Archeologia e università

Negli anni Sessanta del secolo passato, un certo numero di noi giovani barbaricini fu felicemente parcheggiato all’università (¡u maiuscola, allora!). Con un certo senso d’inadeguatezza affrontammo quel mondo nuovo, atteso e paventato assieme. Trapelava qua e là, fra gli “altissimi” docenti, la supponenza dei giusto-collocati e – qua e là – l’opprimente olezzo d’impalpabile miseria morale e materiale: ¡inizi poco incoraggianti! Ma si paga un prezzo per crescere. Impaziente, attesi d’attingere a contenuti… che non giungevano. Non c’erano proprio, oltre le parole d’ordine. Tutto era “rivelazione”, con parole reiterate, affermazioni d’autorità e molte fiabe, condite di presunzione e così fu, tutto immutato, anche per i seguenti studi, “specialistici a parole”, tediosamente e assurdamente ripetitivi dei medesimi dogmi già ingurgitati. Le lezioni “odoravano” di catechismo e alle più che rare domande degli allievi l’esito era il nulla o il farfuglio di qualche prof arraffa-tutto, omertoso e ridanciano. In anni d’impegno e vita al lumicino, in estrema sintesi questo fu il patrimonio archeologico, morale e contenutistico da “mettere in saccoccia” nell’università parcheggio per giovani e speranze, come ben si capì in seguito

Dall’Ottocento alle grandi guerre

Dalla letteratura archeologica di un secolo precedente e oltre, a cavallo tra Ottocento e metà Novecento, galleggiava un retaggio inconsistente di autorità vanamente erudite “demandate a sapere”. Intelletti belli come “vuoti a perdere”, intrisi d’autoritarismo: patrimonio dell’antiquaria dai fermi preconcetti fenicio-egizi, calati anche in salsa biblica, con cronologie generazionali velleitarie.

Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.

Roboanti padroni delle conoscenze

Dal pensiero archeologico dell’Ottocento, caratterizzato da un elevato grado d’insipienza, giunse l’insegnamento “illuminato” di un acuto e coltissimo storico:
Ettore Pais, che “costretto quasi dall’inerzia altrui” si risolse ¡finalmente! con le sue sconfinate doti sui documenti della letteratura greca e romana, a dare soluzione ai problemi della crepuscolare Archeologia sarda. Secondo le convinzioni correnti, la “sua” letteratura non avrebbe potuto nascondere (ai soli colti s’intende), i giusti lumi sulla società “troglodita” (così la definiva), che popolò l’Isola rendendola selvaggia… giusto poco tempo prima delle “civili e salutari” spade romane.

Era uno storico di vaglia, il Pais, ma nulla-nulla capiva d’Archeologia e, tuttavia, ciò era del tutto irrilevante per le meningi dei proff d’allora (ma anche per molti che seguirono): beh… d’altronde ¡era un accademico! Dunque, il campo archeologico fu assurdamente governato, condizionato per meglio dire, da Pais, per decenni. La sua non fu arroganza, ma certamente espressione d’una ricorrente presunzione accademica, in un mare di dabbenaggine, in un settore che non gli competeva affatto. Tutti, naturalmente s’adeguarono: a lui s’ispirarono persino i succedanei del Novecento, con sicura fede volta al potente accademico sardo-torinese.

Un interrogativo imprescindibile

¿Come si è giunti, da un’archeologia umorale, basata su una storiografia inconsistente, vaga e ricca di gratuite affermazioni d’autore, a una dimensione in cui si sostiene di procedere con approcci tendenzialmente tecnici? Certo, nulla di scientifico e tuttavia si sente un clima in cui principia appena una procedura diversa, con la quale acquista rilievo la grafica del monumento esaminato: si valuta l’aspetto planimetrico e, talvolta, anche quello dell’elevato. Si trovano differenze formali fra i nuraghe apparentemente uguali, fra le tombe di giganti e persino fra le domo de janas.


Come d’incanto, Lilliu principia ad avanzare (¡mai “visto” nei predecessori!) interpretazioni inusitate e varie per le mutazioni formali o temporali, con distinzioni culturali nientemeno: spunti di cronologia relativa derivavano da osservazioni architettoniche, rigorosamente senza dimostrazioni. Lilliu lo fa col consueto piglio accademico [lo faceva anche Pais, il suo idolo], che non ammette contraddizioni o dubbi, né s’avverte (proprio non c’è) la progressione razionale o la logica inferenziale. Insomma, Egli proclama un risultato “blindato”, ma mai il nostro “genio” spiega come a esso sia giunto.

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