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Editoriale numero 57 – Maurizio Feo

Questo numero della Rivista giunge in ritardo, in quanto la malattia covidale ha ostacolato per mesi tutte le attività umane. Per qualche tempo, l’incertezza per il futuro ha stornato l’attenzione di ognuno da tutto ciò che non fosse in diretto rapporto con l’essenziale e con la sopravvivenza. Oggi, seppure nessuno di noi possa dirsi ancora certo del futuro, abbiamo qualche robusto punto fermo e qualche speranza in più: e la Rivista rivede la luce, finalmente, perché almeno qualcuno ha ripreso a leggere…

Il punto fermo è dato dalla cognizione certa di avere l’ottima arma del distanziamento sanitario, che ha già funzionato bene e che in Sardegna è più agevole, anche per via della bassa densità di popolazione (che di per sé è già una difesa contro le epidemie!). La speranza risiede nell’eventuale prossimo vaccino (più di ventidue studi nel mondo daranno, prima o poi, qualche risultato) e nel migliore trattamento medico-farmacologico. E così oggi annunciamo i nostri programmi.

Abbiamo preparato diversi argomenti interessanti, ormai già pronti, su temi sensibili per i Sardi, che ci sono stati sollecitati da tempo e che sappiamo saranno di grande interesse non solamente per loro: tanto, che di alcuni di essi stiamo già programmando un’edizione sotto forma di libro…

A differenza dei numerosi ciarlatani che oggi predicano da tutti i pulpiti, noi non fingiamo di conoscere con assoluta certezza quale futuro ci attenda: ma siamo prudenti e ottimisti, e ci auguriamo che almeno ci permetta – questo futuro – la libertà di condividere con i lettori gli studi e le intuizioni circa il nostro trascorso comune nel Mediterraneo. Perché quello – il nostro passato – crediamo invece di conoscerlo abbastanza bene e di saperlo descrivere in modo convincente e appassionante.

A tutti un “ben ritrovati”, e carissimi auguri di cuore!

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Tiscali nel nuorese

I caprari di Dorgali e di Oliena ben conoscevano, da sempre, lo sperduto villaggio di
Tiscali, nascosto nel monte omonimo, dal ventre gravido di mistero. Era certamente
tenuto in complice e “prudente” riserbo, avverso il mondo della cosiddetta zustissia.

Sa zustissia, amministrata da estranei, si configurava, dunque, più concretamente come un’immanente fonte d’ingiustizia sociale che, sorda alle tradizioni e senza giustificazioni o fondamenti concreti, sottraeva spesso padri e fratelli alle risorse affettive ed economiche delle famiglie.

Avere in serbo un rifugio personale cui ricorrere, all’occorrenza, poteva essere vitale. Questo
era più spesso l’essere “bandito” nei sardi.
Tiscali era, per l’appunto, un rifugio imprendibile, la cui esistenza infine trapelò imprudentemente alla fine dell’Ottocento, certo in ambito universitario, in forma quasi fantastica e mitica. Fu così che spinse un primo esponente della cultura di stato a “esplorarlo”.

Ettore Pais, era forse il maggiore fra i docenti di Storia Antica: acuto conoscitore dei classici, rivestiva un ruolo preminente in ambito accademico. Era considerato, in vita e per oltre un secolo, un “mostro sacro, mitico, irraggiungibile e intoccabile”.

Sardo di padre, piemontese di madre e di studi; era giunto in Sardegna per occupare la cattedra di Storia Romana a Cagliari.
Ai suoi tempi la Paletnologia non poteva dirsi agli albori, giacché scuole europee, da oltre mezzo secolo, avevano gradualmente portato la diffusa antiquaria ottocentesca, accompagnata dai triti “pregiudizi fenicio-egizio-greco centrici” verso una ricerca più colta, con l’aspirazione di giungere a una scientificità che, auspicata ma ancora fumosa nei cervelli, restava a maglie molto larghe, laddove, di norma, il dato tecnico era filtrato da preconcetti, sensazioni e pronunciamenti “colti e autorevoli”.

Al tempo del Regno Sardo-piemontese, ma anche dopo, in ambito preistorico – come pure
in quello storico – ancora tutto procedeva dagli scritti degli autori classici per variegare di dati
e interpretazioni “illuminate”, le vicende di una assai vaga fase primordiale (allora “compressa” in
solo alcuni secoli) e ritenuto vagamente coevo al mondo delle cosiddette fenicerie; comunque, da
tutti concepito come immediatamente precedente all’avvento “fatale” delle spade romane.

Quegli eserciti sanguinari erano visti – ma solo dai colti – come il provvidenziale giungere della “vera civiltà”, a fare da argine definitivo a un’antica barbarie diffusa tutt’attorno al Mediterraneo (occidentale in specie), ancora indistinta (tra punici e trogloditi isolani), sia culturalmente sia cronologicamente.

Una “classica” foto del villaggio di Tiscali. Si nota la capanna meglio conservata del villaggio, la cui forma ingannò tutti gli autori, da Pais in poi, e ancora al giorni d’oggi, molti “ricercatori”, senza elemento alcuno, ripetono che appartenga al Nuragico.

Fu così che lo storico Pais, nel 1910 operò la sua super protetta esplorazione in Barbagia, fino al
mondo perduto di Tiscali.
Col suo resoconto, egli mostra di essere perfettamente a digiuno di fatti archeologici e,
tuttavia, esprime una prima, fatale “sentenza”, a dir poco sconcertante in sé e nelle conseguenze
generazionali.

Di fatto, “lui” era un luminare e i suoi “titolati preconcetti” saranno ritenuti inappellabili e
quindi pedissequamente adottati dai protagonisti della letteratura archeologica nostrana, sia nella prima metà del Novecento, sia anche – cosa ancora più incredibile – fino ai giorni attuali.

Rifugiati all’ombra del potente cattedratico, nessuno sembrò, né ancora sembra accorgersi,
da generazioni, di quanto gratuite, infondate e persino assurde fossero le ispirate impressioni di
quel raffinato, perfetto inesperto.

