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Numero 59 – II Semestre 2021

Disponibile da Ottobre 2021, il nuovo numero 59 di Sardegna Antica

La fotografia dell’ultimo nuraghe rintracciato (a seguito di vaghe segnalazioni) nella Foresta Burgos, sembra suggerire che anche nell’America Latina ci possano essere i nuraghe. La straordinaria suggestione è offerta dal nuraghe Paule Ruja (Illorai).

Il Numero 59 della Rivista vede la conclusione del chiarimento didattico-scientifico sulle statue di Monti Prama, affrontato in maniera esaustiva nel numero precedente. Vedono la conclusione gli articoli di Carlo Tronchetti e Maurizio Feo, inoltre un’esegesi curata da Giacobbe Manca sull’articolo di Giovanni Lilliu apparso per la prima volta nel 1983 sul numero 2 di Sardigna Antiga e riproposto nel numero 58.

Il prossimo numero sarà d’anniversario e di quelli importanti:

Si festeggiano i 30 anni di Sardegna Antica e 40 complessivi di studi cominciati nel 1982 con “Sardigna Antiga”!

Sommario

  • Capricci al cemento – Giacobbe Manca
  • Is gherreris nuragicus de Monti Prama de Giuanni Lilliu [esegesi] – Giacobbe Manca
  • Nascita degli Dei – Rosanna Lupieri Perissutti
  • Pinna Nobilis: uno scrigno da salvaguardare – Maura Andreoni
  • Presenza ebraica in Sardegna – Giovanni Enna
  • La statuaria di Monti Prama – Aspetti e problemi (seconda parte) – Carlo Tronchetti
  • Le grandi statue sarde (quarta parte) – Maurizio Feo
  • C’era una volta… due locoe – Salvatore Pinna
  • Mario Candia e Giulia Grisi, maggiori lirici dell’800 – Peppino Pischedda
  • Geologia a Baunei – Salvatore Pinna
  • Sull’antico lamento funebre, tracce nel rito odierno (3) – Andrea Muzzeddu
  • Sotto le corone nuragiche –  risuonava la lingua di Omero? – Nello Bruno
  • La Koinè mediterranea – il cibo, le navi, le parole – Lorenzo Scano
  • Quando si dice cupola – Franco Romagna

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Nascita degli Dei

La formidabile scoperta nel 1994 di Göbekli Tepe in Turchia dell’archeologo tedesco Klaus Schmidt, che lavora allo scavo fino al 2014, anno del suo prematuro decesso, ci pone di fronte a una situazione complessa, di non facile lettura. É l’opera dell’uomo primitivo che cambia il mondo. Secondo Schmidt è una grande svolta dell’evoluzione; rappresenta il preludio al Neolitico e a tutto quello che ne consegue. La datazione è certa e oscilla fra gli 11.000 e i 12.000 anni fa. Siamo nel Mesolitico, il breve periodo intermedio tra la “pietra antica” – Paleolitico – e quella “nuova” – Neolitico. Sappiamo che le suddivisioni del tempo preistorico si scandiscono in classificazioni convenzionali per facilitare gli studiosi e per dare un senso e un ritmo al susseguirsi dei periodi. Gli uomini del Mesolitico sono cacciatori-raccoglitori seminomadi, cioè uomini che si procurano il cibo cacciando e raccogliendo tutto quello che è edibile del mondo vegetale, che occupano un piccolo spazio di tempo prima della rivoluzione neolitica. Sono indubbiamente i costruttori di Göbekli Tepe. Questo luogo è un complesso architettonico monumentale che stupisce e affascina per la potenza che emana sia dal lato materiale per il lavoro gigantesco di ingegneria costruttiva e di organizzazione della forza lavoro, sia per il potente senso del sacro che queste pietre comunicano, questo è un luogo dove il divino era evocato e vissuto, un luogo al confine del reale dove accogliere il volere e il potere degli dei.

È davanti a opere simili che prendono forma nella mente le millenarie domande (retoriche): “quando e perché e come” nasce nell’uomo il sentimento religioso, il bisogno del sacro e del trascendente. E altrettanti millenni di studi di filosofia, teologia, etica e morale hanno tentato e tentano di spiegare la nostra inquietudine davanti all’Infinito e lo smarrimento che la solitudine nel tempo e nello spazio opprime la nostra fragile condizione umana, ma ancora, ovviamente, non abbiamo risposte. Forse alla domanda “quando”, in quale fase del cammino inizia questo bisogno di sentire e spiegare l’arcano, di cercare e trovare un Creatore, di prendere coscienza della a vita umana, si può trovare la risposta nell’archeologia. Si pensa che la prima scintilla nasca nella mente dell’uomo di Neanderthal, quando mostra empatia perché si prende cura dei suoi simili colpiti da gravi menomazioni, le prove sono nelle ossa fossili di soggetti sopravvissuti a lungo dopo aver perso un arto perché aiutati a procurarsi il cibo. Ma soprattutto compie un atto davvero rivoluzionario: dà sepoltura ai morti. Forse questo uomo si è chiesto cosa sia questo “smettere di vivere” e perché e dove si vada poi… forse si può continuare da un’altra parte? Forse il corpo va protetto dai predatori, nascosto nella terra. Forse esegue i primi semplici riti per accompagnare il defunto. Forse il sacro, il divino, l’entità superiore si prenderà cura di colui che deve passare oltre.

