I caprari di Dorgali e di Oliena ben conoscevano, da sempre, lo sperduto villaggio di
Tiscali, nascosto nel monte omonimo, dal ventre gravido di mistero. Era certamente
tenuto in complice e “prudente” riserbo, avverso il mondo della cosiddetta zustissia.
Sa zustissia, amministrata da estranei, si configurava, dunque, più concretamente come un’immanente fonte d’ingiustizia sociale che, sorda alle tradizioni e senza giustificazioni o fondamenti concreti, sottraeva spesso padri e fratelli alle risorse affettive ed economiche delle famiglie.
Avere in serbo un rifugio personale cui ricorrere, all’occorrenza, poteva essere vitale. Questo
era più spesso l’essere “bandito” nei sardi.
Tiscali era, per l’appunto, un rifugio imprendibile, la cui esistenza infine trapelò imprudentemente alla fine dell’Ottocento, certo in ambito universitario, in forma quasi fantastica e mitica. Fu così che spinse un primo esponente della cultura di stato a “esplorarlo”.
Ettore Pais, era forse il maggiore fra i docenti di Storia Antica: acuto conoscitore dei classici, rivestiva un ruolo preminente in ambito accademico. Era considerato, in vita e per oltre un secolo, un “mostro sacro, mitico, irraggiungibile e intoccabile”.
Sardo di padre, piemontese di madre e di studi; era giunto in Sardegna per occupare la cattedra di Storia Romana a Cagliari.
Ai suoi tempi la Paletnologia non poteva dirsi agli albori, giacché scuole europee, da oltre mezzo secolo, avevano gradualmente portato la diffusa antiquaria ottocentesca, accompagnata dai triti “pregiudizi fenicio-egizio-greco centrici” verso una ricerca più colta, con l’aspirazione di giungere a una scientificità che, auspicata ma ancora fumosa nei cervelli, restava a maglie molto larghe, laddove, di norma, il dato tecnico era filtrato da preconcetti, sensazioni e pronunciamenti “colti e autorevoli”.
Al tempo del Regno Sardo-piemontese, ma anche dopo, in ambito preistorico – come pure
in quello storico – ancora tutto procedeva dagli scritti degli autori classici per variegare di dati
e interpretazioni “illuminate”, le vicende di una assai vaga fase primordiale (allora “compressa” in
solo alcuni secoli) e ritenuto vagamente coevo al mondo delle cosiddette fenicerie; comunque, da
tutti concepito come immediatamente precedente all’avvento “fatale” delle spade romane.
Quegli eserciti sanguinari erano visti – ma solo dai colti – come il provvidenziale giungere della “vera civiltà”, a fare da argine definitivo a un’antica barbarie diffusa tutt’attorno al Mediterraneo (occidentale in specie), ancora indistinta (tra punici e trogloditi isolani), sia culturalmente sia cronologicamente.
Fu così che lo storico Pais, nel 1910 operò la sua super protetta esplorazione in Barbagia, fino al
mondo perduto di Tiscali.
Col suo resoconto, egli mostra di essere perfettamente a digiuno di fatti archeologici e,
tuttavia, esprime una prima, fatale “sentenza”, a dir poco sconcertante in sé e nelle conseguenze
generazionali.
Di fatto, “lui” era un luminare e i suoi “titolati preconcetti” saranno ritenuti inappellabili e
quindi pedissequamente adottati dai protagonisti della letteratura archeologica nostrana, sia nella prima metà del Novecento, sia anche – cosa ancora più incredibile – fino ai giorni attuali.
Rifugiati all’ombra del potente cattedratico, nessuno sembrò, né ancora sembra accorgersi,
da generazioni, di quanto gratuite, infondate e persino assurde fossero le ispirate impressioni di
quel raffinato, perfetto inesperto.
Per il Pais, Tiscali è un villaggio nuragico, bloccato alla fase in cui i romani schiacciarono, infine!
ogni velleità di libertà negli indigeni “barbari …ostinati” – dice lui – poco meno che “cavernicoli”.
Così ripeterono il Taramelli prima (1933) e il Lilliu poi, con i seguaci suoi (dal 1963 in poi e ancora dopo non potè ricredersi … accademicamente); così ripetono ancora oggi i suoi pedissequi succedanei contemporanei.
Un pregiudizio è sempre ascientifico, ma le conseguenze di una valutazione “autorevole” possono anche essere nefaste e, nei casi in questione, lo furono.
Detto in tutta chiarezza: in archeologia, un errore non ha certo la gravità di una operazione chirurgica eseguita da un somaro maldestro e accozzato; ma resterà comunque incarnito nel tessuto sociale il mancato progresso e l’immobilità culturale.
