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CRONOLOGIA MISTICA

Pieghe mentali e mancata Scienza di Giacobbe Manca

É una questione di credibilità.

Molti, troppi indizi consentono dubbi sulla strana cronologia del Nuragico attualmente utilizzata in Sardegna e, incredibile a dirsi, viene pure presa sul serio dagli studiosi italiani e persino dagli europei: credo in buona fede e per mancanza d’altro.


La questione è molto, direi troppo importante per lasciarla correre. Specialmente per i molti guasti che derivano da una periodizzazione attualmente diffusa “in ambiente”: alquanto miope, a mio vedere.
Di fatto s’ingenerano errori, perdite di tempo, spreco di carta e inchiostri, in ricercatori che assai meglio potrebbero impiegare il loro ingegno in cose più costruttive.

Per associazione di idee, esco dal vago ed entro nel velleitario, penso alla presunta scrittura nuragica, che a iniziali tratti di stimolo lascia il campo a pedanti e caparbie posizioni speculative.

Penso che se il nuragico non fosse ridotto dalla cosiddetta accademia a quel “calderone” smodatamente ampio e accomodante, molte ambiguità sarebbero non solo superate, ma non sarebbero state neanche intraprese:
uno scritto più o meno vago o proponibile, databile a un’avanzata Età del Ferro, per esempio, in nessun modo potrebbe essere ritenuto e preteso come nuragico, se fosse finalmente chiaro a tutti che la detta, straordinaria epoca dei costruttori di nuraghe, si era già conclusa da secoli prima.

Si tratta di voler vedere e accettare, secondo scienza – per metodo – e non per schieramento di una o altra tifoseria.

Per questo ho da tempo il desiderio struggente di ripercorrere le tappe che hanno visto i presunti ricercatori archeologi predecessori alla scrupolosa ricerca del quadro cronologico in cui calare le vicende
preistoriche della Sardegna.

Si tratta, insomma, di chiarire come si è giunti infine a determinare quella
griglia del tempo nuragico e, per capire, quale valore scientifico essa possa avere: un esercizio che sarebbe salutare anche per le povere università isolane, dove “la cosa” è rifilata agli allievi come garantita, in virtù di altere posizioni dogmatiche (gli archeologi sono tutti “credenti”) e sottaciuta nella sua intima dinamica compositiva (prendere o lasciare: a scatola chiusa, senza spazi per dubbi).

Sarà un impegno gravoso, lungo e paziente, forse tedioso, e per questo da anni tengo “lontano da me questo calice amaro”.

Col passare del tempo, però, è divenuto necessario e persino urgente, quagliare argomenti solidi per uscire dalle molte facce dell’ambiguità,
con cui sono costretto a confrontarmi.
Per principiare il gravoso excursus storiografico, credo sia opportuno andare rapidi sui calcoli fatti dal canonico G. Spano nel suo trattatello sui nuraghe.


1 Egli propone date assolute incontrollabili, ma garantite dalle discendenze bibliche, ¡da lui interpretate!
Nei popoli Caldei, che si dispersero tra Siria e Palestina, egli individua i costruttori dei nuraghe.
Non condivide l’Arri, secondo cui quei medesimi (G. Spano, Memoria sopra i nuraghi di Sardegna, 1854-1867, p. 48.) transfughi edificarono i nuraghe solo verso il 1546 a.C. (sic!), ovvero quando lasciarono la Palestina per l’occupazione di Giosuè.

Egli afferma, invece, che tutto dovette avvenire prima di Abramo, tra il secondo e il terzo secolo dopo il diluvio universale: esattamente 292 anni dopo quell’evento (sic!), ovvero 2322 anni prima di Cristo (ancora sic!).

L’ispirazione architettonica fu data dal naïve impegno edile di Caino, il quale edificò una città turrita [s’intenda una torre città] e la chiamò Enoch, come il suo figlio maggiore.


Si può convenire che i dati sopra enumerati siano un tantino sospetti, ma comunque interessanti: non posso fare a meno di notare una “straordinaria” vicinanza della data dell’Arri con quella più attuale fornita oggi dalle scuole universitarie quella dello Spano non poté essere accolta dall’accademia:¡troppo mistica!)
ma le convergenze potrebbero essere casuali.


La successiva sintesi, ben più moderna, venne circa un secolo dopo da Massimo Pallottino.