La prima apparizione del sacro manifestata nell’opera dell’uomo viene espressa nelle grotte dipinte già molto tempo prima di Göbekli Tepe. Le più famose si trovano in Francia e anche qui come in Turchia, migliaia di anni dopo, i soggetti protagonisti della narrazione sono animali. Molto rare e schematiche sono le figure che rappresentano l’uomo . Animali, molti, magnifici, potenti, come un’arca di Noè le caverne ospitano le immagini della fauna che si aggirava in Europa intorno a 40.000 anni fa: leoni, rinoceronti, cavalli, uri, renne, mucche, tori, cervi, animali che in parte troviamo anche a Göbekli Tepe. Perché animali? Che cosa rappresentavano? Che rapporto c’era fra loro e l’uomo? E riproducendone le figure in luoghi nascosti e arcani se ne voleva carpire la forza, l’abilità, l’agilità, la naturale potente vitalità? Animali, animali… qualche volta anche l’uomo ne ruba le sembianze, come l’uomo-leone (Germania, Hohlenstein, 40.000 anni fa) o l’uomo che si cela sotto la pelle di una chimera: corna, coda, occhi sono un miscuglio di vari soggetti assemblati in questa figura che nasconde all’interno un uomo, se ne vedono le mani e i piedi, vistosi genitali e un bagliore negli occhi in fondo alla maschera che copre completamente viso e corpo (sud della Francia, grotta di Les Trois-Frères, 15.000 anni fa). Chi sono? Maghi, stregoni, sciamani che entrano nello spirito dell’animale o diventano la bestia stessa. Creature totemiche a Göbekli Tepe: ne troviamo tantissimi, questa volta scolpiti nella pietra di santuari costruiti dall’ingegno e dal lavoro dell’uomo. Spesso sono feroci o velenosi ed è ancora più misterioso il loro rapporto con l’uomo e i suoi riti. Sono passati millenni dall’epoca delle grotte dipinte di Chauvet o Lascaux o Altamira. Che cosa vogliono rappresentare ora? Nel Paleolitico superiore trasmettono forza, grazia, armonia. I protagonisti di Göbekli Tepe invece sono cupi, inquietanti, quasi macabri.La storia che raccontano sembra essere diversa, anche se altrettanto misteriosa. È proprio durante l’ultimo tratto del Paleolitico superiore che avviene un profondo cambiamento nella vita degli uomini. È questo il momento in cui l’evoluzione ci farà imboccare un percorso che ci porterà ad essere prima contadini e allevatori e poi sedentari fondatori di città. Ci sono molte teorie che cercano di fare luce sulle cause di questo grandissimo mutamento.


Arriviamo all’inizio dell’VIII millennio, quando si verifica un evento il cui significato ci è impossibile capire: non solo non si costruiscono più edifici sacri ma si dismette anche l’uso di quelli ancora in funzione: vengono celati alla vista, coperti con sassi e terra, sepolti ma non distrutti. Il santuario viene abbandonato e occultato, probabilmente dalle stesse genti che lo avevano costruito e frequentato, il motivo ancora una volta resterà un mistero. L’idea di Schmidt è che questa azione di annullamento fosse volontaria, oggi questa teoria non è accettata pienamente da qualche archeologo, si parla di cause naturali che avrebbero ricoperto il luogo come grandi smottamenti e frane con conseguente crollo degli edifici. Il mondo dei mesolitici è cambiato. Il loro modo di vivere ora si basa su un nuovo tipo di economia che li trasformerà in contadini sedentari. Il “cacciatore” perde importanza assieme ai suoi riti e ai suoi vincoli religiosi e assieme a essi scompaiono anche i suoi luoghi di culto. Prenderanno altre forme in altri luoghi. La montagna sacra, priva di sorgenti d’acqua e di spazi coltivabili, non è adatta alle nuove esigenze degli uomini e viene abbandonata. Ora c’è bisogno di terreni pianeggianti e fertili, perché l’uomo, anche grazie alla immane costruzione del tempio, ha imparato per necessità a seminare e mietere. La vita si sposta nei fondovalle, dove lo sviluppo dell’agricoltura e in seguito dell’allevamento di animali domesticati, permetterà e favorirà il grande passo verso il Neolitico.


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Capricci al cemento

Lontano antefatto necessario

L’ufficio tecnico della Provincia di Nuoro progettò (inizio anni ‘60) e attuò lavori (ultimati nel 196x), per abbreviare la contorta strada statale ottocentesca 389, che da Nuoro porta in Ogliastra (allora si passava per Fonni). “Piccola manna” fu la bretella stradale da Genna ‘e Ferru (sbocco sull’altopiano se giungi da Mamojada), al Passo Caravai (verso l’alto valico di Correboi) [S.P. 2]. Non esisteva la nuova variante alla detta S.S. 389 (scorrimento veloce… ¡a due corsie!, con l’infinita galleria sotto il detto Correboi, e i sorprendenti viadotti di Navile (tra Orani e Mamojada), interminabili anch’essi. I progetti – per legge – furono analizzati dagli Enti preposti, si deve credere: tutela del paesaggio e dei monumenti… e da essi approvati, ipotizzo. Col procedere dei lavori, furono certo visionati tracciati, come le varianti (¿di quando in quando?) da tecnici preposti. Ora si percorra la cosiddetta bretella fino alla regione Madau (detta Gremanu negli anni ‘50 – per il rio omonimo – vedi G. Melis cartografo ed E. Melis, ingegnere), dove, manco a dirlo, ci fu una sorpresa (¿prevedibile?). Alla ruspa, lungo il tracciato, si opponeva un rialzo: col suo abbattimento si travolsero, dal culmine, alcune capanne da cui sortirono – “inattese” – alcune statuine (si parlava di tre bronzetti) e cocci di vasetti non descritti. Questo si può dire sulla base del racconto, divenuto ben presto segreto di pubblico dominio a Fonni. Il ventre delle capanne restituì (voce di Dio) reperti che, da natura e descrizione, desumo dell’Età del Ferro (dal IX – VIII sec. a.C. e più giù).

In quei frangenti, anche la t.d. giganti n. 1 dell’omonima necropoli, prossima al tracciato stradale (circa 10 metri), fu avidamente demolita dal lato orientale: sparì l’esedra, via il lato Est del corpo, con relative fondazioni. I blocchi derivati dalle distruzioni delle capanne e delle tombe di giganti furono “valorizzati”, dissero alcuni operai, come vespaio sotto la strada e nel ponticello vicino, per la costruenda strada [¡così si fa, a regola d’arte, con risparmio d’inerti!]. ¡C’è da restare basiti! ¿Come si possono affermare particolari così sconcertanti? È semplice: alle testimonianze (anche se omertose) si possono confrontare, sia la realtà attuale sia gli schemi planimetrici tramandatici dai due Melis (malgrado la grafica utilizzata riveli evidenti ingenuità tipiche dei comunque neofiti in archeologia). Una prima riflessione spinge a domandare: ¿Ma, non è stato ipotizzato che la soprintendenza sapesse delle opere in corso? Il progetto esecutivo avrà certo seguito sul terreno, come dalle carte, il tracciato della edificanda bretella. Perché mai si accettò che la strada sventrasse il rialzo con le capanne (bastava volerle vedere) e in ogni caso il tracciato è colpevolmente a ridosso della necropoli di tdg, già note in storiografia, come ben si doveva sapere.