Per il Pais, Tiscali è un villaggio nuragico, bloccato alla fase in cui i romani schiacciarono, infine!
ogni velleità di libertà negli indigeni “barbari …ostinati” – dice lui – poco meno che “cavernicoli”.
Così ripeterono il Taramelli prima (1933) e il Lilliu poi, con i seguaci suoi (dal 1963 in poi e ancora dopo non potè ricredersi … accademicamente); così ripetono ancora oggi i suoi pedissequi succedanei contemporanei.

Un pregiudizio è sempre ascientifico, ma le conseguenze di una valutazione “autorevole” possono anche essere nefaste e, nei casi in questione, lo furono.
Detto in tutta chiarezza: in archeologia, un errore non ha certo la gravità di una operazione chirurgica eseguita da un somaro maldestro e accozzato; ma resterà comunque incarnito nel tessuto sociale il mancato progresso e l’immobilità culturale.

In sostanza, voglio dire che il contenuto dell’archeologia sarda cattedratica è in buona misura fermo a una sconcertante mentalità di fine Ottocento, esondata ampiamente a contaminare il Novecento e … il Duemila.

UNA VISIONE ANGUSTA ABBAGLIATA DAI CLASSICI

Nell’ipotetica grotta di Platone, l’illusione della conoscenza concessa all’uomo era data dalla proiezione di vaghe immagini eteree di una realtà direttamente inconoscibile.
Nella grotta dell’Archeologia sarda odierna non pare filtrare neanche quel crepuscolo illusorio, che a lungo fu ed è ancora motivo di tanta presunzione accademica.

Il lume posto innanzi agli occhi di cotanti miti, che dovrebbe guidare passi incerti in tanta oscurità, di fatto ha l’esito di abbagliare alquanto i presuntuosi, prima ancora di rischiararne i piedi … o poco più.
A. M. Centurione esemplificava questa triste piega mentale con una esempio chiaro ed efficace:

“…lampi di fuggitivo chiarore …” illuminano una scena chiara e certa agli occhi dell’archeologo sognatore, preda di visioni, ma un attimo dopo, prima ancora che giunga il fragore dell’atteso tuono, già la scena è ricaduta nel buio più pesto. “Pertanto tutte le illustrazioni dei precitati autori, contraddicendosi nelle conseguenze tra loro, parvero lampi di fuggitivo chiarore atti a lasciare i Nuraghi in un caos di cozzanti opinioni

Le colte visioni accademiche latrate nella grotta buia dell’archeologia sarda, paiono proprio essere le manifestazioni oniriche di un’attività neuronale inconscia, non i passi di scienziati. Ogni responso autorevole pare proprio una realtà illusoria che, in sostanza, partecipa al patologico ove, orgogliosamente, si giunse perfino ad affermare tali fantasie come realtà ormai appurata e certa.

Le parole e le maniere affettate, intimamente snob, proprie di eleganti salotti da rituale del the, sono l’unico suono intelligibile nei resoconti archeologici delle istituzioni, volti spesso al non ammesso ma evidente saccheggio delle risorse pubbliche, economiche e monumentali.

Entrare nei pensieri di Ettore Pais, spigolare nelle sue parole, consente giudizi sì inequivocabili, ma non tanto d’ambito archeologico, quanto della sua visione del mondo, per così dire. Descrivendo le povere abitazioni di Tiscali dice:

“… Sono case quadrangolari formate da piccole pietre unite con fango; fra esse alcune sono edifici circolari, piccole torri aventi la forma dei Nuraghi. Dei Nuraghi non hanno però la mole gigantesca, tanto meno la struttura arcaica. Sono torrette di media grandezza, costituite anche esse con piccoli sassi cementati con fango

Poiché le capanne sono disposte/nascoste a ridosso delle pareti aggettanti di quanto resta della grande grotta crollata che le ospita, non sono concentrate al centro, in corrispondenza della grande apertura ma, inevitabilmente, sono ubicate in posti distinti, grossomodo a Est e a Ovest del grande vuoto.

Per questo Pais avanza il dubbio che di due villaggi si tratti e su essi, da storico in veste di archeologo, s’interroga: “ …Questi due piccoli villaggi quando furono per la prima volta eretti?
Per quanto tempo furono abitati? Paiono a primo aspetto essere stati abitati per molti secoli. Nel fondo della conca v’è, come ho già detto, un fosso profondo. Nasce spontaneo il pensiero che ivi siano addensati e per così dire stratificati i rifiuti delle genti che per secoli e secoli vi abitarono.
Le case ora circolari di tipo nuragico ora quadrangolari accennano poi ad un passaggio lungo e graduale da un sistema all’altro.

Ma per esaminare tutto questo con cura ci vorrebbe molto tempo. Occorrerebbero per lo meno varie ore, anzi non basterebbe un giorno. Bisognerebbe aver strumenti.

Ma abbiamo impiegato molto più di un’ora a salire, e non abbiamo con noi viveri.
Fra i buoni amici che ci hanno accompagnato, alcuni non hanno affatto rinunciato all’idea di un lauto desinare, e questo deve essere fatto laggiù nella valle, fra le quercie, presso una fontana che sorge in un antro muccoso [si riferisce alla possente risorgiva di Su Gologone].

Essi ci fanno anzi premura di discendere: il ritorno ad Oliena od a Dorgali non impiegherà meno di cinque ore a cavallo ed arriveremo di notte, per vie in parte difficili anche per i cavalli.


Insomma, il povero studioso vorrebbe soffermarsi qualche ora per meglio comprendere la situazione che gli si para davanti, ma … le circostanze e le sacrosante esigenze logistiche glielo impediscono.
Però ha motivo di dire due o tre cose importanti.

Le capanne non sono tutte tonde come “le nuragiche”; quelle rettangolari appartengono ad altri venuti dopo di loro. Sono fatte tutte con piccole pietre e fango, ma sono d’epoca differente:
quelle rettangolari dirà, sono più comode, logiche ed espressione di una maggiore civiltà.

Le rotonde sono quelle locali, dei barbari Nuragici. Quelle tonde sarebbero nuragiche perché i nuraghes sono rotondi e le pochissime capanne che mostrano una struttura in elevato somigliano proprio ai nuraghi, anzi … sono proprio come piccoli nuraghes.

