Disponibile da Settembre 2020, il nuovo numero 57 di Sardegna Antica
In prima di copertina: La Dama de Baza, Spagna, Museo Arqueologico Nacional Madrid.
Questo numero della Rivista giunge in ritardo, in quanto la malattia covidale ha ostacolato per mesi tutte le attività umane.
Per qualche tempo, l’incertezza per il futuro ha stornato l’attenzione di ognuno da tutto ciò che non fosse in diretto rapporto con l’essenziale e con la sopravvivenza.
Oggi, seppure nessuno di noi possa dirsi ancora certo del futuro, abbiamo qualche robusto punto fermo e qualche speranza in più: e la Rivista rivede la luce, finalmente, perchè almeno qualcuno ha ripreso a scrivere e a leggere…
Inquadrato cronologicamente l’argomento generale, delineate le prime origini e la simbologia comune, oltre alle più antiche motivazioni primarie, si può finalmente affrontare quella parte del fenomeno espressivo artistico che riguarda la Statuaria Italica, con la speranza di comprenderla meglio nella sua fertile abbondanza e varietà.
I Piceni
“Piceni” è un nome esoetnico, tardo, imposto dai Romani e dai Greci (con la derivazione mitologica da “Pikus”, Marte): essi chiamavano se stessi “Safini” ed erano di lingua Osca, indoeuropea. Il “Safnio” – Sannio dei Romani – s’estendeva dai Monti Sabini ad Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata, fino alla Calabria. Avevano fama d’essere grandi guerrieri e mercenari molto affidabili. I Romani estesero il termine “Sabelli” agli Osco parlanti (Peligni, Vestini, Marrucini e Marsi), oltre che a popolazioni sannitiche (Sanniti, Frentani, Sidicini, Lucani, Apuli, Bruzi).
La popolazione italica dei Piceni era stanziata sulle coste del mar Adriatico. Di essa ci è pervenuta l’opera che per almeno 40 anni (dal 1934 al 1974) fu considerata l’unica rimasta e la più monumentale dell’arte italica: il guerriero di Capestrano, alto 223 cm e databile al VI secolo a.C.
“Dal 1934, quando fu scoperta, fino al 1974, data della scoperta delle statue di Mont’e Prama.
La statua calcarea, sorretta da due evidenti puntelli laterali, decorati da due lance incise, raffigura un guerriero a dimensione maggiore del normale, con gioielli ed armi da parata. Si tratta probabilmente della rappresentazione di un defunto illustre, posta come segnacolo per la sua tomba. L’anatomia della figura umana non è definita come nei kouroi greci, ma è più approssimativa, mentre molta più cura è stata dispensata nel raffigurare i dettagli come le armi, che sottolineano il rango e l’importanza del personaggio. Se ne parlerà di seguito più diffusamente.
La Puglia
In Puglia i Greci trovarono le popolazioni di Dauni, Peuceti e Messapi, organizzate in centri urbani dai vivi rapporti con le città elleniche sulla sponda opposta dell’Adriatico.
Tra le produzioni più significative di queste popolazioni ci sono le stele funerarie, come quelle trovate a Siponto. Scolpite in calcare locale nel VII secolo a.C., riportano varie decorazioni a graffito, che rappresentano il defunto con immagini poco naturalistiche, incorniciate da motivi geometrici.
Gli Etruschi
In Etruria, per propria fortuna geologica, erano presenti molte specie differenti di pietra: il marmo delle Alpi Apuane (che fu da essi trascurato, salvo eccezioni, fino ad epoca tarda), la pietra serena, l’alabastro di Volterra, vari tipi di tufo (tra cui il nenfro e la pietra fetida).
Così detta per via dell’odore sulfureo che emette, quando la si scalfisce.
Di conseguenza gli Etruschi avevano un’antica quanto grande familiarità con la pietra e certamente la sapevano lavorare. La usarono nell’urbanistica: prevalentemente nelle fondazioni, e nelle opere di difesa, che sono tutte tarde, con l’eccezione di Roselle (VII sec. a. C.). Gli alzati degli edifici erano realizzati in doppia palizzata di legno, riempita di ciottoli e poi intonacata, oppure in mattoni crudi d’argilla. Hanno sempre lesinato la pietra: per questo resta così poco della loro edilizia civile. Con la pietra – invece – identificavano volentieri l’edilizia funeraria: per questo le loro tombe hanno sfidato i secoli, tanto da sembrare a molti la loro unica realizzazione edilizia.
Tagliavano il tufo in mattoni e costruivano una volta ogivale autoportante, poi mettevano al centro, per sicurezza, un pilastro tanto imponente quanto superfluo dal punto di vista statico.
Dal V secolo non costruirono più le tombe con la pietra, bensì nella pietra: comparvero così le tombe a dado.