Vedere un monumento quasi integro conforta e forse entusiasma visitatori di bocca buona, che con lo stesso buon gusto sarebbero eccitati dalla sfinge di cartongesso di un parco giochi alla Disneyland.

Qui a Madau come altrove l’umanità ha perduto qualcosa d’irripetibile. Analizzando utilmente i ruderi scampati allo scempio e sottoposti a violenze, moltissimi interrogativi resteranno senza risposte. Spostando ora lo sguardo dieci metri verso Nord-Ovest dal luogo dello scempio, troviamo radicata la tomba n. 2, la maggiore della necropoli: bella e – a un primo sguardo – “quasi integra” (molti s’illudono). Ben presto s’intuisce la realtà: questo monumento è stato “baciato in fronte”, in unità col grande padre dell’archeologia isolana postbellica, dalla soprintendenza (¡alla faccia della tutela!). Bella, si diceva: banalmente si osserva invece solo un brutto fac-simile dell’originale; tutte forme ben note già da decenni, ma non si capisce ancora, né si capirà facilmente, come fosse compiutamente composta, per esempio, sia questo tipo tombale sia la facciata di Madau n. 3, lì accanto. Mai sapremo, in particolare, dove e com’era collocato il blocco in forma di trapezio isoscele, fregiato dai consueti tre incavi appuntati a un margine della base minore. Insomma, sia dal punto di vista di un “ungulato” sia per la curiosità di un turista da spiaggia, o di un archeologo somaro o non preistorico, è questo un risultato apprezzabile (¡attingono alla giusta parte di rude non scienza, atta alla loro cervice!). Da un punto di vista scientifico e sostanziale, però, si tratta del ¡grottesco massacro di un monumento! reso ormai illeggibile; resta ¡un costoso e irreparabile danno culturale attuato da chi avrebbe dovuto difendere e studiare il monumento! alla luce di questa violenza inaccettabile, ha certo poco rilievo dire che i conci ritrovati sparsi davanti alla tdg (tutti autentici) siano stati collocati in grande numero e… sottosopra stigmatizzando per i posteri (parte dei responsabili sono morti e fra un po’ lo saranno tutti) l’evidente grossolanità dell’intervento. Nella parte absidale, dove ogni concio avrebbe dovuto essere esattamente ubicato (per esempio, a convergere nella forma ogivale dell’abside), il pasticcio è sommo.

Su tutto domina il prezioso cemento, patologicamente profuso in ogni angolino (horror vacui), a recuperare la statica di un monumento ben poco elevato, ampiamente garantita in origine dall’intelligenza nuragica, implicita nell’esatta collocazione dei conci embricati con arte sapiente e progressiva nelle diverse parti dei muri a due paramenti, a bell’apposta apprestati dagli antichi. Obnubilati dalla presunzione i detti “feudatari” dell’archeologia isolana (i Kric e Kroc della situazione) hanno giocato al Lego nella variante hard, la più megalomane e disdicevole: tutto con molta presunzione, nessuna conoscenza tecnica e cemento a gogò.

…forse questa inusitata, estemporanea e obnubilata volontà ricostruttiva fu – ma è solo un sospetto – un’impellente bisogno di cancellare le malefatte dell’impresa e dei c.d. burocretini autorizzati che non controllarono, come da norma…

Credo che ce ne sia già abbastanza, ma se si volesse dare uno sguardo alla tdg n. 3 si troverà non solo una rinnovata grettezza istituzionale, ma anche ampia conferma della perfetta incapacità dei detti operatori. Sfido gli archeologi cooptati a capire il monumento, ora inchiodato (crocifisso) da ulteriori carriolate di cemento, sia nei punti oggetto di ricostruzioni demenziali (a dir poco), sia laddove si osservano inaccettabili, kafkiane, ricostruzioni ispirate a… trappole per topi. Insomma, coloro che attuarono l’intervento qui analizzato (sia pure molto sveltamente – tralasciando volutamente i fatti tecnici) erano più che scellerati. L’intervento fu altamente irriflessivo, certo non accettabile né come restauro e ancor meno come anastilosi (l’unica consentita e possibile solo in casi specialissimi).

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La statuaria di Monti Prama – Aspetti e problemi (2)

seconda parte di due (segue dal fasc. n. 58)