2 Egli propone uno schema a larghissime maglie; accetta la diffusa opinione che il Nuragico si debba ascrivere all’Età del Bronzo (¿perché? – ¡non è dato sapere!).

Stando a questa ferma visione, i primi nuraghe risalirebbero a un “certo tratto” dell’ampio ventaglio di secoli compresi tra il 1500 e l’800 a.C., nel quale s’affaccierebbero la fine dell’Eneolitico e l’avvio del Bronzo…


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UN METODO PER L’ARCHEOLOGIA

“Spallate d’autore” o Faulabberu”
di Giacobbe Manca

¿Quale Archeologia?
Desideri e Clima avverso
L’obbiettivo è scrivere di ricerca in ambito preistorico senza ripetere amenità trite; voglio percorrere una strada nuova per la ricerca in Sardegna, aperta nell’ambito dell’Architettura Preistorica, oltre le stucchevoli convinzioni riportate in manuali obbligatori, nati stantii. Puntare l’obiettivo sulle tecniche non riscuote i consensi dovuti, ma sono ineludibili anche se subdolamente evitate, finora. Introducendo gli argomenti tecnici penso sia cosa buona e giusta eliminare macerie e cianfrusaglie fin qui prodotte dai tanti “padroni” dell’Archeologia in pagine assai lontane da una qualche parvenza di scienza.
Si tratta di lembi stucchevoli di un folklore archeologico tutto sardo.


L’Architettura e le Tecniche Preistoriche si apprendono in specie sul campo, studiando di persona molti monumenti, cui si sommano gli apporti di operai intelligenti, laureati alla scuola dell’esperienza artigiana: sono cavapietre, scalpellini e costruttori di veri muri a secco (solidi), che, per fortuna, mi hanno accompagnano agli scavi.
Con giuste conoscenze si fanno i passi nella ricerca di settore, ben oltre l’attuale storiografia, ricca di contraddizioni e molte amenità. Eppure, gli addetti hanno sempre attinto a quella, acriticamente.
Il loro “attingere” (¡incredibile a dirsi!) lo definiscono “metodo
storico”; di fatto sono tristi sottrazioni di pensieri altrui.
Il cosiddetto “metodo” degli accademici, infatti, è solo un sotterfugio attuato da chi fruga nelle tasche altrui, non fa ricerca scientifica e, poveretto, in concreto non sa leggere un monumento.
E le fantasie accademiche sono chiamate scienza!

Misera tempora cucurrunt
A considerare la consistenza delle conoscenze tecniche
possedute da ampia parte degli Archeologi di Sardegna, dopo “soli” due secoli d’indagini così “autorevolmente reclamizzate”, viene lo sgomento.
Tralasciamo i pochi lumi del ‘700; sorridiamo sulle menate fenicio-egizio-pelasgiche ottocentesche; soffriamo per i penosi strascichi del primo Novecento (fascismo, leggi razziali, ecc.); smaltiamo la decadenza da contagio e nepotismo dei lustri postbellici, forse ineludibile, che purtroppo continua fino a oggi e appare chiaro che non di vizi epocali s’è trattato ma di secolari “carenze vitaminiche”.
Questa sarda è da sempre una terra di rapina dove l’assenza di metodo è cronica (specie nelle dissimulate procedure d’indagine archeologica). ¡Si tratta, credo, d’intellettuali carrieristi, straniti per gli immeritati scranni su cui sono assisi! Forse però c’è anche altro…
…LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 52

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Architettura preistorica e SINDROME DEL CONDOTTIERO

di Giacobbe Manca

Studiare un edificio significa leggerne la propria funzionalità socio-economica. Esso rappresenta, insomma, una risposta concreta a precise esigenze della società che lo ha espresso, sia essa piccola o grande.
Che più spesso, poi, gli archeologi non riescano a “chiarire” in modo esauriente la funzionalità di un certo edificio preistorico è un fatto solo in parte legato alla difficile penetrabilità delle intenzioni degli uomini preistorici: più spesso si tratta degli ineludibili limiti di noi moderni… e non solo.

A ben riflettere, limitatamente alla varietà tipologica dei monumenti richiamati nel riquadro appare sempre che essi sono in un qualche rapporto con le isole, più o meno grandi.

Un rapido sguardo ad essi, prima ancora di una procedura scientifica, sembrerebbe di consentire, di ipotizzare, singolarmente, una sorta di rapporto inverso fra la dimensione delle isole e l’imponenza e il numero dei monumenti da esse espressi.