Vero è che la tecnica costruttiva appare proprio diversa: … esse non hanno l’imponenza arcaica [non sono fatte con i consueti massi ciclopici, insomma] e … i piccoli sassi [che le compongono, sono] cementati con fango, e con l’utilizzo di architravi di legno.

Ecco, l’acuto studioso ha dato il responso logico e compiuto: ha deciso che le capanne rotonde sono nuragiche, ma tarde, mentre le altre, evidentemente sono sì pure nuragiche ma sono il frutto di un lungo – lungo apprendimento dalle consuetudini romane.

Addossare abitazioni alle alte pareti aggettanti suggerisce una logica disposizione delle capanne, “affastellata” quasi, ma con muri lineari.
Questo gli basta per dire che di sovrapposizione romana si tratta. Infatti, ben presto, l’opportuno aiuto di un “antico” allievo consente al “prof” sia di allontanare i dubbi, ove mai abbia pensato di averne alcuno, e di puntualizzare meglio il suo prezioso pensiero ancora inespresso.

“… La visita è pertanto assai frettolosa; ma l’occhio sagace del dott. Chieppo, già mio allievo nell’Università di Napoli ed ora direttore delle Scuole medie a Nuoro, scorge cocci che paiono interessanti. Con l’agilità dei suoi circa ventotto anni percorre senza difficoltà quel terreno dove ogni passo è reso malagevole da sassi, da tronchi d’albero, da rottami di ogni genere e raccoglie frammenti di vasi in cui giustamente riconosce avanzi di anfore romane. Tiscali è stata dunque abitata fino ad età storica. Assai probabilmente era già stata una stazione nell’età dei cavernicoli, nei periodi iniziali della civiltà umana, e venne successivamente
occupata fino alla fine della repubblica romana almeno.”

Insomma: Tiscali non può che essere – manco a dirlo – un villaggio “nuragico” ma toccato dalla civiltà romana.
Ecco la conferma: i romani, già dalla prima ora hanno lasciato tracce del loro passaggio nel cuore dell’Isola e i Nuragici, ostinati e decadenti, hanno prodotto beceri nuraghetti in tecnica simil-arte povera, tanto approssimativa che, col gergo popolare dei muratori, potremmo definirla “a conca ‘e cane” (arte povera, per i colti), non tanto diversa da quella dei ben successivi civilizzatori simil-aragonesi che, naturalmente, … ci insegneranno a fare i muri nel Medioevo.

Se si deve essere ancora più espliciti, allora è bene chiarire che, anche se Ettore Pais si atteggia ad archeologo, egli proprio non lo era (proprio come tanti suoi colleghi o estemporanei d’oggi), né certamente conosceva le ceramiche romane, né poteva avere sufficienti conoscenze per distinguerle e farle risalire alle fasi repubblicane e non imperiali.

Fermo restando che molte ceramiche “romane” (sigillate chiare, per esempio) continueranno ad essere prodotte del tutto uguali a se stesse nelle non più colonie dell’Africa settentrionale:
ovvero anche quando l’impero era già decaduto da generazioni, le ceramiche al tornio possono essere ben più recenti: Altomedioevali, d’epoca bizantina o, perché no… d’epoca giudicale.

In sostanza, finora nulla di serio, né di scientifico, né, dunque, di attendibile possiamo ricavare dal pensiero di E. Pais. Le capanne tonde nuragiche sono un pregiudizio; la superiorità in comodità e la collocazione culturale delle capanne a muri rettilinei è solo una fisima; l’osmosi culturale coi romani, a Tiscali, è ancora un ulteriore preconcetto (forse grato ai romanocentrici, ma infondato); l’attribuzione delle ceramiche al periodo romano e repubblicano, infine è un atto velleitario e presuntuoso.

¡Dunque, costui ha giocato a fare il Prof , ma – in questa circostanza, come in altre d’ambito archeologico – proprio non ne aveva la facoltà, né le risorse culturali!

LE “DOTTE” OPINIONI

Riprendendo a sondare ancora le opinioni di E. Pais, ci si affaccia ora nella materia che gli era propria, dove eccelleva quale studioso di classici: indiscutibilmente il migliore della sua epoca.
Quasi ad ammettere indirettamente che di Tiscali proprio nulla ha capito (¡ma… perbacco .. certamente capirà tutto ben presto, quando tornerà al suo ateneo!).

Vediamo ora altre sue frasi, forse le più “importanti”, certamente le più sconcertanti. Ecco, qui emerge il famoso Accademico dei Lincei:

[…] “Per comprendere l’importanza di Tiscali occorre prendere i classici alla mano [e lui sì … lo sa fare bene!] … studiare le pagine in cui accennano alle lotte dei Sardi contro i Cartaginesi, più tardi contro i Romani … leggere quello che ci narrano gli antichi scrittori greci della fine della Repubblica e del principio dell’Impero […]”.

Molti dubbi avanzerei sui resoconti di autori romani riconducibili in modo specifico a Tiscali… figuriamoci sui resoconti dei Greci. ¡Ma perché proprio i Greci, mi chiedo! Vien da pensare, temerariamente, che il pensatore volesse alludere a quanto fossero informati di Tiscali e agli inesistenti resoconti stilati quando i grandi portatori di civiltà, Romani e Greci naturalmente, erano presenti in Sardegna.

Costoro hanno pure concesso – proprio loro finalmente – un grado di civiltà a quella progenie di cavernicoli, suggerendo a questi – si pensi – … ¡l’uso delle “comode” capanne quadrate! In primo luogo mi chiederei che fine avevano fatto i Punici, quegli odiosi nemici di Roma che già prima avevano occupato la Sardegna (tutta la Sardegna) con almeno due campagne militari (Malco e i fratelli Magonidi: Amilcare e Asdrubale, antenati del più famoso Annibale) già durante la seconda metà del sesto secolo a.C., naturalmente) e la detennero a lungo, come chiaramente affermano i due trattati con Roma, fino al 238 aC.