A “dado reale”, se con le 4 pareti in vista; a “mezzo dado” se solo con il fronte e due pareti laterali; a “finto dado” se presentavano solo il fronte, scolpito ed ornato
Questo numero della Rivista giunge in ritardo, in quanto la malattia covidale ha ostacolato per mesi tutte le attività umane. Per qualche tempo, l’incertezza per il futuro ha stornato l’attenzione di ognuno da tutto ciò che non fosse in diretto rapporto con l’essenziale e con la sopravvivenza. Oggi, seppure nessuno di noi possa dirsi ancora certo del futuro, abbiamo qualche robusto punto fermo e qualche speranza in più: e la Rivista rivede la luce, finalmente, perché almeno qualcuno ha ripreso a leggere…
Il punto fermo è dato dalla cognizione certa di avere l’ottima arma del distanziamento sanitario, che ha già funzionato bene e che in Sardegna è più agevole, anche per via della bassa densità di popolazione (che di per sé è già una difesa contro le epidemie!). La speranza risiede nell’eventuale prossimo vaccino (più di ventidue studi nel mondo daranno, prima o poi, qualche risultato) e nel migliore trattamento medico-farmacologico. E così oggi annunciamo i nostri programmi.
Abbiamo preparato diversi argomenti interessanti, ormai già pronti, su temi sensibili per i Sardi, che ci sono stati sollecitati da tempo e che sappiamo saranno di grande interesse non solamente per loro: tanto, che di alcuni di essi stiamo già programmando un’edizione sotto forma di libro…
A differenza dei numerosi ciarlatani che oggi predicano da tutti i pulpiti, noi non fingiamo di conoscere con assoluta certezza quale futuro ci attenda: ma siamo prudenti e ottimisti, e ci auguriamo che almeno ci permetta – questo futuro – la libertà di condividere con i lettori gli studi e le intuizioni circa il nostro trascorso comune nel Mediterraneo. Perché quello – il nostro passato – crediamo invece di conoscerlo abbastanza bene e di saperlo descrivere in modo convincente e appassionante.
A tutti un “ben ritrovati”, e carissimi auguri di cuore!
I caprari di Dorgali e di Oliena ben conoscevano, da sempre, lo sperduto villaggio di Tiscali, nascosto nel monte omonimo, dal ventre gravido di mistero. Era certamente tenuto in complice e “prudente” riserbo, avverso il mondo della cosiddetta zustissia.
Sa zustissia, amministrata da estranei, si configurava, dunque, più concretamente come un’immanente fonte d’ingiustizia sociale che, sorda alle tradizioni e senza giustificazioni o fondamenti concreti, sottraeva spesso padri e fratelli alle risorse affettive ed economiche delle famiglie.
Avere in serbo un rifugio personale cui ricorrere, all’occorrenza, poteva essere vitale. Questo era più spesso l’essere “bandito” nei sardi. Tiscali era, per l’appunto, un rifugio imprendibile, la cui esistenza infine trapelò imprudentemente alla fine dell’Ottocento, certo in ambito universitario, in forma quasi fantastica e mitica. Fu così che spinse un primo esponente della cultura di stato a “esplorarlo”.
Ettore Pais, era forse il maggiore fra i docenti di Storia Antica: acuto conoscitore dei classici, rivestiva un ruolo preminente in ambito accademico. Era considerato, in vita e per oltre un secolo, un “mostro sacro, mitico, irraggiungibile e intoccabile”.
Sardo di padre, piemontese di madre e di studi; era giunto in Sardegna per occupare la cattedra di Storia Romana a Cagliari. Ai suoi tempi la Paletnologia non poteva dirsi agli albori, giacché scuole europee, da oltre mezzo secolo, avevano gradualmente portato la diffusa antiquaria ottocentesca, accompagnata dai triti “pregiudizi fenicio-egizio-greco centrici” verso una ricerca più colta, con l’aspirazione di giungere a una scientificità che, auspicata ma ancora fumosa nei cervelli, restava a maglie molto larghe, laddove, di norma, il dato tecnico era filtrato da preconcetti, sensazioni e pronunciamenti “colti e autorevoli”.
Al tempo del Regno Sardo-piemontese, ma anche dopo, in ambito preistorico – come pure in quello storico – ancora tutto procedeva dagli scritti degli autori classici per variegare di dati e interpretazioni “illuminate”, le vicende di una assai vaga fase primordiale (allora “compressa” in solo alcuni secoli) e ritenuto vagamente coevo al mondo delle cosiddette fenicerie; comunque, da tutti concepito come immediatamente precedente all’avvento “fatale” delle spade romane.
Quegli eserciti sanguinari erano visti – ma solo dai colti – come il provvidenziale giungere della “vera civiltà”, a fare da argine definitivo a un’antica barbarie diffusa tutt’attorno al Mediterraneo (occidentale in specie), ancora indistinta (tra punici e trogloditi isolani), sia culturalmente sia cronologicamente.