Sulla base dei realia a nostra disposizione si tratta adesso di cercare di proporre una lettura di questo straordinario contesto, con tutte le difficoltà che comporta il cercare di leggere una situazione sinora unica, e quindi priva di confronti, con il rischio di sovrapporre nell’ interpretazione visioni derivate da altri ambiti culturali. A questi ci si potrà riferire per valutare dissimiglianze ed eventuali convergenze. Il primo elemento che si pone all’attenzione è la massiccia presenza di statuaria a figura umana di dimensioni ragguardevoli. Le statue non sono identiche fra loro sia nei dettagli che nelle dimensioni: le loro altezze variano da poco più di cm 180 a poco più di cm 200 anche nell’ambito della stessa iconografia. Solo considerando le statue più o meno ricomposte nel restauro terminato nel 2012 e quelle rinvenute successivamente siamo almeno a 30 esemplari, connessi con una necropoli disposta a fianco di un percorso stradale e caratterizzata da tombe coperte da un lastrone litico, messa in luce per una lunghezza di circa mt 80. Assieme si trovano modelli di nuraghe ed i betili che verosimilmente segnalavano gruppi distinti di sepolture. Un apparato monumentale ostentativo di grande rilievo che vede nella statuaria umana il suo aspetto più significante, e per cercare di comprenderlo appieno dobbiamo affrontare il complesso e dibattuto problema della sua cronologia.
Appare evidente che lo scavo della discarica in cui i frammenti scultorei sono stati rinvenuti fornisce dati solo sull’epoca di formazione della discarica stessa, che abbiamo già indicata tra il IV ed il III sec. a.C.. Al suo interno, considerate le modalità di formazione del deposito, si trovano ovviamente anche materiali più antichi che risalgono all’VIII sec. a.C. che indicano come la zona fosse frequentata in quel periodo. Le sepolture entro i pozzetti allineati lungo la strada si sono rivelate priva di corredo, tranne la tomba 25 Tronchetti, nella quale sono stati rinvenuti i resti di una collana con vaghi in pasta vitrea, cristallo di rocca, bronzo (tra cui un frammento della lama di una lunga e sottile spada, arrotondato e forato), e un sigillo scaraboide; il corredo è stato convincentemente collocato da Minoja nel corso dell’VIII sec. a.C. (Fig. 29).
Altri dati desunti dall’analisi stratigrafica interessano la situazione delle tombe più antiche, quelle spostate ad Est del filare monumentale. Ceramiche rinvenute sia in alcune sepolture che al di sotto di piccole massicciate in pietra che ricoprivano alcuni gruppi di pozzetti portano ad una datazione che oscilla tra la parte terminale del Bronzo Finale e la prima Età del Ferro, sembra con una maggiore presenza di oggetti riferibili a questa fase, che trovano un sostanziale riscontro cronologico con la datazione del vano B, cui abbiamo accennato sopra.

Sono stati poi condotti esami di datazione al 14C su resti ossei di alcune tombe. Quelli pertinenti alle sepolture degli scavi 1975-19793 direi che sono scarsamente affidabili, in quanto le ossa non furono prelevate con le indispensabili modalità di attenzione alla non contaminazione dei reperti, e la loro vita nei depositi, con vari spostamenti in contenitori non sterili, prima delle analisi rendono poco cogente l’arco cronologico indicato.
Ma anche i risultati delle analisi successive invitano alla prudenza. Sono state infatti effettuate numerose datazioni su reperti dalle tombe e dalla zona circostante che avrebbero dovuto fornire un arco di tempo di datazione assoluta. Purtroppo, come riconosce con obiettiva chiarezza Alessandro Usai, le risultanze di queste analisi vanno prese con molta, ma molta, cautela, per evidenti incoerenze. Ad esempio: due analisi ripetute sullo stesso reperto nello stesso laboratorio hanno restituito date distanti fra loro di circa 100 anni; le date offerte da tombe strati- graficamente omogenee sono risultate diverse tra loro; alcune datazioni sono poi assolutamente inattendibili, quale quella di una tomba a pozzetto del tipo più antico datata in piena epoca punica. Infine analisi sugli stessi campioni effettuate presso laboratori diversi hanno dato datazioni diverse. In questa situazione conviene rimanere ancorati ai dati offerti dallo scavo e dallo studio dei purtroppo pochi materiali rinvenuti, che restituiscono questa sequenza, ancora con larghe lacune, come se di un libro ci rimanessero l’indice, alcune pagine isolate e qualche gruppo di pagine consecutive, da cui ricavare l’intera storia.

È ovvio, ma appare opportuno e doveroso ribadirlo, che la ricostruzione presentata non pretende di essere “verità rivelata” fissa e immutabile. È solo un’interpretazione basata sui dati finora a disposizione e su quanto sappiamo dell’ideologia di diverse strutture sociali del Mediterraneo in questo ambito cronologico. Non è detto che future indagini non possano portare a modifiche e mutamenti, ma questo rientra nel normale processo scientifico: quanti più dati abbiamo, più siamo in grado di ricostruire le situazioni antiche, di cui riusciamo ad avere unicamente frammenti .

Miti e leggende moderne

Il grandissimo clamore mediatico suscitato dalle statue di Monti Prama deve la sua origine da diversi motivi ed ha avuto esiti differenziati, utili e corretti taluni, sinceramente discutibili altri. Non rientra nelle mie competenze discutere a fondo dell’aspetto sociologico della ricaduta del fenomeno Monti Prama nella situazione sarda contemporanea; questo travalica le mie conoscenze e chi è interessato al problema potrà utilmente leggere i migliori contributi apparsi su questo argomento ad opera di Roberto Sirigu. È opportuno, invece, fare chiarezza su alcune controversie e sfatare talune, molto diffuse, leggende metropolitane. Iniziamo dalla denominazione giganti per le statue, denominazione ampiamente contestata e di cui è stata proposta la sostituzione con eroi. Le statue sono gigantesche? In effetti no. Sono superiori alla statura umana (soprattutto di quel periodo) ma non sono gigantesche. Il significato di “giganti” non è riferito tanto all’apparenza fisica, ma a come venivano percepiti i defunti e la loro rappresentazione da chi attraversava la necropoli. Una diffusa diceria è la narrazione, da molti (troppi) condivisa, di come le statue siano state nascoste a tutti e occultate nei depositi del Museo di Cagliari per oltre trent’anni. Abitualmente si dice che ciò è stato fatto per tenere nascosta al mondo la scoperta più importante del secolo che illuminava la grandezza della civiltà sarda. In tutto ciò non esiste praticamente niente di vero…

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La statuaria di Monti Prama – Aspetti e problemi (2) Leggi tutto »

Editoriale numero 58

Il Numero 58 della Rivista tratta finalmente un argomento a lungo sollecitato dai lettori di Sardegna Antica. Mira a un bersaglio molto ambito: un aggiornato chiarimento didattico-scientifico sulle statue di Monti Prama, cui si giunge dopo una “preparazione” sviluppata nei due numeri precedenti. Sarà – crediamo, immodestamente – un numero da collezione, unico e irripetibile, nel quale le Grandi Statue Sarde sono un argomento di gran peso, in tutti i sensi. Ad onta della sintesi, non tutto il ponderoso argomento ha potuto trovare posto in un unico numero. Alcune imprescindibili considerazioni conclusive seguiranno nel fascicolo n. 59.