In secondo luogo, non mi capacito delle sue affermazioni giacché, egli riconosce che tutto mostra d’essere in difformità dalle “cose nuragiche”: dimensioni dei massi e degli edifici, l’uso dell’argilla come aggregante, uso di tronchi e frasche per architravi e coperture, ma tutto … – egli sentenzia – è certo nuragico. Perché?

¡Ma perché crede incrollabilmente che i Nuragici furono massacrati dai Romani! Pensa anche che loro – i suoi gloriosi conquistatori – portatori delle capanne quadrate – occuperanno l’Isola strappandola ai Punici ora alleati dei Nuragici (i Sardopunici), proprio come si è sempre saputo, in ambiente e come incredibilmente ancora taluno – fin troppo spesso – ripete.

Questi ultimi sono forse i più perniciosi dei suoi pregiudizi, che hanno lasciato una brutta piega mentale attraverso la prima parte del Novecento (con A. Taramelli prima e M. Pallottino poi), fino ad essere sacralizzati e resi definitivi col verbo “geniale” di G. Lilliu, dal secondo dopoguerra eq uindi – ancora fatti persistere nei decenni del Duemila tramite i suoi succedanei.

Gli effetti che ancora lasciano profonde sacche di ambiguità nella cronologia attuale consiste nel fatto che proprio Ettore Pais ha “schiacciato” l’avvento dei Romani (e dei Greci, a quanto pare) sui Nuragici. Questo pregiudizio nefasto ha prodotto molti guasti, ma soprattutto due: la nostra preistoria – di poco interesse per costui e non solo – è ben presto chiusa dalle “comode” spade romane.

Tutto ciò che appartiene all’Età del Ferro (compresa la Protostoria con influssi cosmopoliti da tutti il Mediterraneo), tutto… è indelebilmente incollato a un Nuragico che era già morto da oltre cinquecento anni alla data dell’avvento punico e da almeno un millennio dalle trionfanti stragi romane.
Quegli impareggiabili vincitori hanno dunque combattuto con… i fantasmi dei Nuragici.

¡È certamente tutto vero, sia chiaro,… ma solo nella mente degli accademici nostrani!

Articolo di Giacobbe Manca pubblicato sul n.47 di Sardegna Antica

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Editoriale n.56 di Giacobbe Manca

Sardegna Antica è un semestrale culturale per tutti: con o senza titoli, preparazione specifica in Storia, in Archeologia o altro.

Si può credere che molti, nostri lettori e non, possano anche essere molto confusi dalle odierne discussioni “culturali” – tra “favolette ufficiali” e ciarlatanerie di popolo, cui siamo sottoposti: dal web alla TV, dai giornali a certi libri incerti.

¿Chi ha ragione; chi ha torto, chi è più ciarlatano e perché? Il lettore, per sciogliere i fastidiosi dubbi, vorrebbe poter decidere da sé o confrontarsi con persone “affidabili” (¿ma chi lo è in questa ridda d’ipotesi, violenze verbali e arringhe populiste?).

Sardegna Antica ha pubblicato già in passato articoli d’accusa e propedeutici a questi difficili giudizi. I ciarlatani insopprimibili rispuntano come gramigna nell’orto, con argomenti arroganti e sempre più violenti.

Da tempo si leggono frequenti atti d’accusa da diverse “barricate”, mossi da outsider d’ogni disciplina, più spesso contro singoli o l’insieme degli Archeologi “ufficiali” (università o soprintendenza), per vere, più spesso, o presunte “barbarie” commesse a danno del comune Patrimonio Monumentale isolano.

Quelle accuse non hanno spesso un fondamento, come affermare, per esempio, che i reperti di Monte Prama siano stati deliberatamente nascosti per chissà quale oscura manovra anti-sarda.

Non furono mai nascosti, ma solo ignorati per pusillanimità e incapacità, in quei frangenti, a comprenderli correttamente

In genere, gli accusatori non possiedono manco le minime basi culturali specifiche: in quei casi dovrebbe essere più semplice smascherare i ciarlatani, ma non sempre è semplice capire quali siano le loro intenzioni, celate da molti veli.

Il condizionale è d’obbligo, perché molti di questi insulsi strilloni populisti godono, purtroppo, di buona fama e ampio seguito.

In rari casi – invece – il ciarlatano è colto, possiede titoli necessari e “lavora in ambiente”: allora per il lettore appare arduo riconoscere “la verità”. L’errore commesso da questi individui è un “falso erudito”: il più vile e lurido tradimento che si possa compiere contro la Cultura.

Alcune “voci” però, vogliono restare obiettive e distanti dai contenuti aberranti dei detti ciarlatani-strilloni diversamente collocati: siano esse voci ipocritamente ufficiali, sia “autorizzate dal potere”, sia umorali e/o estemporanee.

Sappiano i lettori che il semestrale “Sardegna Antica” vola alto, al di sopra delle indicate miserie umane degli improvvisatori descritti o degli interessi dei cattedratici cooptati coi loro codazzi-fans, annuenti in attesa di briciole del potere.

Ben si sà, non basterà dirlo e, di fatto, il dubbio del lettore persiste: ¿come – dunque – riconoscere i ciarlatani? Partiamo dal presupposto che – si dice a ragione – “La Verità è nuda”.

Intendendo con questo l’incontrovertibile trasparenza di ciò che è vero perché scientifico, dimostrabile.

Alcune persone, di qualsivoglia collocazione o provenienza “s’affrettano a rivestirla dei loro orpelli… la povera Verità”. ¿Perché lo fanno? Semplicemente perché, in fondo-in fondo, covano interessi e/o vantaggi personali.

Politici, economici, di fama, di relazione, di guadagno

Ricordo ai lettori che Sardegna Antica è sostenuta da studiosi veri e soprattutto non ha scopo di lucro (non sarebbe in buona salute se così non fosse) e ben lo sanno ora gli sbavanti che provarono a “sottrarci” lettori e iniziativa, benché spalleggiati da molti soldi pubblici garanti.

Un altro enunciato importante è: “Amare qualche cosa significa rappresentarla esattamente com’è”.

