini, che li abbattevano facilmente a colpi di bastone.
Dal Cinquecento fino agli inizi dell’Ottocento le penne dei volatili di taglia medio-grande erano utilizzate per la scrittura. Erano utilizzate solamente le penne delle ali, con una determinata curvatura, che consentisse una buona impugnatura. Staccata dal povero rapace, la penna era quindi temperata col calore, tagliata di sbieco, appuntita e fessurata in punta per distribuire l’inchiostro. La descritta “pratica venatoria” impietosa verso animali indifesi, si fondava su una consolidata etnoornitologia accompagnata, manco a dirlo, da convinzioni magico religiose. L’analisi della classificazione dei rapaci, nella forma in cui è stata concepita dai nativi, consente di cogliere come dalla comunità veniva categorizzato quel particolare settore del mondo ornitologico. I rapaci sono definiti is (il) aes e di essi si tramanda una conoscenza puntuale. Erano tutti cacciati per sfruttarne le penne: sugli avvoltoi è stata esercitata una caccia sistematica su vasta scala e con metodi “industriali”.
Allora l’impresa era facilitata in quanto allora gli avvoltoi erano numerosi e di semplice cattura senza armi da fuoco. La loro mattanza si basava su un sistema coerente di saperi e credenze messi in atto da addetti “specializzati”.
Il sistema museale di Aritzo
L’Ecomuseo della Montagna Sarda o del Gennargentu è un sistema museale distribuito sul territorio comunale di Aritzo e articolato in più aree espositive che raccontano la cultura delle comunità del centro Sardegna attraverso la riproposizione degli spazi domestici, degli antichi mestieri, del vestiario tradizionale e di quello del camuffamento legato al Carnevale, per arrivare a illustrare i rituali religiosi e le pratiche magico-stregoniche.
Il percorso museale, nato nel 1980 per iniziativa di un’associazione di volontariato che ha organizzato la raccolta degli oltre quattromila reperti donati dalla cittadinanza, rappresenta una componente inscindibile del patrimonio identitario e ambientale del paese.
Il Museo prigione regia in epoca spagnola, nella seconda metà del 1800 fino al 1936, è diventata carcere mandamentale per i detenuti del circondario in attesa di giudizio. Ubicata nel centro storico, in una cornice di dimore tradizionali di montagna, l’edificio ospita la mostra permanente su Magia e Stregoneria in Sardegna tra il XV e il XVII secolo.
Al centro del paese: Casa Devilla, dimora padronale di una famiglia borghese legata all’antica industria della neve, accoglie oggi una collezione di oggetti di artigianato locale tra cui spicca la cassa nuziale intagliata, manufatto ligneo tradizionale aritzese; il corpo più antico dell’abitazione conserva il nucleo architettonico d’impianto spagnolo.
In Pratza ‘e Iscola, presso la vecchia sede del palazzo comunale, si trova il Museo d’arte dedicato al pittore, ritrattista e incisore Antonio Mura, nato ad Aritzo (Nuoro) nel 1902 e morto a Firenze nel 1972. Artista completo, sia per preparazione professionale sia per adeguata cultura, si distinse nell’esecuzione di opere sacre, seguendo la sua ispirazione profondamente religiosa.
Infine, all’interno del Parco Comunale Pastissu, il Museo Etnografico.
Un percorso espositivo di 8 sale tematiche, in cui sono presenti i reperti relativi alla cultura materiale di una comunità del centro Sardegna. Il Museo illustra il sistema di sussistenza agro-silvo-pastorale, con riferimento ai processi di acquisizione, trasformazione, distribuzione e consumo nel tempo e nello spazio delle risorse alimentari, delle lavorazioni artigiane, del commercio itinerante dei frutti del bosco,, della musica e del settore del vestiario tradizionale.
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