Molte ipotesi popolari, false e strumentali, imprecise o favolistiche, troveranno definitiva confutazione in queste pagine, seppure esse fossero mai state credute vere in passato. Come sempre, ogni autore si assume la responsabilità culturale di ciò che afferma. Le argomentazioni proposte ci sembrano convincenti, e già questo sarà un merito: perché se, da una parte, è inaccettabile che Scienza e Storia siano piegate a interessi politici e/o commerciali, d’altra parte non si deve permettere che un tema culturale di vero interesse mondiale sia ridotto a strumento tanto provinciale e identitario da scadere in discussioni dai toni accesi e incongrui, coi tipici, rozzi modi dell’ignoranza più ingovernabile e sanguigna. I nodi culturali e cronologici, d’antica origine, sono personali dei singoli autori, come già detto.

Ci è sembrato giusto ripubblicare qui l’articolo originale, in Campidanese, con cui Giuanni Lilliu comunicò, nel 1983, per la prima volta in termini divulgativi, sia la scoperta delle statue sia i suoi significati “ufficiali”. Vale la pena perché del fascicolo, è giusto notare, si vendettero tante copie, ma non moltissime. [Per i pochi che non hanno consuetudine col sardo, la traduzione in Italiano è qui proposta, a fronte, a cura di G. Manca].
“Sardigna Antiga”, in origine, oggi Sardegna Antica C.M., nell’occasione dedicò alle Statue la copertina, che ricompare in queste pagine. ¿Troverà motivo di “pace” chi ancora sostiene un generale e voluto occultamento? Tuttavia, ¡resta pur vero che ci furono lunghi anni di attesa, tentennamenti e disguidi! Quel ritardo, semplicemente chiosa ed esemplifica le grandi difficoltà – non economiche! – in cui si dibatte tutta l’archeologia italiana e specialmente quella sarda, da tempo agonizzante.


Un inedito articolo di C. Tronchetti chiarirà persino ai non addetti ai lavori il motivo per cui noi riteniamo che egli sia da considerarsi “il vero scavatore” di Monti Prama. Altro è dire della misura in cui ciascuno è disponibile a condividere la collocazione culturale in un ancora seguito Nuragico lilliano, sospetto per longevità. Certamente lo scritto, di prima mano, sarà gradito anche agli esperti veri.

Un punto di vista personale, da parte di chi visse in prima fila quegli anni e quell’ambiente, sarà offerto da L. Scano, che poi si adoperò, col compianto Francesco Nicosia, già Soprintendente di Sassari, per dare una svolta al crescente malcontento. Lo Scano diede una spallata politico-economica e fece riemergere le statue dagli scantinati restituendoli allo studio e al mondo.
I risultati del pessimo restauro non sono certo a lui imputabili, quanto a chi fu incaricata di sorvegliare appalti e operazioni di restauro… e non lo seppe fare.

M. Feo proporrà un originale inquadramento classificatorio del fenomeno di Monti Prama, a conclusione dei due precedenti, fondamentali articoli, comparsi nei fascicoli 56 e 57, preparatori al presente.
In questo numero trovano continuità o compimento la riflessione “Archeologia e università” (maiuscolo e minuscolo intenzionali), di G. Manca e l’argomento geologico e paleontologico di A.A. Tronci. Altri temi d’interesse sono “Il culto dei morti” di G. Enna e la ricerca di Andrea Muzzeddu, sulla persistenza di riti antichi nelle prassi funerarie moderne.
Segnaliamo, per la penna di N. Bruno, l’assoluta novità di “Linguistica storica”: una critica distaccata, foriera di una stimolante proposta che darà vigore alla tormentata linguistica isolana.
Un’antica, multiforme divinità è richiamata nella recente ricerca su Giove Dolicheno della nostra M. Andreoni, affiancata dala studiosa F. Vecchi.
L’articolo di R. Lupieri Perissutti ci offre una ricca e aggiornata sintesi dell’evoluzione “per tappe rivoluzionarie”del genere umano, dalle australipitecine fino al Sapiens odierno.
Singolare è lo scritto scientifico di M. Fregoni, “Silvestrone sardo”, che dà notizia di un primato mondiale in Sardegna, toccato da un’insospettata essenza vegetale. M. Fregoni ci affida, con scienza specialistica, la meraviglia e il sorriso: ottimo viatico per la speranza anche in queste fasi travagliate.
Si chiude l’elenco delle opere e dei collaboratori per questo numero, indubbiamente speciale, rimandando i lettori anche all’unica breve recensione, di un libro particolare per il suo messaggio umano e affettivo.


È inutile elencare le difficoltà d’ogni genere affrontate (Archivi bloccati, Musei chiusi, Fonti e contatti indisponibili, impossibilità di fare ricerche sul campo, economia languente e seri problemi di salute di alcuni autori), che affliggono anche la Redazione, in questo infinito periodo di crisi sanitaria, economica e politica.
Valga per tutto solo notare il rammarico espresso alla redazione da C. Tronchetti per non potere accedere al migliore materiale fotografico, che avrebbe voluto accludere al suo scritto inedito.
Malgrado tutto, non s’interrompe la pubblicazione di queste nostre sudate e amate pagine, che – dalla provincia più interna della Sardegna – idealmente vogliono abbracciare unitamente i lettori, la cultura sarda e quelle mediterranee.

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Le grandi statue sarde

Monti Prama

Si deve ammettere che il ritrovamento delle statue fu purtroppo presentato nel modo sbagliato, fin dal principio. Nel 1974, un quotidiano sardo annunciava trionfalmente per la prima volta, ovviamente dopo avere ottenuto le notizie da qualcuno che aveva l’autorità di diffonderle:

“Si tratta di un probabile tempio punico, con colonne fittili e lignee, capitelli, grossi blocchi squadrati di arenaria e i resti di un lastricato realizzato con blocchi di basalto scalpellato. Solo uno scavo potrà chiarire la forma del monumento. Dagli elementi finora in possesso si può ipotizzare un tempietto quadrangolare, con quattro colonne in arenaria di cui sono stati recuperati quattro capitelli decorati e basi in arenaria e basalto in cui s’infilavano travi lignee”.