In sostanza, si devono descrivere obiettivamente sia i pregi dell’oggetto amato, sia i difetti, malgrado i quali lo si ama. Insomma, non si deve mai edulcorare o falsare ipocritamente.

Sappiamo bene che con questa filosofia si perdono alcuni lettori schierati o amanti delle favole e talvolta infantili, ma si guadagna alquanto in autostima e generale credibilità.

Descrivere il passato della Sardegna come si vorrebbe sia stato (anche se lo si vuole fortemente), è azione ipocrita, infondata, antistorica, ascientifica e vergognosa. Certi furbi descrivono storie e vicende proprio come i loro “seguaci” desiderano: lo sanno bene.

Vogliono solo vendere i propri libri o “comprare” voti, acquisire fama, soldi, simpatie e vantaggi, inviti a feste (anche inventate ad arte), sagre, congressi vari, presentazioni e manifestazioni… tutte occasioni per vendere “libri zeppa”, solo buoni per fermare tavoli pencolanti.

Scoprire il gioco di questi furbi truffatori è semplice: ¡seguite la traccia… dei soldi! Tutti i ciarlatani (sardi gloriosi compresi) inseguono i soldi.

La linea di Sardegna Antica è invece quella di combattere le malefatte, le inesattezze, le stupidaggini archeologiche o storiche ecc., senza quartiere né remore di sorta.

D’ora in avanti contiamo di stigmatizzare meglio i soprusi e i danni perpetrati a danno del comune patrimonio culturale e monumentale sardo, chiunque sia l’attore e di qualsivoglia levatura e “autorità acquisita”, senza eccezioni.

Questo vale per la recente (e antica) denuncia a carico dei menhir di Bidu ‘e Concas (non sono chiari gli intenti, ma c’è qualche fondamento), mentre rimandiamo alle passate denunce, come pure alle future che ci premureremo di segnalare ai lettori e… alla magistratura (non se ne può più di gravi scempi e abusi di certe mancate spose).

Immagine di apertura: Tomba di giganti arcaica Li Lolghi – Arzachena, miseramente ricomposta, con gravi errori di postura della stele e ricostruzione dell’esedra, che pare annoverare ortostati improvvisati, impropri o non congruenti

Combatteremo anche con recensioni di libri, specie se inutili, costosi e spesso finanziati con fondi regionali. Tra l’altro si veda già qualche esempio fra le recensioni di questo fascicolo.

Preannuncio articoli a venire, interessanti come sempre, ma questa volta forieri di possibili conseguenze… che affronteremo in diverse sedi.

In coscienza dico che il lettore di Sardegna Antica può fidarsi: con noi dispone di un interlocutore fermo, onesto e aperto al dialogo, che lo terrà coi piedi per terra, specie quando i furbi conta-storielle cercheranno di rifilargli per vero l’invisibile “unicorno rosa”… ¡perfino in televisione!

Per le vicende di Preistoria e Storia – quelle dimostrate -, la Sardegna deve essere più che fiera di ciò che fu e per la grande importanza nell’evoluzione dell’Occidente moderno: non c’è bisogno di trucchi giornalistici, né di belletti posticci, meschini, risibili e controproducenti.

Giacobbe Manca

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Letteratura: conquista dell’uomo

In 3000 anni di storia Sumeri, Accadi, Babilonesi e Assiri esprimono la loro grande tradizione mitologica e religiosa attraverso migliaia di testi cuneiformi che ci offrono un quadro molto ampio e complesso della loro letteratura. Il termine Mesopotamia (fra i fiumi), indica la terra fra i bacini idrografici dei gran- di fiumi Eufrate a ovest e Tigri a est.

In questo territorio si sviluppa precoce- mente quel fenomeno poi chiamato “Rivoluzione neolitica”: domesticazione di piante e animali, rapida aggregazione urbana: prima piccoli villaggi e poi formazione di grandi città.

Le condizioni ottimali per la coltivazione dei cereali di- pendevano dal regime delle precipitazioni atmosferiche che in questo territorio erano e sono insufficienti, dunque fu necessario ideare grandi opere di irrigazione e canalizzazione artificiali per attingere l’acqua dai due fiumi.

Queste abilità presumono l’intervento di personaggi con capacità organizzative e di comando, che daranno origine a società controllate e guidate da caste dominanti.

Quella società stratificata poneva al centro del potere il “Tempio” o il “Palazzo”, che immagazzinano scorte alimentari, materie prime e prodotti artigianali, la cui distribuzione alla comunità è controllata e pianificata.

Ora nasce l’esigenza di tenere i conti, codificare e prendere nota di movimenti, merci e beni. Il materiale usato per liste e annotazioni amministrative sono l’argilla e lo stilo, materiali abbondanti nel Paese del limo e delle canne.

Rilievo assiro in alabastro che ritrae Gilgamesh, VIII secolo a.C

A questo scopo sono ideati, già a partire dal Neolitico (10.000 anni fa), piccoli gettoni d’argilla (contatori) che servono per comunicare informazioni precise su quantità e qualità dei prodotti e delle risorse. Questo sistema durerà a lungo, almeno per 5000 anni, fino ad arrivare alla semplice scrittura su tavolette piane di argilla fresca e il loro scopo rimane a lungo nell’ambito dell’amministrazione e della contabilità.

Quando finalmente scrittura e operazioni contabili si separano, intorno al 2700-2600 a.C., si compongono testi storici, religiosi, legali, scolastici e letterari, inclusa la poesia. In particolare, si ha una sorprendente fioritura della letteratura.

La tradizione orale, elaborando riflessioni approfondite, è fissata con la scrittura in componimenti di grande respiro, profondità e pregio letterario. Nascono i miti nei quali gli uomini creano risposte: gli dei e i loro conflitti, l’origine del mondo e dell’uomo, la creazione dell’universo, tale da assicurarne il perpetuo funzionamento, il senso della vita, le disgrazie, i problemi posti dal male, l’inevitabilità della morte.

La Mesopotamia, terra dei Sumeri prima e degli Accadi di origine semita poi, è popolata da mille e più divinità, il mondo è il loro dominio e gli uomini sono sudditi, servitori.

