Dopo il dolore e lo sgomento causato dalla morte di una persona cara alla comunità, restava l’ingombrante necessità di “disfarsi delle spoglie”.
Da sempre l’umanità ha concepito modi e riti per esorcizzare quell’incompreso momento di passaggio tra la vita e le conseguenze della morte – certo per effetto di una tremenda (ancorché ineludibile) magia negativa.
Infinite sono, infatti, le testimonianze che tramandano, con chiara e spesso drammatica crudezza, le diversissime attenzioni al mondo del soprannaturale e al divino. Non solo erano pratiche diffuse ma esse sicuramente permeavano anche tutti gli aspetti della spiritualità, per cui la vita e la morte erano parte del quotidiano.
Anche la nostra Isola, come si osserva nell’ampio mondo mediterraneo che l’attornia, è disseminata di testimonianze archeologiche che rimandano a quel comune mondo magico-rituale. Pensiamo, per esempio, a quelle lastre istoriate – stele, menhir – unitamente alle superfici naturali prossime ai luoghi di culto, che almeno dal neolitico trasmettono misteriosi e pertanto affascinanti petroglifi, coppelle, concavità dette “preghiere”, cerchi, bastoncelli, schematizzazioni di vulve ecc., portatori di messaggi religiosi, cultuali ed escatologici.
Queste testimonianze antichissime di una visione del mondo ultraterreno, sono presenti in moltissimi monumenti funerari a testimoniare che la morte era considerata un aspetto della vita e viceversa. Alcuni monumenti sepolcrali antichi come domos de janas e le successive tombe di giganti sono, per loro struttura, inadatti a ricevere salme se le stesse non abbiano prima subito un precedente trattamento, che ne asporti le carni e lasci la semplice struttura ossea.
Gli inconvenienti della decomposizione, tutt’altro che trascurabili se non fosse stata esorcizzata con precedenti pratiche, nei monumenti detti, ne rendevano impossibile il seppellimento diretto.
Era quindi logico pensare che le necessità pratiche, informate da contenuti religiosi, filosofici ed escatologici, esprimessero pratiche rituali tese alla scarnificazione dei corpi con diverse metodiche: dall’esposizione agli agenti atmosferici o all’auspicato intervento di animali necrofagi che provvedessero a ripulire le ossa. Ciò avrebbe consentito l’utilizzo delle strutture preposte, appunto, alla cosiddetta deposizione secondaria, che si sostanziava in una raccolta delle sole ossa, dalle quali si possono talvolta ricevere importanti informazioni antropologiche.
Per esempio si può addurre l’esito dello scavo archeologico effettuato dalla dottoressa A. Foschi Nieddu, che nel 1974 ricevette l’incarico di studiare i reperti provenienti dalla tomba I di Filigosa presso Macomer. Oltre numerosi reperti fittili attribuiti alla cultura eneolitica proprio in questa tomba individuata e denominata Filigosa, dallo scavo provenivano, appunto, una gran quantità di ossa umane, che erano state esaminate dall’anatomo-patologo Franco Germanà.
Egli, da un’analisi preliminare osservava che una parte di queste ossa era combusta sino al midollo, mentre in altre aveva notato tracce di scarnificazione, segnalate dalle profonde scalfitture restate sulla loro superficie. Alla luce di tale autorevole parere, si potrebbero azzardare diverse conclusioni.
In primo luogo, si può osservare che i metodi di scarnificazione utilizzati erano almeno due: il fuoco e l’esposizione dei cadaveri all’azione di uccelli e animali necrofagi. Infatti, le profonde scalfitture osservate escludono l’intervento umano, secondo l’esperto parere di F. Germanà.
Lo stesso monumento suggerisce rispetto e attenzione a questi riti. Infatti nella cella A sono presenti un letto funebre e il focolare. Se ne può quindi dedurre che un’eventuale operazione di scarnificazione non sarebbe mai stata affidata a mani così maldestre da produrre le “scalfitture” improprie.
Il territorio dove è ubicata la tomba si presta facilmente ad attuare dei trattamenti sui cadaveri per opera di grifoni, corvi, falchi e altri animali necrofagi. Ci troviamo infatti ai piedi delle ultime propaggini della catena del Marghine dove le numerose balze basaltiche costituiscono l’habitat naturale di diverse specie di uccelli rapaci. Una roccia che sovrasta l’abitato di Birori è detta “Sa Rocca de Niu Corbu”: la roccia del nido del corvo.
A questo proposito è utile citare il particolare sito di Carraxioni, sulla montagna di Aritzo dove, davanti alla tomba di giganti omonima, a una sufficiente distanza è stata collocata ad arte una grande lastra, su un affioramento roccioso, che segna il crinale del luogo. Un distinto gradone mette ancor più in rilievo la lastra e va chiaramente incontro all’esigenza di favorire il decollo dei grandi rapaci, anche se appesantiti.
La ricerca di queste rare ma importantissime emergenze, ha dato risultati molto interessanti: alcuni di questi siti sono stati segnati in modo chiaro e indelebile da coppelle, coppelline, cerchi concentrici, e motivi angolari diversi, come chevron contrapposti a formare dei rombi: simboli analoghi in numerosi altri contesti non necessariamente legati ad ambienti funerari. Non deve stupire che i petroglifi, nella loro grande varietà, fossero considerati simboli di fertilità e rigenerazione e quindi logicamente presenti anche in momenti di vita: di fatto dimostrano che la morte fosse uno degli aspetti inscindibili dalla vita.
Uno di questi luoghi, che riassume forse tutte le caratteristiche opportune per la scarnificazione dei cadaveri, si trova all’interno di un’emergenza rocciosa in località Lottoniddo (Dorgali), nella vallata di Isalle: nella roccia è stata realizzata una cavità – forse sfruttando precedenti vuoti naturali – cavata e acconciata al modo di una camera di domo de janas, accomodata nelle pareti laterali alla maniera delle grotticelle artificiali neolitiche. Il pavimento granitico superstite è ricoperto dai citati segni cultuali.
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