Una “classica” foto del villaggio di Tiscali. Si nota la capanna meglio conservata del villaggio, la cui forma ingannò tutti gli autori, da Pais in poi, e ancora al giorni d’oggi, molti “ricercatori”, senza elemento alcuno, ripetono che appartenga al Nuragico.
Fu così che lo storico Pais, nel 1910 operò la sua super protetta esplorazione in Barbagia, fino al mondo perduto di Tiscali. Col suo resoconto, egli mostra di essere perfettamente a digiuno di fatti archeologici e, tuttavia, esprime una prima, fatale “sentenza”, a dir poco sconcertante in sé e nelle conseguenze generazionali.
Di fatto, “lui” era un luminare e i suoi “titolati preconcetti” saranno ritenuti inappellabili e quindi pedissequamente adottati dai protagonisti della letteratura archeologica nostrana, sia nella prima metà del Novecento, sia anche – cosa ancora più incredibile – fino ai giorni attuali.
Rifugiati all’ombra del potente cattedratico, nessuno sembrò, né ancora sembra accorgersi, da generazioni, di quanto gratuite, infondate e persino assurde fossero le ispirate impressioni di quel raffinato, perfetto inesperto.
Per il Pais, Tiscali è un villaggio nuragico, bloccato alla fase in cui i romani schiacciarono, infine! ogni velleità di libertà negli indigeni “barbari …ostinati” – dice lui – poco meno che “cavernicoli”. Così ripeterono il Taramelli prima (1933) e il Lilliu poi, con i seguaci suoi (dal 1963 in poi e ancora dopo non potè ricredersi … accademicamente); così ripetono ancora oggi i suoi pedissequi succedanei contemporanei.
Un pregiudizio è sempre ascientifico, ma le conseguenze di una valutazione “autorevole” possono anche essere nefaste e, nei casi in questione, lo furono. Detto in tutta chiarezza: in archeologia, un errore non ha certo la gravità di una operazione chirurgica eseguita da un somaro maldestro e accozzato; ma resterà comunque incarnito nel tessuto sociale il mancato progresso e l’immobilità culturale.
In sostanza, voglio dire che il contenuto dell’archeologia sarda cattedratica è in buona misura fermo a una sconcertante mentalità di fine Ottocento, esondata ampiamente a contaminare il Novecento e … il Duemila.
UNA VISIONE ANGUSTA ABBAGLIATA DAI CLASSICI
Nell’ipotetica grotta di Platone, l’illusione della conoscenza concessa all’uomo era data dalla proiezione di vaghe immagini eteree di una realtà direttamente inconoscibile. Nella grotta dell’Archeologia sarda odierna non pare filtrare neanche quel crepuscolo illusorio, che a lungo fu ed è ancora motivo di tanta presunzione accademica.
Il lume posto innanzi agli occhi di cotanti miti, che dovrebbe guidare passi incerti in tanta oscurità, di fatto ha l’esito di abbagliare alquanto i presuntuosi, prima ancora di rischiararne i piedi … o poco più. A. M. Centurione esemplificava questa triste piega mentale con una esempio chiaro ed efficace:
“…lampi di fuggitivo chiarore …” illuminano una scena chiara e certa agli occhi dell’archeologo sognatore, preda di visioni, ma un attimo dopo, prima ancora che giunga il fragore dell’atteso tuono, già la scena è ricaduta nel buio più pesto. “Pertanto tutte le illustrazioni dei precitati autori, contraddicendosi nelle conseguenze tra loro, parvero lampi di fuggitivo chiarore atti a lasciare i Nuraghi in un caos di cozzanti opinioni
Le colte visioni accademiche latrate nella grotta buia dell’archeologia sarda, paiono proprio essere le manifestazioni oniriche di un’attività neuronale inconscia, non i passi di scienziati. Ogni responso autorevole pare proprio una realtà illusoria che, in sostanza, partecipa al patologico ove, orgogliosamente, si giunse perfino ad affermare tali fantasie come realtà ormai appurata e certa.
Le parole e le maniere affettate, intimamente snob, proprie di eleganti salotti da rituale del the, sono l’unico suono intelligibile nei resoconti archeologici delle istituzioni, volti spesso al non ammesso ma evidente saccheggio delle risorse pubbliche, economiche e monumentali.
Entrare nei pensieri di Ettore Pais, spigolare nelle sue parole, consente giudizi sì inequivocabili, ma non tanto d’ambito archeologico, quanto della sua visione del mondo, per così dire. Descrivendo le povere abitazioni di Tiscali dice:
“… Sono case quadrangolari formate da piccole pietre unite con fango; fra esse alcune sono edifici circolari, piccole torri aventi la forma dei Nuraghi. Dei Nuraghi non hanno però la mole gigantesca, tanto meno la struttura arcaica. Sono torrette di media grandezza, costituite anche esse con piccoli sassi cementati con fango
Poiché le capanne sono disposte/nascoste a ridosso delle pareti aggettanti di quanto resta della grande grotta crollata che le ospita, non sono concentrate al centro, in corrispondenza della grande apertura ma, inevitabilmente, sono ubicate in posti distinti, grossomodo a Est e a Ovest del grande vuoto.