Statua in alabastro della dea Ishtar che indossa un mantello e un copricapo di vello di montone. III millennio a.C

Esse possedevano, amministravano e governavano come re. Un pantheon sterminato, popolato sia dagli dei principali, fondatori e protettori delle città-stato, sia da un gran numero di divinità minori a protezione d’ogni attività umana, dal lavoro del contadino e dell’artigiano, coi loro attrezzi, alle funzioni del sovrano.

Gli dei erano visti come esseri superumani, dotati di poteri ultraterreni, ma anche di tutti i difetti di uomini e donne.

Erano immaginati come esseri possenti e di enorme statura; erano intelligenti e astuti, anche se potevano essere ingannati; garanti della giustizia e dell’ordine costituito ma capaci di azioni discutibili o im morali; pativano lo sconvolgimento delle passioni, della gelosia, dell’odio e della lussuria, i morsi del- la fame e della sete come gli esseri mortali.

Le divinità più importanti erano l’espressione della natura e dell’ordine cosmico. Il dio supremo, An, “l’In Alto” o “Cielo”, governava la parte superiore dell’Universo.

Enlil “Signore dell’Atmosfera”, sovrano del Mondo di Mezzo, dove vivono gli uomini, cioè la Terra coperta dalla Sfera Celeste, sospesa sulle acque primordiali e percorsa dai soffi dei venti cosmici, alito vitale della Terra stessa.

Enki “Signore dell’Apsu”, l’abisso di acqua dolce, l’oceano sotterraneo che regge l’intero universo (in pratica, la Mesopotamia), è il mediatore fra la sfera divina e l’umanità: è benevolo, giusto, intelligente, lungimirante, creativo, scaltro e ragionevole, è il dio più vicino al genere umano, somigliante all’uomo ideale e perfetto.

[……..continua………..]

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La Grande Statuaria

È necessaria una certa pazienza al fine d’ottenere la rappresentazione completa di un quadro composito. Esso si è andato componendo in un lunghissimo periodo di tempo, in varie aree geografiche distanti tra loro e presso differenti culture, confermando alla fine che esiste un unico meccanismo creativo sottostante, che è proprio dell’Uomo.

La statuaria è solo una delle numerose espressioni dell’Arte, in particolare di quella che riguarda la scultura della pietra locale nelle sue varietà.

L’arte Italica è quella prodotta dalle varie popolazioni abitanti la penisola italiana nel periodo protostorico, tra la prima età del ferro (IX-VIII secolo a.C.) e il completo dominio di Roma (inizio del I secolo a.C.).

Per la produzione artistica precedente si parla di arte preistorica, per quella successiva di arte romana, per la quale gli influssi originali provenienti dalla tradizione artistica italica divengono solo una delle tante componenti di quella dominante Si deve guardare all’arte dello scolpire nella sua prospettiva, a partire dai primi tentativi realizzativi e quindi motivazionali. In quest’ottica i betili, i menhir e i differenti tipi di stele, tutti insieme rappresentano i primi stadi evolutivi di questa particolare espressione dell’arte.

Stele (sing. e plur. ; raro il plur. -i), lastra oblunga di pietra, ornata con decorazioni, bassorilievi, iscrizioni e sim., infissa nel terreno o poggiata su un basamento, avente lo scopo di ricordare un seppellimento (s. funeraria), lo scioglimento di un voto (s. votiva), un fatto memorabile avvenuto in quel luogo, o anche di indicare un termine di confine

A saper ben leggere le forme, i simboli e i materiali, se ne possono trarre di volta in volta preziose informazioni sulle culture che ne permisero la comparsa e ne fecero uso.

Per ciò che attiene alla statuaria, la storiografia generalmente non include nell’arte italica né quella prodotta nelle colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia, né quella etrusca, né quella sarda che era peraltro di fatto sconosciuta fino alla scoperta delle statue inizialmente dette “Giganti di Monte ‘e Prama”, avvenuta nel 1974.

In linea di massima i popoli italici, anche sotto il dominio greco, mantennero sempre una tendenza ad un’espressione artistica meno formalizzata e più vivace e spontanea.

Questa espressività locale rimase più chiaramente avvertibile in particolare nelle popolazioni abitanti in aspre zone montane, più lontane dal contatto greco, come i Piceni o i Sanniti.

Si devono aggiungere a questi i Sardi, che certamente filtrarono gli apporti culturali esterni, scegliendo ed adottando ciò che di quelli trovavano più consoni a propri gusti ed esigenze.

È corretto credere che l’arte italica abbia avuto origine già secoli prima del IX secolo a.C., quando ci furono i primi scambi commerciali nel sud Italia, e gli esempi più chiari sono i dolmen e i menhir del Salento, insieme ai graffiti nelle grotte del Gargano.

“Autoctono” non è mai veramente nessuno: ognuno deriva da qualcun altro, altrove, cui è debitore di qualche prestito culturale e genetico

Le popolazioni che meglio svilupparono un’arte propria, sempre sotto l’influenza dei coloni della Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., furono gli Etruschi e i Dauni di Puglia, seguiti dai campani di Capua.

L’arte spaziò dall’architettura monumentale dei templi, come nel miglior esempio nell’area sacra di Paestum, all’uso della ceramica, della terracotta e del bronzo per sculture minori di monumenti funebri, di vasi e di statuette votive.

L’arte italica, sviluppatasi nell’VIII secolo a.C., si fuse infine con quella di Roma nel I secolo a.C. dopo le campagne di conquista dell’Urbe del III secolo a.C., partendo da Taranto, dalla Sicilia durante le guerre puniche, e infine durante le guerre sannitiche e la guerra sociale nel I secolo a.C.; i primi contatti, al livello architettonico, erano comparsi nel III secolo a.C..

Dopo l’assimilazione romana di tutto il potere italico, l’arte di tali popolazioni scomparirà con la piena unificazione politica di Roma del territorio peninsulare.

Comunicazione mediatica

È inteso che vi sia stato un obbligatoriamente lungo periodo di evoluzione dell’espressività umana attraverso la scultura della pietra.