È già evidente nell’annuncio di allora tutto l’entusiasmo immaginifico di oggi: nulla di quanto asserito inizialmente fu in seguito confermato dagli scavi, ma la miccia di quanto sarebbe successo dopo era stata imprudentemente accesa. Nel 1977 Lilliu escludeva che le statue potessero essere funerarie: oggi ci si orienta esclusivamente verso questa ipotesi. In particolare, il “lastricato” non è mai stato rinvenuto e così il “tempio” (ma ci si ostina ad ipotizzarli possibili). I “capitelli” erano in realtà i c.d. “modelli di nuraghi” e i “grossi blocchi” vari costituiscono reperti sparsi ancora non compresi. Non si sono rinvenute “colonne fittili” e naturalmente nessuno può aspettarsi che le colonne lignee possano essersi conservate, però le si ipotizza. Infine, il sito è interamente sardo, anche se niente affatto “nuragico” e meno che mai punico.

È ormai necessario prendere le distanze da una situazione imbarazzante, in cui troppi non addetti parlano a sproposito, spesso con toni niente affatto degni della cultura, rendendo incomprensibile ai più ogni questione archeologica e storica.

Le grandi statue sarde sono solamente personaggi maschili. Sembrano anzi ispirarsi all’iconografia di alcuni “bronzetti” sardi: quelli che portano armi. In particolare, si tratta di guerrieri con spada, schinieri e scudo, di arcieri con arco, bracciale paracorda e cardiophilax e di una terza (e duplice) categoria che nei bronzetti è molto rara, mentre nelle statue è invece preponderante: i “pugili”. Il termine adottato è probabilmente inappropriato.

Chi fece le statue

Su questo argomento c’è un discreto consenso scientifico: si pensa che gli artigiani delle statue sarde fossero di cultura siriana. La prima causa di tale attribuzione è tratta dai numerosi motivi stilistici (gli occhi tondi e grandi, la loro vernice nera, le trecce fluenti, la stola sfrangiata sulla tunica, il bordo dentellato delle calze sotto gli schinieri: tutti della medesima origine orientale, di cui esistono molti esempi). Poi, esiste il dato storico di una fuga di artigiani dalle coste della Siria, effettuata su vettori Fenici, probabilmente all’epoca del loro primo arrivo in Sardegna. Ciò daterebbe lo sbarco degli artigiani nella seconda metà del IX secolo a.C.

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Archeologia e università Seconda parte

Nella prima parte di questo scritto faccio cenno all’inconsistenza dell’insegnamento archeologico all’università di Cagliari dagli anni ’60/‘70, ancorché esso fosse – per un arcano – ritenuto di qualità e di scienza avanzata. Sostanzialmente e formalmente esso era in chiara continuità col pensiero ottocentesco, solo accresciuto dall’esperienza del primo Novecento dell’iperattivo piccone di Antonio Taramelli, di prevalente impronta antiquaria e livello erudito, non compiutamente scientifico.
Era un clima in cui le sensazioni d’autore e la tendenza a romanzare la Preistoria s’alternava a sprazzi di velleità tecniche limitate alla descrizione generica delle planimetrie dei nuraghe e di sezioni verticali riassunte in oscure ogive, battezzate tholoi, alla greca: gergo snob, nella insulsa speranza di dare una collocazione aulica (roba per pochi accademici baroni) a un mondo preistorico, in nessun modo classico, bensì di tutt’altro e incompreso orizzonte culturale. Vuote parole, in sostanza, ma non passi concreti o decisivi verso la scientificità di cui questa disciplina aveva un estremo bisogno per nascere e decollare.

S’impone, dunque, una domanda lecita: ¿da dove provenne quel subitaneo – geniale e saccente – salto qualitativo apparso nel suo manuale universitario? – ¿da dove veniva l’autorevolissimo, indiscutibile e intoccabile Verbo in questione, tutt’altro che scientifico?

Gli errori erano tutti di certo Duncan Mackenzie, della perfida Albione. Ecco, dunque, la fonte… ¿ma chi era questa penna inglese, che nessuno degli studenti mai sentì insegnare nelle sue “profetiche” emanazioni? ¿Indagava strutture murarie? (¡che gusti da muratore!).

Tali interpretazioni, sottoposte, sul campo a verifica diacronica seria e concreta, oltre gli esiti negativi ebbe quello d’inchiodare la ricerca per alcune generazioni. È pure venuto meno uno degli obblighi imprescindibili dell’Archeologia: l’attenersi a un’interpretazione intelligente, quanto più possibile oggettiva dei reperti di scavo; a essa si sostituì, invece, la fantasia e la strategia politica.

Oggi, chi sostiene d’essere più scientifico si limita alla descrizione di reperti o monumenti in lunghi elenchi noiosi e sterili. Ma questa è archeologia descrittiva: siamo ancora lontani dall’attesa Archeologia Interpretativa o colta.

Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.

¿Condividere l’Archeologia postbellica?

Aderire oggi al “contenuto dell’archeologia negli atenei” in clima post-bellico è come accettare di vivere immersi in un clima tolemaico/aristotelico, governati da una “Santa Inquisizione”, amministrata con subdolo fanatismo religioso. Insomma, nessuna proposta né apertura scientifica: nessun Copernico avrebbe potuto rivoltare le concezioni sideree… ché la ragione non conta in certi climi; intanto si dovrà temere per il proprio futuro.
Pensiamo al tempo di quell’astronomo temerario (un polacco e magari pagano) dire che siamo noi, la Terra e le fissazioni dell’umanità, a inseguire il Sole in una pazza corsa cosmica: sarebbe blasfemo.

“¿Noi, dunque, ruoteremmo intorno a lui (il dio Sole) e anche attorno a noi stessi?…¡Dio che fantasia!” Non per dire ma, si rifletta, ¡lo vedono tutti che il Sole sorge a Est e tramonta a Ovest!

Le sacre scritture poi – ¿ma li ascoltate i vati del vero Dio? – dicono che quando Gesù spirò, il Sole si fermò nel cielo… e fu buio; dopo tutto intorno riprese a muoversi…

¡La mentalità “delle sensazioni”!