Per questo Pais avanza il dubbio che di due villaggi si tratti e su essi, da storico in veste di archeologo, s’interroga: “ …Questi due piccoli villaggi quando furono per la prima volta eretti? Per quanto tempo furono abitati? Paiono a primo aspetto essere stati abitati per molti secoli. Nel fondo della conca v’è, come ho già detto, un fosso profondo. Nasce spontaneo il pensiero che ivi siano addensati e per così dire stratificati i rifiuti delle genti che per secoli e secoli vi abitarono. Le case ora circolari di tipo nuragico ora quadrangolari accennano poi ad un passaggio lungo e graduale da un sistema all’altro.
Ma per esaminare tutto questo con cura ci vorrebbe molto tempo. Occorrerebbero per lo meno varie ore, anzi non basterebbe un giorno. Bisognerebbe aver strumenti.
Ma abbiamo impiegato molto più di un’ora a salire, e non abbiamo con noi viveri. Fra i buoni amici che ci hanno accompagnato, alcuni non hanno affatto rinunciato all’idea di un lauto desinare, e questo deve essere fatto laggiù nella valle, fra le quercie, presso una fontana che sorge in un antro muccoso [si riferisce alla possente risorgiva di Su Gologone].
Essi ci fanno anzi premura di discendere: il ritorno ad Oliena od a Dorgali non impiegherà meno di cinque ore a cavallo ed arriveremo di notte, per vie in parte difficili anche per i cavalli.
Insomma, il povero studioso vorrebbe soffermarsi qualche ora per meglio comprendere la situazione che gli si para davanti, ma … le circostanze e le sacrosante esigenze logistiche glielo impediscono. Però ha motivo di dire due o tre cose importanti.
Le capanne non sono tutte tonde come “le nuragiche”; quelle rettangolari appartengono ad altri venuti dopo di loro. Sono fatte tutte con piccole pietre e fango, ma sono d’epoca differente: quelle rettangolari dirà, sono più comode, logiche ed espressione di una maggiore civiltà.
Le rotonde sono quelle locali, dei barbari Nuragici. Quelle tonde sarebbero nuragiche perché i nuraghes sono rotondi e le pochissime capanne che mostrano una struttura in elevato somigliano proprio ai nuraghi, anzi … sono proprio come piccoli nuraghes.
Vero è che la tecnica costruttiva appare proprio diversa: … esse non hanno l’imponenza arcaica [non sono fatte con i consueti massi ciclopici, insomma] e … i piccoli sassi [che le compongono, sono] cementati con fango, e con l’utilizzo di architravi di legno.
Ecco, l’acuto studioso ha dato il responso logico e compiuto: ha deciso che le capanne rotonde sono nuragiche, ma tarde, mentre le altre, evidentemente sono sì pure nuragiche ma sono il frutto di un lungo – lungo apprendimento dalle consuetudini romane.
Addossare abitazioni alle alte pareti aggettanti suggerisce una logica disposizione delle capanne, “affastellata” quasi, ma con muri lineari. Questo gli basta per dire che di sovrapposizione romana si tratta. Infatti, ben presto, l’opportuno aiuto di un “antico” allievo consente al “prof” sia di allontanare i dubbi, ove mai abbia pensato di averne alcuno, e di puntualizzare meglio il suo prezioso pensiero ancora inespresso.
“… La visita è pertanto assai frettolosa; ma l’occhio sagace del dott. Chieppo, già mio allievo nell’Università di Napoli ed ora direttore delle Scuole medie a Nuoro, scorge cocci che paiono interessanti. Con l’agilità dei suoi circa ventotto anni percorre senza difficoltà quel terreno dove ogni passo è reso malagevole da sassi, da tronchi d’albero, da rottami di ogni genere e raccoglie frammenti di vasi in cui giustamente riconosce avanzi di anfore romane. Tiscali è stata dunque abitata fino ad età storica. Assai probabilmente era già stata una stazione nell’età dei cavernicoli, nei periodi iniziali della civiltà umana, e venne successivamente occupata fino alla fine della repubblica romana almeno.”
Insomma: Tiscali non può che essere – manco a dirlo – un villaggio “nuragico” ma toccato dalla civiltà romana. Ecco la conferma: i romani, già dalla prima ora hanno lasciato tracce del loro passaggio nel cuore dell’Isola e i Nuragici, ostinati e decadenti, hanno prodotto beceri nuraghetti in tecnica simil-arte povera, tanto approssimativa che, col gergo popolare dei muratori, potremmo definirla “a conca ‘e cane” (arte povera, per i colti), non tanto diversa da quella dei ben successivi civilizzatori simil-aragonesi che, naturalmente, … ci insegneranno a fare i muri nel Medioevo.