Oggi forse nessuno si stupisce più tanto del fatto che un messaggio possa essere indifferentemente comunicato da un’immagine fissa su un cartellone, come anche da un’immagine mobile su uno schermo riflettente, o addirittura da uno schermo diafano sul quale l’immagine è trasferita da molto lontano.

Al riguardo, la tecnologia mediatica più avanzata 5.000 anni fa era la pietra incisa eventualmente colorata: ed era altrettanto stupefacente quanto lo è oggi un sofisticato ologramma tridimensionale.

Naturalmente, doveva essere grande la motivazione, per spingere all’impiego di tanto impegno e del lungo tempo necessario alla realizzazione dell’opera.

Perché fare le statue?

La simbologia rappresentativa delle statue è – in fondo – anche la simbologia dei gesti. L’espressione umana attraverso le immagini grafiche graffiate, o dipinte e quelle volumetriche sempre più corpose degli altorilievi e delle statue a tutto tondo si basa su alcune posture ed alcuni gesti ed espressioni che dovettero essere inventati. È in Mesopotamia che si codifica per la prima volta il sistema dei valori semantici legati a ciascun gesto.

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  • I Lamassu
  • Statue stele
  • Le stele lunigianesi
  • Un inciso

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Dalle penne alle pinne

Vola sull’acqua per ore, senza sosta. Può rimanere in mare aperto e perlustrarne la superficie alla ricerca di cibo per settimane, senza mai toccare terra.

Tra i luoghi di nidificazione ci sono le piccole isole del Mediterraneo e la Sardegna, lungo le sue alte coste rocciose, negli anfratti, o in tane appositamente scavate. Si tratta della berta maggiore (Calonectris diomedea), specie simbolo del mar Mediterraneo.

Il nome scientifico di berta maggiore, così come quello del genere dei grandi albatri (Diomedea) richiamano quello di Diomede, uno dei principali eroi achei della guerra degli Epigoni e della Guerra di Troia. Nel mito, Diomede assunse un ruolo fondamentale come diffusore della civiltà, specialmente nell’Adriatico dove, con due enormi blocchi provenienti dalla distrutta rocca di Pergamo, creò il Subappennino e il Gargano e, infine, essendogli rimasti in mano alcuni ciottoli, le isole Tremiti, dove si era ritirato assieme ai suoi compagni.

Dopo la sua morte, Venere, per compassione verso il dolore dei compagni, trasformò questi ultimi in uccelli, perché facessero la guardia al sepolcro del loro re, che ancora oggi continuano a piangere. Secondo Aristotele questi uccelli accoglievano con amicizia i Greci e con aggressività i barbari, come se riuscissero a distinguerli istintivamente. Sull’isola di San Nicola vi è una tomba di epoca ellenica chiamata ancora oggi la Tomba di Diomede

La berta maggiore (Calonectris diomedea) è un uccello marino di medie dimensioni, dal piumaggio bruno sul dorso, che sfuma verso il bianco sul collo e sul ventre. Ha ali strette, allungate, con una apertura alare di quasi un metro e la coda corta e rotondeggiante.

Il becco è giallo e le zampe rosate. Il suo verso caratteristico può apparire all’orecchio umano affascinante e inquietante allo stesso tempo. Udibile anche dal mare, si dice che sia proprio il canto delle berte ad aver dato origine, nell’Antichità, al mito delle sirene (foto di Massimo Picentino)

Il suo verso è molto simile ad una voce umana, o meglio al vagito di un bambino, più acuto nel maschio e più grave nella femmina. Gli Antichi conoscevano molto bene questi canti notturni che, al contempo, affascinavano e spaventavano.

Molto probabilmente è stato questo caratteristico richiamo a ispirare l’antico mito delle sirene. Ma va fatta un po’ di chiarezza. L’immagine più comune e popolare che oggigiorno si ha delle sirene è quella di splendide donne-pesce, ma in origine erano figure della mitologia greca rappresentate con l’aspetto umano nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore e in loro mancava la forte sensualità che invece contraddistingue le sirene più tarde. Le antiche sirene mitologiche greche non ammalia- vano con il corpo ma con il canto.

Cfr. Platone a proposito dell’origine delle cicale e del loro dono del canto “[…] invece (le cicale) vedano che dialoghiamo e le oltrepassiamo navigando, come davanti alle Sirene, senza farci affascinare […]” (Plat., Phaidr. 258-59).

Esse incantavano i marinai, che, se incautamente sbarcavano sulla loro isola (che secondo Omero si trovava presso Scilla e Cariddi, ma secondo altre versioni sotto l’Etna o al largo di Terina) vi morivano.

Le sirene promettevano agli uomini di svelare tutto ciò che accadeva o era accaduto sulla terra, li invi- tavano “a sapere più cose”, li portavano a una co- noscenza onnisciente e talmente totalizzante da far dimenticare loro perfino i legami familiari, cosa condannata dallo stesso Omero, tanto da fargli descrivere la loro isola come mortifera e disseminata di cadaveri in putrefazione.

moglie e i figli bambini gli sono vicini, felici che a casa è tornato, ma le Sirene lo incantano con limpido canto, adagiate sul prato: intor- no è un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza“ (Hom. Od. XII,39-46).

Immagine in apertura Napoli, Fontana di Spina Corona: la sirena Partenope (copia del XX secolo dell’originale del 1498 circa) in procinto di spegnere le fiamme del vulcano Vesuvio con l’acqua che le sgorga dai seni (foto di Monia Noviello)

Le sirene tentarono anche Odisseo/Ulisse che, pur di ascoltare il loro canto si espose al pericolo facendosi legare all’albero della nave, senza farsi tappare le orecchie con la cera, come fece fare ai suoi compagni su suggerimento della maga Circe.

Nel XX secolo, in un racconto di una pagina soltanto (Il silenzio delle sirene, Das Schweigen der Sirenen, 1917), il genio letterario di Kafka sembra volerci dire che Ulisse si sia difeso non tanto dal canto delle Sirene bensì dal loro silenzio. Il canto delle sirene era noto a tutti nell’ Antichità e non sarebbero certo bastate una corda e dei tappi di cera per le orecchie per sfuggirvi.