In sostanza, voglio dire che il contenuto dell’archeologia sarda cattedratica è in buona misura fermo a una sconcertante mentalità di fine Ottocento, esondata ampiamente a contaminare il Novecento e … il Duemila.
UNA VISIONE ANGUSTA ABBAGLIATA DAI CLASSICI
Nell’ipotetica grotta di Platone, l’illusione della conoscenza concessa all’uomo era data dalla proiezione di vaghe immagini eteree di una realtà direttamente inconoscibile.
Nella grotta dell’Archeologia sarda odierna non pare filtrare neanche quel crepuscolo illusorio, che a lungo fu ed è ancora motivo di tanta presunzione accademica.
Il lume posto innanzi agli occhi di cotanti miti, che dovrebbe guidare passi incerti in tanta oscurità, di fatto ha l’esito di abbagliare alquanto i presuntuosi, prima ancora di rischiararne i piedi … o poco più.
A. M. Centurione esemplificava questa triste piega mentale con una esempio chiaro ed efficace:
“…lampi di fuggitivo chiarore …” illuminano una scena chiara e certa agli occhi dell’archeologo sognatore, preda di visioni, ma un attimo dopo, prima ancora che giunga il fragore dell’atteso tuono, già la scena è ricaduta nel buio più pesto. “Pertanto tutte le illustrazioni dei precitati autori, contraddicendosi nelle conseguenze tra loro, parvero lampi di fuggitivo chiarore atti a lasciare i Nuraghi in un caos di cozzanti opinioni
Le colte visioni accademiche latrate nella grotta buia dell’archeologia sarda, paiono proprio essere le manifestazioni oniriche di un’attività neuronale inconscia, non i passi di scienziati. Ogni responso autorevole pare proprio una realtà illusoria che, in sostanza, partecipa al patologico ove, orgogliosamente, si giunse perfino ad affermare tali fantasie come realtà ormai appurata e certa.
Le parole e le maniere affettate, intimamente snob, proprie di eleganti salotti da rituale del the, sono l’unico suono intelligibile nei resoconti archeologici delle istituzioni, volti spesso al non ammesso ma evidente saccheggio delle risorse pubbliche, economiche e monumentali.
Entrare nei pensieri di Ettore Pais, spigolare nelle sue parole, consente giudizi sì inequivocabili, ma non tanto d’ambito archeologico, quanto della sua visione del mondo, per così dire. Descrivendo le povere abitazioni di Tiscali dice:
“… Sono case quadrangolari formate da piccole pietre unite con fango; fra esse alcune sono edifici circolari, piccole torri aventi la forma dei Nuraghi. Dei Nuraghi non hanno però la mole gigantesca, tanto meno la struttura arcaica. Sono torrette di media grandezza, costituite anche esse con piccoli sassi cementati con fango
Poiché le capanne sono disposte/nascoste a ridosso delle pareti aggettanti di quanto resta della grande grotta crollata che le ospita, non sono concentrate al centro, in corrispondenza della grande apertura ma, inevitabilmente, sono ubicate in posti distinti, grossomodo a Est e a Ovest del grande vuoto.
Per questo Pais avanza il dubbio che di due villaggi si tratti e su essi, da storico in veste di archeologo, s’interroga: “ …Questi due piccoli villaggi quando furono per la prima volta eretti?
Per quanto tempo furono abitati? Paiono a primo aspetto essere stati abitati per molti secoli. Nel fondo della conca v’è, come ho già detto, un fosso profondo. Nasce spontaneo il pensiero che ivi siano addensati e per così dire stratificati i rifiuti delle genti che per secoli e secoli vi abitarono.
Le case ora circolari di tipo nuragico ora quadrangolari accennano poi ad un passaggio lungo e graduale da un sistema all’altro.
Ma per esaminare tutto questo con cura ci vorrebbe molto tempo. Occorrerebbero per lo meno varie ore, anzi non basterebbe un giorno. Bisognerebbe aver strumenti.
Ma abbiamo impiegato molto più di un’ora a salire, e non abbiamo con noi viveri.
Fra i buoni amici che ci hanno accompagnato, alcuni non hanno affatto rinunciato all’idea di un lauto desinare, e questo deve essere fatto laggiù nella valle, fra le quercie, presso una fontana che sorge in un antro muccoso [si riferisce alla possente risorgiva di Su Gologone].
Essi ci fanno anzi premura di discendere: il ritorno ad Oliena od a Dorgali non impiegherà meno di cinque ore a cavallo ed arriveremo di notte, per vie in parte difficili anche per i cavalli.