Dal XVIII secolo, ma ancor più nel XIX, gli accademici: ecclesiastici o parenti di nobili feudatari, vicini a quanti avevano per certo che fosse il Sole a muoversi nel cielo, hanno osservato casualmente, qua e là nell’Isola, strani edifici a forma di tronco di cono.
A cavallo o in carrozza, li vedevano sui rilievi, in specie, alti sulle valli, quali sentinelle dimenticate delle oscure tribù preistoriche.
Li vedevano d’impianto rotondo e forma troncoconica: ciò diede loro certezza che, al pari delle torri costiere aragonesi e sabaude, fossero sentinelle e presìdi per pericoli provenienti “dal mare”. Tutti così videro, nell’Ottocento, così nel Novecento ripeterono gli archeologi. Ancora, in virtù del declamato e disperatamente difeso “Metodo storico” e anche quello del Conviene uniformarsi

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La statuaria di Monti Prama – Aspetti e problemi

Monti Prama; gli scavi del 2014 con indicati i saggi Tronchetti 1979

La statuaria a figura umana rinvenuta nel sito di Monti Prama (Cabras-OR) nella Sardegna centro-occidentale è una straordinaria manifestazione della vitalità e creatività delle genti tardo-nuragiche dell’età del Ferro, che si può definire paradigmatica per lo studio e la comprensione dei complessi fenomeni di contatto, interazione, ibridizzazione, creolizzazione (a seconda dell’ottica e della terminologia usata dai diversi Studiosi) che avvengono tra i diversi popoli nel Mediterraneo.
Prima di affrontare questi problemi è opportuna una breve presentazione del sito, della scoperta e dei dati materiali su cui possiamo basarci.

Descrizione del sito

Monti Prama (il monte delle palme, così chiamato dalla quantità di palme nane spontanee, localmente chiamato anche Mont’e Prama, Monti Pramma italianizzato in Monte Prama) è un piccolo rilevamento che appartiene alla modesta catena collinare che si trova grosso modo parallela alla costa occidentale della Sardegna, immediatamente a Nord del Golfo di Oristano, e si colloca tra questa e lo Stagno (adesso laguna) di Cabras. Si tratta di un’area geografica assai favorevole all’insediamento umano, ricca di spazi per caccia e pesca, terreno fertile, pozzi di acqua, con la massiccia mole del Monti Ferru e le sue risorse minerarie poco più a Nord, possibilità di facile approdo e penetrazione nell’interno dell’isola sfruttando la comoda valle del fiume Tirso.
Anche solo limitandoci all’età nuragica, le testimonianze della frequentazione umana sono notevolissime. I nuraghi monotorri e pluriturriti costellano il territorio, culminando nel grande complesso del S’Uraki di San Vero Milis, poco più di una decina di chilometri a Nord-Est di Monti Prama.
In questa area, tra la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro, grosso modo tra il 1000 e il 900 a.C. per parlare in termini di cronologia assoluta, viene impiantata una necropoli, la cui ampiezza totale è ancora da definire, che presenta caratteristiche di assoluta novità rispetto alla tipologia sepolcrale diffusa nell’isola durante la precedente Età del Bronzo. In tale epoca le comunità nuragiche seppellivano i loro defunti inumandoli in tombe collettive, definite “tombe dei giganti”, segnalate abitualmente da betili lavorati in modi diversi, a secondo delle diverse zone dell’isola. Le tombe di Monti Prama, invece, sono tombe singole a pozzetto; anche le poche altre tombe note databili sicuramente nell’Età del Ferro si qualificano con assoluta prevalenza come tombe a pozzetto singolo, anche se sono attestate sporadiche tombe a cassone. Quindi siamo dinanzi ad un salto culturale notevole: dalla tomba collettiva alla tomba singola; ma vedremo dopo quali sono gli elementi di continuità tradizionale che ancora permangono.

Gli interventi di scavo

Nel 1974 alcuni contadini riconobbero, in un mucchio di spietramento nelle campagne del Sinis, una testa umana scolpita in pietra. Informate le autorità, il manufatto venne consegnato alla Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano e il Prof. G. Lilliu dell’Istituto di Antichità, Archeologia e Arte dell’Ateneo Cagliaritano, effettuò con i suoi colleghi ed allievi un piccolo saggio di scavo nell’area, rinvenendo alcuni frammenti di sculture. L’anno successivo il Dr. A. Bedini, Ispettore della Soprintendenza, realizzò una breve campagna di scavo, portando alla luce alcuni frammenti scultorei e parte di una necropoli, che sarà meglio descritta di seguito.
Nel 1977 le arature portarono alla luce altri frammenti di statue e fu deciso un intervento congiunto tra l’Università di Cagliari nella persona della Prof.ssa M.L. Ferrarese Ceruti, e la Soprintendenza Archeologica nella persona dello scrivente, per verificare con precisione la situazione e programmare una eventuale congrua campagna di scavo. I risultati delle tre settimane di indagini, in un piovoso dicembre, furono più che incoraggianti, e conseguentemente si richiesero al Ministero per i Beni e le Attività Culturali finanziamenti per lo scavo, che vennero assegnati per l’anno 1979.
Nel frattempo, per motivi sui quali non è il caso di tornare in questa sede, i rapporti tra la Soprintendenza e l’Università si interruppero e lo scavo fu affidato interamente alla responsabilità di chi scrive, con la preziosissima collaborazione del Sig. G. Saba, Assistente Tecnico di Scavo della Soprintendenza, che gestì come un orologio svizzero tutta l’organizzazione logistica del cantiere con i suoi operai, al quale parteciparono anche due giovani archeologi appena entrati in Soprintendenza (Dr.ssa E. Usai e Dr. P. Bernardini) e un laureando in Archeologia (Sig. R. Zucca).

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Numero 58 – I Semestre 2021

Disponibile da Aprile 2021, il nuovo numero 58 di Sardegna Antica

In prima di copertina: Iconografia pertinente le statue di Monti Prama con la copertina di Sardigna Antiga n.1 del 1983, che per prima parlò di statue.