Se si deve essere ancora più espliciti, allora è bene chiarire che, anche se Ettore Pais si atteggia ad archeologo, egli proprio non lo era (proprio come tanti suoi colleghi o estemporanei d’oggi), né certamente conosceva le ceramiche romane, né poteva avere sufficienti conoscenze per distinguerle e farle risalire alle fasi repubblicane e non imperiali.
Fermo restando che molte ceramiche “romane” (sigillate chiare, per esempio) continueranno ad essere prodotte del tutto uguali a se stesse nelle non più colonie dell’Africa settentrionale: ovvero anche quando l’impero era già decaduto da generazioni, le ceramiche al tornio possono essere ben più recenti: Altomedioevali, d’epoca bizantina o, perché no… d’epoca giudicale.
In sostanza, finora nulla di serio, né di scientifico, né, dunque, di attendibile possiamo ricavare dal pensiero di E. Pais. Le capanne tonde nuragiche sono un pregiudizio; la superiorità in comodità e la collocazione culturale delle capanne a muri rettilinei è solo una fisima; l’osmosi culturale coi romani, a Tiscali, è ancora un ulteriore preconcetto (forse grato ai romanocentrici, ma infondato); l’attribuzione delle ceramiche al periodo romano e repubblicano, infine è un atto velleitario e presuntuoso.
¡Dunque, costui ha giocato a fare il Prof , ma – in questa circostanza, come in altre d’ambito archeologico – proprio non ne aveva la facoltà, né le risorse culturali!
LE “DOTTE” OPINIONI
Riprendendo a sondare ancora le opinioni di E. Pais, ci si affaccia ora nella materia che gli era propria, dove eccelleva quale studioso di classici: indiscutibilmente il migliore della sua epoca. Quasi ad ammettere indirettamente che di Tiscali proprio nulla ha capito (¡ma… perbacco .. certamente capirà tutto ben presto, quando tornerà al suo ateneo!).
Vediamo ora altre sue frasi, forse le più “importanti”, certamente le più sconcertanti. Ecco, qui emerge il famoso Accademico dei Lincei:
[…] “Per comprendere l’importanza di Tiscali occorre prendere i classici alla mano [e lui sì … lo sa fare bene!] … studiare le pagine in cui accennano alle lotte dei Sardi contro i Cartaginesi, più tardi contro i Romani … leggere quello che ci narrano gli antichi scrittori greci della fine della Repubblica e del principio dell’Impero […]”.
Molti dubbi avanzerei sui resoconti di autori romani riconducibili in modo specifico a Tiscali… figuriamoci sui resoconti dei Greci. ¡Ma perché proprio i Greci, mi chiedo! Vien da pensare, temerariamente, che il pensatore volesse alludere a quanto fossero informati di Tiscali e agli inesistenti resoconti stilati quando i grandi portatori di civiltà, Romani e Greci naturalmente, erano presenti in Sardegna.
Costoro hanno pure concesso – proprio loro finalmente – un grado di civiltà a quella progenie di cavernicoli, suggerendo a questi – si pensi – … ¡l’uso delle “comode” capanne quadrate! In primo luogo mi chiederei che fine avevano fatto i Punici, quegli odiosi nemici di Roma che già prima avevano occupato la Sardegna (tutta la Sardegna) con almeno due campagne militari (Malco e i fratelli Magonidi: Amilcare e Asdrubale, antenati del più famoso Annibale) già durante la seconda metà del sesto secolo a.C., naturalmente) e la detennero a lungo, come chiaramente affermano i due trattati con Roma, fino al 238 aC.
In secondo luogo, non mi capacito delle sue affermazioni giacché, egli riconosce che tutto mostra d’essere in difformità dalle “cose nuragiche”: dimensioni dei massi e degli edifici, l’uso dell’argilla come aggregante, uso di tronchi e frasche per architravi e coperture, ma tutto … – egli sentenzia – è certo nuragico. Perché?
¡Ma perché crede incrollabilmente che i Nuragici furono massacrati dai Romani! Pensa anche che loro – i suoi gloriosi conquistatori – portatori delle capanne quadrate – occuperanno l’Isola strappandola ai Punici ora alleati dei Nuragici (i Sardopunici), proprio come si è sempre saputo, in ambiente e come incredibilmente ancora taluno – fin troppo spesso – ripete.
Questi ultimi sono forse i più perniciosi dei suoi pregiudizi, che hanno lasciato una brutta piega mentale attraverso la prima parte del Novecento (con A. Taramelli prima e M. Pallottino poi), fino ad essere sacralizzati e resi definitivi col verbo “geniale” di G. Lilliu, dal secondo dopoguerra eq uindi – ancora fatti persistere nei decenni del Duemila tramite i suoi succedanei.