Il rapporto appare più marcato se si volesse fare un riferimento al relativo potenziale umano. Si pensi, per esempio, al “sese grande” di Pantelleria (minuscola isola) a confronto con i nuraghe arcaici a bastione e stanzine della Sardegna, sia pure di maggiori dimensioni: ma l’Isola è molto più estesa e doveva essere ben più popolata).

Si pensi, ancora, alla concentrazione monumentale nell’isola Minorca, ben maggiore di quanto si rileva nella più estesa Maiorca. L’argomento sopra accennato, ancora aperto, nasce da uno spunto colloquiale avanzato da Maurizio Feo, l’apprezzato autore di numerosi scritti in Sardegna Antica C.M. e di libri (pubblicati dal CSCM).


Di fatto, i manufatti antichissimi, esprimono sia le abilità di chi le ha realizzate, sia la loro partecipazione a conoscenze più ampie, proprie di un ambito antropologico ben più ampio.

Il sostrato culturale e gli intrecci di radici antiche vanno ben oltre l’orizzonte cantonale in cui i popoli vivono: un ambito tanto vasto
che può comprendere, in questo senso, tutte le terre che s’affacciano al Mediterraneo, per esempio.
Ci sono poi consuetudini ancora più generalizzabili, connaturate alla specie umana e alla sua plurimillenaria esperienza con i materiali messi a disposizione dalla natura: frasche, rami, pali, terra, argilla, pietre
dure, massi, lastroni, pelli, fibre, ecc..

Tutto poi risponde alle leggi naturali della fisica, per cui una procedura edificatoria può avere un senso e avrà futuro, o non averne affatto.

Dove non arriva l’intuito dell’uomo, sarà l’osservazione dei fatti naturali a portare soluzioni, giacché non può essere vinta l’intrinseca natura dei materiali e delle forze che li governano.

La possibilità di realizzare e regolare un’accumulazione primitiva di beni (per ampia disponibilità di cibo e strumenti) avrà effetti non solo sulla qualità della vita ma confluirà anche in opere di utilità comunitarie, persino impegnative.

La realtà architettonica espressa da un popolo sarà dunque conseguente al “potenziale” del territorio e alle sue capacità produttive. Insomma, è la cultura, l’economia, il grado di abilità tecnica acquisito (ovvero il complessivo grado di civiltà raggiunto da una popolazione, o da un clan sufficientemente numeroso, che si concretizzerà in una specifica architettura.

Ancora, è da credere che sarà l’esperienza, consolidata nelle soluzioni tecnico/costruttive tradizionali, ad attestare i differenti gradi di razionalità espressi o messi in atto negli edifici (e dunque “leggibili”).

Porre a confronto esempi delle diverse categorie di monumenti preistorici, evidenzierebbe il come in essi siano impliciti fattori riconducibili a realtà configurabili, sia nella demografia sia nell’economia.

Insomma, dal contenuto tecnico-architettonico osservabile in ogni monumento si potrebbero ricavare fondate ipotesi, sia sul successo demografico sia sullo sviluppo socio-economico ma anche sulle intime e generazionali “vocazioni” di un popolo preistorico.

Nell’inquadramento architettonico dei monumenti interviene, dunque, l’estensione territoriale, la specificità dei suoli e, appunto, l’economia di una data collettività che li ha prodotti.

É lapalissiano: vivere in zone sub-desertiche o paludose significa disporre di assai meno risorse rispetto a coloro che vivono in aree boschive o in pianure, ben più adatte alla produzione di cibo e mezzi.

Inoltre, dall’analisi attenta di un “tessuto” murario, si possono individuare non solo le tecniche ricorrenti ma anche le soluzioni costruttive (l’intelligenza), come pure l’intera sintassi o la filosofia costruttiva sottintesa in ogni singolo edificio: s’individua, in sostanza, la categoria cui ascriverlo e quindi si potranno esprimere convergenze o difformità con altri monumenti preistorici.

Dolmen diffusi in territori caucasici e del Mar Nero. Si noti il riquadro a bassorilievo, che rimanda alle tombe di giganti.

Col detto processo ermeneutico, dunque, si possono accrescere le conoscenze dei componenti distintivi contenuti nell’antica scienza del costruire (pensieri, criteri, tecniche), che sono impliciti nei monumenti detti e derivarne, pertanto, molte conoscenze correlate.