Il Numero 58 della Rivista tratta finalmente un argomento a lungo sollecitato dai lettori di Sardegna Antica. Mira a un bersaglio molto ambito: un aggiornato chiarimento didattico-scientifico sulle statue di Monti Prama, cui si giunge dopo una “preparazione” sviluppata nei due numeri precedenti. Sarà – crediamo, immodestamente – un numero da collezione, unico e irripetibile, nel quale le Grandi Statue Sarde sono un argomento di gran peso, in tutti i sensi. Ad onta della sintesi, non tutto il ponderoso argomento ha potuto trovare posto in un unico numero.

Alcune imprescindibili considerazioni conclusive seguiranno nel fascicolo n. 59…

[………..] Leggi l’Editoriale completo di Giacobbe Manca

Sommario

  • La statuaria di Monti Prama – Aspetti e problemi – Carlo Tronchetti
  • Le grandi statue sarde – Maurizio Feo
  • Le statue di Cabras – Il contesto culturale – Lorenzo Spano
  • Is gherreris nuragicus de Monti Prama – Giuanni Lilliu
  • Giove Dolicheno – Maura Andreoni & Francesca Vecchi
  • Archeologia e Università – In attesa di Copernico e Galileo – Giacobbe Manca
  • Di rivoluzione in rivoluzione, da ominide a uomo – Rosanna Lupieri Perissutti
  • Forme di vita ancestrali e paesaggi esotici di Baunei- Antonia Angela Tronci
  • Sull’antico lamento funebre, tracce nel rito odierno – Andrea Muzzeddu
  • Riti e culti funerari nella Sardegna antica – Giovanni Enna
  • Linguistica storica – Nello Bruno
  • Silvestrone sardo, campione mondiale della Vitis silvestris – Mario Fregoni
  • Editoriale

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Archeologia e università

Negli anni Sessanta del secolo passato, un certo numero di noi giovani barbaricini fu felicemente parcheggiato all’università (¡u maiuscola, allora!). Con un certo senso d’inadeguatezza affrontammo quel mondo nuovo, atteso e paventato assieme. Trapelava qua e là, fra gli “altissimi” docenti, la supponenza dei giusto-collocati e – qua e là – l’opprimente olezzo d’impalpabile miseria morale e materiale: ¡inizi poco incoraggianti! Ma si paga un prezzo per crescere. Impaziente, attesi d’attingere a contenuti… che non giungevano. Non c’erano proprio, oltre le parole d’ordine. Tutto era “rivelazione”, con parole reiterate, affermazioni d’autorità e molte fiabe, condite di presunzione e così fu, tutto immutato, anche per i seguenti studi, “specialistici a parole”, tediosamente e assurdamente ripetitivi dei medesimi dogmi già ingurgitati. Le lezioni “odoravano” di catechismo e alle più che rare domande degli allievi l’esito era il nulla o il farfuglio di qualche prof arraffa-tutto, omertoso e ridanciano. In anni d’impegno e vita al lumicino, in estrema sintesi questo fu il patrimonio archeologico, morale e contenutistico da “mettere in saccoccia” nell’università parcheggio per giovani e speranze, come ben si capì in seguito

Dall’Ottocento alle grandi guerre

Dalla letteratura archeologica di un secolo precedente e oltre, a cavallo tra Ottocento e metà Novecento, galleggiava un retaggio inconsistente di autorità vanamente erudite “demandate a sapere”. Intelletti belli come “vuoti a perdere”, intrisi d’autoritarismo: patrimonio dell’antiquaria dai fermi preconcetti fenicio-egizi, calati anche in salsa biblica, con cronologie generazionali velleitarie.

Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.

Roboanti padroni delle conoscenze

Dal pensiero archeologico dell’Ottocento, caratterizzato da un elevato grado d’insipienza, giunse l’insegnamento “illuminato” di un acuto e coltissimo storico:
Ettore Pais, che “costretto quasi dall’inerzia altrui” si risolse ¡finalmente! con le sue sconfinate doti sui documenti della letteratura greca e romana, a dare soluzione ai problemi della crepuscolare Archeologia sarda. Secondo le convinzioni correnti, la “sua” letteratura non avrebbe potuto nascondere (ai soli colti s’intende), i giusti lumi sulla società “troglodita” (così la definiva), che popolò l’Isola rendendola selvaggia… giusto poco tempo prima delle “civili e salutari” spade romane.

Era uno storico di vaglia, il Pais, ma nulla-nulla capiva d’Archeologia e, tuttavia, ciò era del tutto irrilevante per le meningi dei proff d’allora (ma anche per molti che seguirono): beh… d’altronde ¡era un accademico! Dunque, il campo archeologico fu assurdamente governato, condizionato per meglio dire, da Pais, per decenni. La sua non fu arroganza, ma certamente espressione d’una ricorrente presunzione accademica, in un mare di dabbenaggine, in un settore che non gli competeva affatto. Tutti, naturalmente s’adeguarono: a lui s’ispirarono persino i succedanei del Novecento, con sicura fede volta al potente accademico sardo-torinese.

Un interrogativo imprescindibile

¿Come si è giunti, da un’archeologia umorale, basata su una storiografia inconsistente, vaga e ricca di gratuite affermazioni d’autore, a una dimensione in cui si sostiene di procedere con approcci tendenzialmente tecnici? Certo, nulla di scientifico e tuttavia si sente un clima in cui principia appena una procedura diversa, con la quale acquista rilievo la grafica del monumento esaminato: si valuta l’aspetto planimetrico e, talvolta, anche quello dell’elevato. Si trovano differenze formali fra i nuraghe apparentemente uguali, fra le tombe di giganti e persino fra le domo de janas.


Come d’incanto, Lilliu principia ad avanzare (¡mai “visto” nei predecessori!) interpretazioni inusitate e varie per le mutazioni formali o temporali, con distinzioni culturali nientemeno: spunti di cronologia relativa derivavano da osservazioni architettoniche, rigorosamente senza dimostrazioni. Lilliu lo fa col consueto piglio accademico [lo faceva anche Pais, il suo idolo], che non ammette contraddizioni o dubbi, né s’avverte (proprio non c’è) la progressione razionale o la logica inferenziale. Insomma, Egli proclama un risultato “blindato”, ma mai il nostro “genio” spiega come a esso sia giunto.

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