Insomma, il povero studioso vorrebbe soffermarsi qualche ora per meglio comprendere la situazione che gli si para davanti, ma … le circostanze e le sacrosante esigenze logistiche glielo impediscono.
Però ha motivo di dire due o tre cose importanti.
Le capanne non sono tutte tonde come “le nuragiche”; quelle rettangolari appartengono ad altri venuti dopo di loro. Sono fatte tutte con piccole pietre e fango, ma sono d’epoca differente:
quelle rettangolari dirà, sono più comode, logiche ed espressione di una maggiore civiltà.
Le rotonde sono quelle locali, dei barbari Nuragici. Quelle tonde sarebbero nuragiche perché i nuraghes sono rotondi e le pochissime capanne che mostrano una struttura in elevato somigliano proprio ai nuraghi, anzi … sono proprio come piccoli nuraghes.
Vero è che la tecnica costruttiva appare proprio diversa: … esse non hanno l’imponenza arcaica [non sono fatte con i consueti massi ciclopici, insomma] e … i piccoli sassi [che le compongono, sono] cementati con fango, e con l’utilizzo di architravi di legno.
Ecco, l’acuto studioso ha dato il responso logico e compiuto: ha deciso che le capanne rotonde sono nuragiche, ma tarde, mentre le altre, evidentemente sono sì pure nuragiche ma sono il frutto di un lungo – lungo apprendimento dalle consuetudini romane.
Addossare abitazioni alle alte pareti aggettanti suggerisce una logica disposizione delle capanne, “affastellata” quasi, ma con muri lineari.
Questo gli basta per dire che di sovrapposizione romana si tratta. Infatti, ben presto, l’opportuno aiuto di un “antico” allievo consente al “prof” sia di allontanare i dubbi, ove mai abbia pensato di averne alcuno, e di puntualizzare meglio il suo prezioso pensiero ancora inespresso.
“… La visita è pertanto assai frettolosa; ma l’occhio sagace del dott. Chieppo, già mio allievo nell’Università di Napoli ed ora direttore delle Scuole medie a Nuoro, scorge cocci che paiono interessanti. Con l’agilità dei suoi circa ventotto anni percorre senza difficoltà quel terreno dove ogni passo è reso malagevole da sassi, da tronchi d’albero, da rottami di ogni genere e raccoglie frammenti di vasi in cui giustamente riconosce avanzi di anfore romane. Tiscali è stata dunque abitata fino ad età storica. Assai probabilmente era già stata una stazione nell’età dei cavernicoli, nei periodi iniziali della civiltà umana, e venne successivamente
occupata fino alla fine della repubblica romana almeno.”
Insomma: Tiscali non può che essere – manco a dirlo – un villaggio “nuragico” ma toccato dalla civiltà romana.
Ecco la conferma: i romani, già dalla prima ora hanno lasciato tracce del loro passaggio nel cuore dell’Isola e i Nuragici, ostinati e decadenti, hanno prodotto beceri nuraghetti in tecnica simil-arte povera, tanto approssimativa che, col gergo popolare dei muratori, potremmo definirla “a conca ‘e cane” (arte povera, per i colti), non tanto diversa da quella dei ben successivi civilizzatori simil-aragonesi che, naturalmente, … ci insegneranno a fare i muri nel Medioevo.
Se si deve essere ancora più espliciti, allora è bene chiarire che, anche se Ettore Pais si atteggia ad archeologo, egli proprio non lo era (proprio come tanti suoi colleghi o estemporanei d’oggi), né certamente conosceva le ceramiche romane, né poteva avere sufficienti conoscenze per distinguerle e farle risalire alle fasi repubblicane e non imperiali.
Fermo restando che molte ceramiche “romane” (sigillate chiare, per esempio) continueranno ad essere prodotte del tutto uguali a se stesse nelle non più colonie dell’Africa settentrionale:
ovvero anche quando l’impero era già decaduto da generazioni, le ceramiche al tornio possono essere ben più recenti: Altomedioevali, d’epoca bizantina o, perché no… d’epoca giudicale.
In sostanza, finora nulla di serio, né di scientifico, né, dunque, di attendibile possiamo ricavare dal pensiero di E. Pais. Le capanne tonde nuragiche sono un pregiudizio; la superiorità in comodità e la collocazione culturale delle capanne a muri rettilinei è solo una fisima; l’osmosi culturale coi romani, a Tiscali, è ancora un ulteriore preconcetto (forse grato ai romanocentrici, ma infondato); l’attribuzione delle ceramiche al periodo romano e repubblicano, infine è un atto velleitario e presuntuoso.