Gli effetti che ancora lasciano profonde sacche di ambiguità nella cronologia attuale consiste nel fatto che proprio Ettore Pais ha “schiacciato” l’avvento dei Romani (e dei Greci, a quanto pare) sui Nuragici. Questo pregiudizio nefasto ha prodotto molti guasti, ma soprattutto due: la nostra preistoria – di poco interesse per costui e non solo – è ben presto chiusa dalle “comode” spade romane.
Tutto ciò che appartiene all’Età del Ferro (compresa la Protostoria con influssi cosmopoliti da tutti il Mediterraneo), tutto… è indelebilmente incollato a un Nuragico che era già morto da oltre cinquecento anni alla data dell’avvento punico e da almeno un millennio dalle trionfanti stragi romane. Quegli impareggiabili vincitori hanno dunque combattuto con… i fantasmi dei Nuragici.
¡È certamente tutto vero, sia chiaro,… ma solo nella mente degli accademici nostrani!
Un’occasione per visitare alcuni tra i più noti Nuraghes del centro Sardegna. La visita ai monumenti sarà guidata e commentata dall’Archeologo Prof. Giacobbe Manca (Direttore di Sardegna Antica)
Di seguito il programma della giornata
ORARIO E PUNTO D’INCONTRO: – Domenica 28 Giugno – Ritrovo: ore 10.00 parcheggio Stone Art Cafè, Ghilarza – Pranzo libero al sacco nei dintorni del lago Omodeo
Gli spostamenti tra i vari monumenti saranno effettuati con auto propria
Contributo di partecipazione 20€ a persona Cosa è compreso: – Visita guidata e commentata dall’Archeologo Prof. Giacobbe Manca (Direttore di Sardegna Antica) – Abbonamento a Sardegna Antica (per 2 anni) + 1 arretrato omaggio PS. In alternativa, per chi lo volesse, o per chi è già abbonato è possibile richiedere un libro di pari valore oppure 4 arretrati a scelta(vedi biblioteca) I fascicoli saranno consegnati personalmente a tutti i partecipanti
DOTAZIONE: – Scarpe da trekking o scarpe chiuse – Acqua e occorrente per il pranzo al sacco
Per informazioni scrivere a redazione@sardegnantica.org
Esistevano già altre due opere analoghe, dal 2004; una dello stesso Giacobbe Manca, intitolata Il nuraghe Losa e la Civiltà nuragica, Ed. Iskra, accurata, di 110 pagine, 75 foto colore e BN, con schemi ricostruttivi, ecc. (non più stampata). La seconda piccola guida, stesso anno, con ottima iconografia – unica la foto documentaria del pozzo sacro del Losa, ora scomparso – di Vincenzo Santoni, Collana “Sardegna Archeologica” della Ed. Delfino, con circa 40 pagine reali (più 24 pp. occupate dalla Bibliografia, Glossario, Sommario, Indice ed Elenco pubblicitario delle Collane Delfino), 9 €
“Guida al Nuraghe Losa e introduzione alla Civiltà dei Nuraghes”, invece, è un libro “vero”. Non si tratta solamente di una guida descrittiva fatta perché il turista, dopo la visita, sappia almeno raccontare che cosa ha visto. È molto di più. In 120 pagine convincenti (di cui solo 8 utilizzate per Indice, Glossario e Bibliografia completi e precisi, seppur stampati in caratteri opportunamente più piccoli e senza spazi sprecati), un’iconografia strepitosa include anche foto aeree estremamente utili, didattiche ed affascinanti, di grande impatto visivo.
– Il libro, garbato e scorrevole, ha spesso il piglio didattico di una (ottima) guida, con fotografie che presentano funzionali rimandi grafici alla pianta del Nuraghe e permettono di essere sempre ben orientati ed informati su dettagli che possono sfuggire anche ad osservatori attenti.
– L’Autore mette subito in chiaro l’argomento, spiegando con chiarezza al lettore la gran differenza corrente tra ciò che può essere definito ‘megalitico’ e ciò che invece rientra nel ‘ciclopico’.
Si tratta di una distinzione fondamentale: cronologica vista l’enorme distanza temporale che separa le due metodiche (il megalitismo risale addirittura al Neolitico); ma anche d’uso pratico, visto che il megalitismo è – in prevalenza, se non addirittura unicamente – una manifestazione cultuale.
Si prende inoltre la responsabilità delle proprie opinioni ed osservazioni fin dalle prime pagine, accompagnando il lettore tra le proprie ipotesi circa i possibili soppalchi lignei, circa l’uso ed il disuso dei passaggi ‘segreti’ ora obliterati, le metodiche di edificazione e molto altro.
Ma – soprattutto – l’Autore ha il coraggio di formulare un’ipotesi circa la datazione dei Nuraghes in genere (e del Losa in particolare), che egli sostiene essere differente da quella ‘ufficiale’, sostenuta stancamente dagli archeologi cattedratici sardi più per pavido conformismo che per solida convinzione…
Si sofferma su dettagli costruttivi importanti ed evidenti del Losa, che però – stranamente – sono sfuggiti a colleghi archeologi considerati di vaglio, pur essendo le strutture state sempre sotto gli occhi di tutti.
