Nella prima parte di questo scritto faccio cenno all’inconsistenza dell’insegnamento archeologico all’università di Cagliari dagli anni ’60/‘70, ancorché esso fosse – per un arcano – ritenuto di qualità e di scienza avanzata. Sostanzialmente e formalmente esso era in chiara continuità col pensiero ottocentesco, solo accresciuto dall’esperienza del primo Novecento dell’iperattivo piccone di Antonio Taramelli, di prevalente impronta antiquaria e livello erudito, non compiutamente scientifico.
Era un clima in cui le sensazioni d’autore e la tendenza a romanzare la Preistoria s’alternava a sprazzi di velleità tecniche limitate alla descrizione generica delle planimetrie dei nuraghe e di sezioni verticali riassunte in oscure ogive, battezzate tholoi, alla greca: gergo snob, nella insulsa speranza di dare una collocazione aulica (roba per pochi accademici baroni) a un mondo preistorico, in nessun modo classico, bensì di tutt’altro e incompreso orizzonte culturale. Vuote parole, in sostanza, ma non passi concreti o decisivi verso la scientificità di cui questa disciplina aveva un estremo bisogno per nascere e decollare.
S’impone, dunque, una domanda lecita: ¿da dove provenne quel subitaneo – geniale e saccente – salto qualitativo apparso nel suo manuale universitario? – ¿da dove veniva l’autorevolissimo, indiscutibile e intoccabile Verbo in questione, tutt’altro che scientifico?
Gli errori erano tutti di certo Duncan Mackenzie, della perfida Albione. Ecco, dunque, la fonte… ¿ma chi era questa penna inglese, che nessuno degli studenti mai sentì insegnare nelle sue “profetiche” emanazioni? ¿Indagava strutture murarie? (¡che gusti da muratore!).
Tali interpretazioni, sottoposte, sul campo a verifica diacronica seria e concreta, oltre gli esiti negativi ebbe quello d’inchiodare la ricerca per alcune generazioni. È pure venuto meno uno degli obblighi imprescindibili dell’Archeologia: l’attenersi a un’interpretazione intelligente, quanto più possibile oggettiva dei reperti di scavo; a essa si sostituì, invece, la fantasia e la strategia politica.
Oggi, chi sostiene d’essere più scientifico si limita alla descrizione di reperti o monumenti in lunghi elenchi noiosi e sterili. Ma questa è archeologia descrittiva: siamo ancora lontani dall’attesa Archeologia Interpretativa o colta.
Gli scrittori ottocenteschi volti al Nuragico si moltiplicano e giungono a una cinquantina (da una conta di G. Lilliu), fra cronisti studiosi e colti, scienziati di tante discipline e osservatori non sempre estranei a intenti coloniali. Si può dire che prevalessero gli ecclesiastici ma, nella seconda metà dell’Ottocento, finalmente crebbero in buona percentuale le analoghe attenzioni di laici. Nessuno si sposta, però, dal detto pregiudizio egizio – fenicio cosmico, né da risibili riflessioni sul bisogno, velleitario e insopprimibile, di stabilire quale dovesse essere la “funzione dei nuraghe”, che non sapremo mai e – in ogni caso – proprio nessuno mostrò di poter studiare con raziocinio.
¿Condividere l’Archeologia postbellica?
Aderire oggi al “contenuto dell’archeologia negli atenei” in clima post-bellico è come accettare di vivere immersi in un clima tolemaico/aristotelico, governati da una “Santa Inquisizione”, amministrata con subdolo fanatismo religioso. Insomma, nessuna proposta né apertura scientifica: nessun Copernico avrebbe potuto rivoltare le concezioni sideree… ché la ragione non conta in certi climi; intanto si dovrà temere per il proprio futuro.
Pensiamo al tempo di quell’astronomo temerario (un polacco e magari pagano) dire che siamo noi, la Terra e le fissazioni dell’umanità, a inseguire il Sole in una pazza corsa cosmica: sarebbe blasfemo.
“¿Noi, dunque, ruoteremmo intorno a lui (il dio Sole) e anche attorno a noi stessi?…¡Dio che fantasia!” Non per dire ma, si rifletta, ¡lo vedono tutti che il Sole sorge a Est e tramonta a Ovest!
Le sacre scritture poi – ¿ma li ascoltate i vati del vero Dio? – dicono che quando Gesù spirò, il Sole si fermò nel cielo… e fu buio; dopo tutto intorno riprese a muoversi…
¡La mentalità “delle sensazioni”!
Dal XVIII secolo, ma ancor più nel XIX, gli accademici: ecclesiastici o parenti di nobili feudatari, vicini a quanti avevano per certo che fosse il Sole a muoversi nel cielo, hanno osservato casualmente, qua e là nell’Isola, strani edifici a forma di tronco di cono.
A cavallo o in carrozza, li vedevano sui rilievi, in specie, alti sulle valli, quali sentinelle dimenticate delle oscure tribù preistoriche.
Li vedevano d’impianto rotondo e forma troncoconica: ciò diede loro certezza che, al pari delle torri costiere aragonesi e sabaude, fossero sentinelle e presìdi per pericoli provenienti “dal mare”. Tutti così videro, nell’Ottocento, così nel Novecento ripeterono gli archeologi. Ancora, in virtù del declamato e disperatamente difeso “Metodo storico” e anche quello del Conviene uniformarsi…
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