Individuare “comuni denominatori”, per dirla con l’aritmetica, può essere utile a rivelare parentele, progressi e convergenze.

Senza voler entrare in tecnicismi ardui, per dare un primo, semplice esempio, si potrebbe dire che tutti i monumenti preistorici sono realizzati a secco (ovvero non hanno malte aggreganti); che i massi concorrenti a siffatte opere, sono collocati solo in determinati modi e non in altri: parlo, insomma, della statica di muri che si possono definire logici, ben precedenti alla scoperta dei cementi e che, pertanto, prescindono da quel diverso criterio.

Si deve prendere atto che le richiamate costruzioni, che si conviene definire a secco, hanno regole precise che, ahimè, sfuggono in toto a troppi archeologi no- strani detentori di scranni e, pertanto, solo tale vuoto costoro possono trasmettere agli ubbidienti seguaci.

Da qui, a mio vedere, discendono i guasti infiniti (mancato progresso o enormi assenze conoscitive) che sono stati prodotti da certa letteratura fantastica (giustificata – a loro dire – dal “metodo storico”), che definisco insensata, ottocentesca o vuoto-velleitaria. Penso si possa giungere a dire che la filosofia tec- nico-edificatoria nella preistoria sia sostanzialmente una sola.

Dato un progetto preistorico in planimetria e in elevato, l’unica norma consta nel disporre i blocchi componenti i muri in modo nettamente stabile e concatenato: senza deroghe o cedimenti.

Non sembri questa una banalità, né cosa semplice, giacché l’evocata stabilità o solidità dei muri a secco (che si potrebbe assumere come proverbiale nel caso dei nuraghe, per esempio) pardossalmente appare uguale in tutte le varietà dei paramenti murari, siano essi concavi, lineari, verticali, aggettanti o arretranti, o, non è assurdo, persino convesso-aggettanti

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La Tomba Dipinta di Mandras

Ha preso il via anche in Sardegna il progetto dell’Unione Italiana Sport per Tutti (UISP) “Archeogiocando: coprogettazione di percorsi sportivi nei siti archeologici per la fruizione attiva del patrimonio culturale”.

Il progetto ha valenza nazionale ed è finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell’ambito della legge 383/2000 – F/2013. Le iniziative previste, da realizzarsi nelle Scuole Secondare di 1° grado, coinvolgeranno circa 500 ragazzi di nove località italiane: Aosta, Brescia, Fabriano, Gorizia, Matera, Ardauli, Perugia, Taranto, Trapani.

Obiettivo del progetto è quello di mettere a punto, attraverso un ciclo di laboratori sperimentali, una proposta educativa nuova, capace di favorire la valorizzazione e fruizione attiva del patrimonio culturale da parte dei giovani, basata sulla coprogettazione di percorsi sportivi nei siti archeologici del territorio.

L’idea è quella di proporre ai giovani, dai 10 ai 14 anni, modalità di fruizione del patrimonio culturale più stimolanti e motivanti, in particolare quella di esplorare le potenzialità dei siti archeologici del proprio territorio come spazi di aggregazione a carattere sportivo oltre che di interesse prettamente culturale, e di farsi attori di una progettazione dei percorsi sportivo-culturali negli stessi siti.

Gli sport scelti saranno anche frutto di una ricerca sugli sport delle origini (come il tiro con l’arco, la corsa, il salto in lungo), che sarà condotta a scuola come parte integrante del percorso laboratoriale. Laddove possibile, le attrezzature sportive saranno realizzate dagli stessi ragazzi.

Il sito prescelto per la Sardegna è quello della Tomba Dipinta di Mandras di Ardauli (OR), ipogeo funerario caratterizzato dalla presenza al suo interno di singolari elementi pittorici in ocra.

L’ipogeo di Mandras, pluricellulare dalla planimetria articolata, si apre alla base di un affioramento di tufo trachitico: accanto ad esso è presente il chiaro tentativo, probabilmente coevo, di escavazione di una seconda grotticella.

Al suo interno coesi- stono, oltre a quelle che richiamano semipilastri e finte nicchie, le rappresentazioni dipinte di due tipologie di soffitti: ellittica nell’anticella, a uno oppure a due spioventi con lati brevi arrotondati nella cella principale.