Impegnato a distribuire tappi di cera e a sistemare corde intorno all’albero maestro, Ulisse non si accorge che le Sirene fissano lo sguardo nel riverbero dei suoi grandi occhi e dimenticano di cantare. Ma le Sirene hanno un’arma che è ancora più terribile del loro canto, ossia il silenzio che Ulisse scambia per il canto da cui pensa di proteggersi.

Egli vede di sfuggita, mentre la nave passa davanti al loro scoglio, i loro occhi pieni di lacrime e le loro bocche socchiuse e crede che ciò faccia parte del canto che, non udito, risuona intorno a lui. E proprio quando è più vicino a loro esse scompaiono alla sua vista perchè, abbagliate da ciò che avevano scorto di profondo o di terribile nel suo sguardo, non vogliono più sedurre.

Proprio Ulisse, il più astuto fra gli uomini, non si è accorto che le Sirene in realtà tacevano. O forse se ne è accorto e ha opposto a loro la sua finzione (da http://www.poesiaeletteratura.it/wordpres- s/2012/02/l-irresistibile-melodia-del-silenzio-franz-kafka/).

Omero riporta il canto: “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose”.

L’origine letteraria delle sirene è proprio nell’Odissea di Omero (intorno al IX sec. a.C.), che ne cita due, senza dar loro nomi propri. Nel corso dei secoli numero e nomi variano: da due si passa a tre, poi a quattro e i nomi sono Aglaophone, Leucosia, Lìgeia, Pisinoe, Telsiope, Partenope…

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LA GUERRA PIÙ ANTICA

Premessa Alla domanda: “Qual è la guerra più antica?”, la risposta più corretta sembrerebbe essere: “Quella del 2.700 a.C., vinta da Sumer contro l’Elam, in cui Enembaragesi, re di Kish, spogliò gli Elamiti di tutti i loro possedimenti”.
Fu certamente una guerra tra due popolazioni ricche e stanziali ormai da vari millenni. Ma fu solo la prima riportata per iscritto dagli annalisti: e certamente fu preceduta da mille altre…

L’evidenza archeologica di “guerra” più antica in assoluto appartiene al sito di Jebel Sahaba, nell’odierno Sudan settentrionale ed è datata attorno ai 12.000 anni prima di Cristo. Quegli antichi resti d’esseri umani uccisi in azioni violente di guerra, ottennero un’accurata sepoltura nel vicino cimitero di Qadan: ciò lascia intuire che una popolazione già stabilizzata e non più nomade, ebbe modo e tempo di provvedere a sepolture tradizionali. Ciò conferma la “regola” della sedentarietà che causerebbe la guerra.

Il problema In questi ultimi anni, si assiste ad un tambureggiante crescendo rievocativo delle presunte grandezze culturali, marinare e militari dei Sardi del passato.
Più spesso si tratta d’iniziative d’entusiasti “non addetti ai lavori” (come chi scrive questo articolo, s’intende!), ma talvolta persino di aventi diritto, con tanto di titolo d’archeologo.
Si può fare un po’ di chiarezza?
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LA CENA DELLE ANIME

Un’osservazione filmica della tradizione sarda nella Notte dei Morti
di Ignazio Figus

“La notte del 2 novembre si mangiano di prammatica “sos macarrones de sos mortos” (i maccheroni dei morti).

Prima di porsi a letto le famiglie preparano sulle mense un gran piatto di questi maccheroni, che sono destinati ai defunti parenti.
Le anime entrano alla mezzanotte nelle case, girano intorno alle mense imbandite, e se ne partono quindi saziate dal solo odore delle vivande.

Se invece non si prepara alcun piatto, i morti se ne vanno via sospirando…” .

Questo scriveva nel 1834 il poeta, giornalista e folklorista, Giuseppe Calvia Sechi nella Rivista delle tradizioni popolari a proposito delle usanze familiari logudoresi in occasione della commemorazione dei defunti.

Nelle note relative a questa descrizione lo studioso ci informa che: “È un ricordo evidente del culto dei morti in Grecia e in Roma…” e ancora “Pare di assistere alla scena di Tiresia e delle anime vaganti attorno al fosso scavato da Ulisse, e descritto da Omero nell’XI dell’Odissea…


Questa relazione vivi – morti evidenziata dal Calvia, sembra dunque sottolineare una ricerca di risposte a interrogativi eterni che riguardano la vita e la morte e il nostro rapporto con esse.

I defunti, in qualche modo, non sono separati dalla comunità, ma continuano a farne parte ed è necessario sfamarli, oltre che imparare ad ascoltarli traendo insegnamenti per il prosieguo della nostra vita.


Il culto dei morti è un elemento centrale nella cultura popolare della Sardegna. Rappresenta indubbiamente uno dei temi classici dell’antropologia e trova nell’Isola (e nel meridione d’Italia) espressioni ancora vitali e analizzabili…


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Numero 49

A partire da oggi è in distribuzione il n° 49 della rivista “Sardegna Antica – Culture Mediterranee”. Nei prossimi giorni potrete acquistare la vostra copia (al consueto costo di 3 €) nelle principali edicole della Sardegna.

IN QUESTO NUMERO:
Straordinario Voes di Nule” di Giacobbe Manca

“Da una punta di freccia” di Cinzia Loi

Su Padru ‘e Lassia (Birori):
una tomba per archeologi” di Roberto Manconi

“Archeologia e Storia sarda oggi” di Maurizio Feo

Oschiri e il Castrum Liguidonis” di Giuseppe Carzedda

La diga sul Tirso e i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale” di Giovanni Enna

“Spagnolismi e catalanismi nella
lingua sarda parlata a Busachi” di Nicola Enna

“Matrici ed espressioni identitarie” di Andrea Muzzeddu

“La nostalgia di Namaziano” di Piero Martis

“Le chiese illuminate di
Settimo San Pietro” di Paola Cannella

“Rame” di Franco Romagna

Sa Chida de Perfugas” di Ignazio Figus

e inoltre:

“Lettere al Direttore”
“Libri & Libri” di Gonaria Manca
“I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna” di F. Casula
“Curiosità archeologiche” di G. Manca

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