Riporta una rassegna storiografica e fotografica di tutti i ricercatori che si sono interessati del Losa nel corso del tempo: il Della Marmora, lo Spano, il Pinza, il Taramelli ed infine il Lilliu.
Riferisce della grave mancanza di studi scientifici di ampio respiro sul Losa e della presenza invece solo di studi archeologici che definisce – con arguzia – “puntiformi”. Non lesina le critiche: una, per esempio, proprio all’edificazione dell’edificio che serve da ‘museo’ in loco, costruito a suo tempo proprio sull’area archeologica del nuraghe.
Infine, offre 10 schede (che egli definisce “quadri”) circa generalità, architettura, statica, edificazione, teorie vecchie e nuove, tesi militarista, destinazione,approfondimenti e sintesi. Il più interessante – a mio giudizio – è il quadro 8: esso descrive ciò che avveniva nelle altre parti del Mondo Antico, contemporaneamente al primo nascere, al vivere, all’evolversi e modificarsi del grande e vetusto gigante.
Solo due piccole note negative, che sono errori tipografici: a pag. 114 una nota a piè di pagina mancante lascia nel dubbio.
Nella tavola cronologica a pagina 115, il periodo tra 2.200 a.C. e 1600 a.C. è ripetuto due volte. Lettura, quindi, consigliata ai lettori ignari dell’argomento nuragico, ai quali servirà da introduzione. Ma anche quelli già esperti dell’argomento vi troveranno motivi di forte interesse, nuovi spunti e – probabilmente – anche alcune notizie documentate delle quali erano all’oscuro.
Recensione di Franco Romagna
[…] formato tascabile, una bella copertina a colori con vista aerea del complesso nuragico; immagine, che si incontra subito dopo, a volo d’uccello, con schematizzati i percorsi per raggiungere il sito da diversi punti dell’isola. La guida si articola in una parte descrittiva generale del monumento, delle sue fasi costruttive e delle campagne di scavo susseguitesi fino allo stato attuale; e in dieci quadri tematici di approfondimento sulla Civiltà Nuragica: guide nella guida.
L’autore affronta i problemi che ogni studioso si pone davanti a tale emergenza archeologica e architettonica col raziocinio del tecnico, la pazienza del filologo e l’amore dello studioso. Le immagini a colori e in b/n con didascalie esplicative, forniscono il valido supporto necessario a chi legge e si addentra nei meandri della parte centrale del monumento tra passaggi, spalti, garrite e merli oltre che nei cortili, tra torri esterne, muraglie, capanne e testimonianze di epoche successive.
I confronti con altre realtà archeologiche servono a chiarire aspetti generali e particolari di tecniche costruttive che si riscontrano in nuraghi molto lontani tra loro. G. Manca nella sua Guida del Losa mette in risalto le diverse fasi costruttive a partire dal basamento formato da grandi pietre grezze (sicuramente una preesistenza) e il prosieguo dell’alzato con pietre di minor dimensione collocate in bell’ordine isodomo.
Le ogive, i corridoi, e i vani nascosti sono spiegati con chiarezza nella loro funzionalità. Nel 3° quadro si dice della Statica delle ogive con un breve cenno sul sistema di costruzione delle stesse […] un’informazione di carattere generale, giacché la statica necessita uno studio specifico che non può farsi in una Guida, se non per sommi capi.
Nel Quadro 4° sono date alcune nozioni sul metodo di costruire un nuraghe con riferimenti a studiosi del passato. Interessante la messa in evidenza dell’inutilità strutturale dell’architrave che, a ben vedere, porta solo se stesso.
Si ipotizza una funzione ornamentale e/o una dimostrazione di potenza e capacità costruttiva: come nella porta dei leoni a Micene. Notevoli: la cronologia del Losa inserita in quella generale nuragica; le varie campagne di scavo; le emergenze attorno al nuraghe che testimoniano il ciclo di vita degli abitanti dal luogo di culto (pozzo sacro); alla commemorazione dei morti (tomba dei giganti).
Con “cenni storiografici” l’autore fa percorrere il lungo cammino della ricerca che inizia con Alberto Della Marmora e G. Spano, quindi Pinza e Taramelli per arrivare a Lilliu, cioè ai giorni nostri.
Di grande aiuto al visitatore del complesso archeologico e al lettore sedentario sono: il Glossario e le Tavole orientative. Piacevole la lettura.