¡Dunque, costui ha giocato a fare il Prof , ma – in questa circostanza, come in altre d’ambito archeologico – proprio non ne aveva la facoltà, né le risorse culturali!
LE “DOTTE” OPINIONI
Riprendendo a sondare ancora le opinioni di E. Pais, ci si affaccia ora nella materia che gli era propria, dove eccelleva quale studioso di classici: indiscutibilmente il migliore della sua epoca.
Quasi ad ammettere indirettamente che di Tiscali proprio nulla ha capito (¡ma… perbacco .. certamente capirà tutto ben presto, quando tornerà al suo ateneo!).
Vediamo ora altre sue frasi, forse le più “importanti”, certamente le più sconcertanti. Ecco, qui emerge il famoso Accademico dei Lincei:
[…] “Per comprendere l’importanza di Tiscali occorre prendere i classici alla mano [e lui sì … lo sa fare bene!] … studiare le pagine in cui accennano alle lotte dei Sardi contro i Cartaginesi, più tardi contro i Romani … leggere quello che ci narrano gli antichi scrittori greci della fine della Repubblica e del principio dell’Impero […]”.
Molti dubbi avanzerei sui resoconti di autori romani riconducibili in modo specifico a Tiscali… figuriamoci sui resoconti dei Greci. ¡Ma perché proprio i Greci, mi chiedo! Vien da pensare, temerariamente, che il pensatore volesse alludere a quanto fossero informati di Tiscali e agli inesistenti resoconti stilati quando i grandi portatori di civiltà, Romani e Greci naturalmente, erano presenti in Sardegna.
Costoro hanno pure concesso – proprio loro finalmente – un grado di civiltà a quella progenie di cavernicoli, suggerendo a questi – si pensi – … ¡l’uso delle “comode” capanne quadrate! In primo luogo mi chiederei che fine avevano fatto i Punici, quegli odiosi nemici di Roma che già prima avevano occupato la Sardegna (tutta la Sardegna) con almeno due campagne militari (Malco e i fratelli Magonidi: Amilcare e Asdrubale, antenati del più famoso Annibale) già durante la seconda metà del sesto secolo a.C., naturalmente) e la detennero a lungo, come chiaramente affermano i due trattati con Roma, fino al 238 aC.
In secondo luogo, non mi capacito delle sue affermazioni giacché, egli riconosce che tutto mostra d’essere in difformità dalle “cose nuragiche”: dimensioni dei massi e degli edifici, l’uso dell’argilla come aggregante, uso di tronchi e frasche per architravi e coperture, ma tutto … – egli sentenzia – è certo nuragico. Perché?
¡Ma perché crede incrollabilmente che i Nuragici furono massacrati dai Romani! Pensa anche che loro – i suoi gloriosi conquistatori – portatori delle capanne quadrate – occuperanno l’Isola strappandola ai Punici ora alleati dei Nuragici (i Sardopunici), proprio come si è sempre saputo, in ambiente e come incredibilmente ancora taluno – fin troppo spesso – ripete.
Questi ultimi sono forse i più perniciosi dei suoi pregiudizi, che hanno lasciato una brutta piega mentale attraverso la prima parte del Novecento (con A. Taramelli prima e M. Pallottino poi), fino ad essere sacralizzati e resi definitivi col verbo “geniale” di G. Lilliu, dal secondo dopoguerra eq uindi – ancora fatti persistere nei decenni del Duemila tramite i suoi succedanei.
Gli effetti che ancora lasciano profonde sacche di ambiguità nella cronologia attuale consiste nel fatto che proprio Ettore Pais ha “schiacciato” l’avvento dei Romani (e dei Greci, a quanto pare) sui Nuragici. Questo pregiudizio nefasto ha prodotto molti guasti, ma soprattutto due: la nostra preistoria – di poco interesse per costui e non solo – è ben presto chiusa dalle “comode” spade romane.
Tutto ciò che appartiene all’Età del Ferro (compresa la Protostoria con influssi cosmopoliti da tutti il Mediterraneo), tutto… è indelebilmente incollato a un Nuragico che era già morto da oltre cinquecento anni alla data dell’avvento punico e da almeno un millennio dalle trionfanti stragi romane.
Quegli impareggiabili vincitori hanno dunque combattuto con… i fantasmi dei Nuragici.
¡È certamente tutto vero, sia chiaro,… ma solo nella mente degli accademici nostrani!
Articolo di Giacobbe Manca pubblicato sul n.47 di Sardegna Antica