Proseguiamo la pubblicazione dei contenuti cinematografici prodotti o co-prodotti dal Centro Studi Culture Mediterranee che, come sapete, è l’editore della rivista Sardegna Antica. Oggi è la volta del trailer di “Giuseppe, pastore di periferia“, il terzo episodio del film di Ignazio Figus, “Trittico Pastorale“, un documentario incentrato su diversi aspetti della cultura pastorale della Sardegna centrale. Lo spirito di questo lavoro è quello di analizzare il concetto di cambiamento (particolarmente evidente in questo episodio che racconta di un pastore “urbano”), rappresentandolo come componente funzionale della narrazione. La riflessione è quindi sull’essere pastori oggi. Ricordiamo ai lettori di Sardegna Antica che il DVD di questo film, insieme ad altri documentari e alla produzione editoriale del CSCM, sarà disponibile nelle prossime settimane nell’apposita sezione “Store” del sito della rivista. Intanto buona visione a tutti!
Sappiamo che saremo costretti a rimanere a casa per un pò di tempo. Da parte della redazione e come gesto di buona volontà in questo momento difficile, abbiamo deciso di mettere a disposizione dei lettori alcuni materiali pubblicati dal Centro Studi Culture Mediterranee di Nuoro. Inauguriamo questa serie con TRANSUMANZE, film-documentario di Ignazio Figus prodotto da condiVisioni e concesso su licenza al Centro Studi Culture Mediterranee
Trittico pastorale è un film-documentario costituito da tre parti, incentrato su diversi aspetti della cultura pastorale della Sardegna centrale. Lo spirito di questo lavoro è quello di analizzare il concetto di cambiamento, rappresentandolo come componente funzionale della narrazione. La riflessione è quindi sull’essere pastori oggi. Cosa significa svolgere la propria attività lavorativa nella società sarda contemporanea?. Fare il pastore infatti prevede necessariamente una competenza che può essere appresa esclusivamente sul campo. Il pastore è ancora l’uomo che vive sul territorio come elemento armonico, una mediazione tra le proprie esigenze e quelle della natura che lo circonda. Cosa avviene quando questo meccanismo viene meno, cioè quando la modernità modifica un equilibrio senza ripensarlo? Il film si addentra quindi nel difficile compito di raccontare questa fase così delicata concentrandosi sul vissuto del pastore.
“Transumanze” è il primo episodio del film “Trittico pastorale”. Focalizzato sulla transumanza, è realizzato tramite la seguente metodologia di lavoro: la documentazione della transumanza vera e propria ossia il trasferimento del gregge dalla Baronia al Supramonte, dalla pianura alla montagna, è stato filmato per poi essere riproposto l’anno successivo ai protagonisti, che si lasciano andare a un commento delle riprese e una interessante serie di racconti sulle transumanze dagli anni ’50 sino ad oggi. Il video diventa quindi lo stimolo per la discussione.
Come ogni rivista che si rispetti, anche Sardegna Antica ha il suo sito web: proprio questo che stai leggendo ora.
Da tempo era diventato necessario sopperire alla mancanza di informazioni online sulla rivista, sui contenuti, sulla reperibilità e la distribuzione.
La nostra rivoluzione digitale parte da qui: il nuovo sito è stato concepito per diminuire le distanze tra la redazione e i lettori e facilitare la comunicazione.
Contenuti digitali
Lo scopo è quello di condividere una biblioteca digitale formata dai numerosi articoli pubblicati in quasi 30 anni di attività.
Inoltre, per chi ancora non conosce la rivista, o per chi vuole leggere in anticipo un estratto dell’ultimo numero, si può scaricare un’anteprima digitale da leggere su qualsiasi dispositivo: smartphone, tablet, pc.
Per scaricare l’anteprima clicca sul link qui sotto.
Da oggi abbonarsi è più facile!
Il nostro sistema di abbonamenti era diventato obsoleto: era complicato da gestire e faceva perdere un sacco di tempo (agli abbonati e alla redazione).
Prima
Per richiedere un abbonamento a Sardegna Antica bisognava recarsi fisicamente all’ufficio postale, fare la fila per ore e compilare a mano il bollettino per il pagamento. A quel punto, la redazione doveva aspettare diversi giorni (o settimane) prima di ricevere la notifica del versamento e spedire la rivista a casa dell’abbonato.
Adesso
Abbiamo semplificato la procedura e aggiornato i sistemi di pagamento. Da oggi non c’è più bisogno di fare la fila all’ufficio postale.
Puoi abbonarti tranquillamente da casa tua e pagare direttamente dal tuo cellulare, computer o tablet. Tutti i dati verranno comunicati istantaneamente alla redazione che provvederà a spedire la rivista al più presto possibile.
Cosa succede se ancora non hai familiarità con i pagamenti elettronici?
Abbiamo pensato anche a te. Se preferisci, puoi continuare ad eseguire il pagamento tramite l’ufficio postale, in ogni caso, per richiedere l’abbonamento dovrai compilare i tuoi dati sulla pagina di iscrizione e seguire le istruzioni che riceverai via email dopo la conferma.
Se qualcosa non fosse chiaro, o se avessi bisogno di ulteriori informazioni, puoi scrivere una mail a redazione@sardegnantica.org