Il soffitto dell’anticella è segnato da sei travetti dipinti di rosso tre per lato che convergono verso una banda circolare appena visibile, interpretabile, forse, come il sistema di legatura dei travetti. Il soffitto della cella principale mostra invece la rappresentazione del tetto a uno oppure a due spioventi con lati brevi arrotondati reso da fasce di colore rosso. L’impatto più emozionante viene dal motivo dipinto “a reticolato” presente sulla parete d’ingresso e in parte su quelle laterali della cella principale, ottenuto con fasce orizzontali e verticali di colore rosso.

Il motivo a “reticolato”, allo stato attuale delle ricerche, per le dimensioni eccezionali e soprattutto per il fatto di essere reso tramite pittura, costituisce un unicum. Questa schematizzazione riprodurrebbe, pur con le riserve che s’impongono in assenza di confronti sicuri, l’intelaiatura delle pareti laterali della capanna preistorica costituita da pali sistemati sia in senso verticale sia orizzontale.

Non è escluso che all’interno della nostra domo de janas possano essere presenti altri elementi simbolici non più visibili a occhio nudo, soprattutto nella cella principale.

La Tomba di Mandras, sita superficialmente, non lontano dalla superficie esposta alle intemperie dell’affioramento, versa purtroppo in una situazione d’estremo pericolo, a causa di infiltrazioni

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Ottusangoli e fole

Per il progresso dell’Archeologia sarda
di Giacobbe Manca

“Auspicato Profeta:… ma”
L’archeologo scozzese Duncan Mackenzie visitò almeno tre volte la Sardegna, tra il 1906 e il 1912, producendo quattro scritti per i quaderni della British School di Roma: solo il contenuto del primo fu proposto in italiano per la rivista culturale romana Ausonia; altri tre resoconti, mai giunti agli allievi sardi in archeologia, praticamente reperibili solo a Roma, restano ancora in lingua originale.


Per il centenario, il CSCM concepì di editare la traduzione e ’attualizzazione del terzo scritto (1910), ritenuto molto interessante proprio per l’apporto che si ritiene abbia dato all’Archeologia isolana.

L’iniziativa è andata a rilento per cause diverse, come la difficoltà obbiettiva di ottenere una voltura affidabile (stanti le contraddizioni e la “legnosità” dell’autore) e la necessaria rivisitazione di tutti i monumenti ivi analizzati. Intanto furono proposti diversi articoli in Sardegna Antica C.M.: in essi si analizzano monumenti molto importanti per la letteratura di settore e si evidenziano diversi svarioni contenuti negli scritti dell’inglese.


Alla luce di odierne analisi tecniche applicate ai monumenti “chiave”, furono proposte in particolare nuove interpretazioni degli stessi, ben più fondate e ciò fu riconosciuto (scambi personali) anche dall’allora indiscusso “facitore” dell’Archeologia isolana che, in un attimo di “incertezza privata”, ritenne di dover attribuire le colpe degli errori “non visti” … al Mackenzie.


Intanto, un’inusitata iniziativa editoriale, ben lontana dall’esegesi disciplinare, apparve qualche anno fa, retorico, senza motivazioni pedagogiche, né analisi o indagini specifiche. In essa sono pesanti limiti nella traduzione pedissequa del testo inglese, nell’evidente oblio dei monumenti descritti, e lungi dall’imperativo della necessaria attualizzazione dei contenuti, anche alla luce dei nuovi e numerosi apporti scientifici già divulgati ma ignorati in toto.


In concreto, salvo il catalogo dei siti, l’opera di Mackenzie è scientificamente irrilevante, eppure oggi egli assurge, per i cattedratici, ad autore “di alto e… profetico riferimento” stando a cotanta editoria. Nella detta pubblicazione si leggono vieppiù, valutazioni del tutto erronee e/o gratuite.
In ogni caso, emerge quanto – dal secondo dopoguerra a oggi – l’accademia sarda si è pedissequamente “appropriata” delle esternazioni del Mackenzie.

Infatti, nei manuali della disciplina, “imposti” agli studenti non si registra alcuna nota, chiara e inequivocabile, che rimandi all’inglese le intuizioni: le scoperte sarebbero, dunque, merito esclusivo dei “grandi” docenti-mito, trovatisi in carriera “proprio a seguito dei vasti vuoti culturali determinati… dalle leggi razziali”. Ciò spiega bene la forte reticenza e la sconnessa difesa dello status quo da parte di archeologi sistemati, ora orfani. ¡

Non fu solo Mackenzie a sbagliare, come il “potente facitore” pretendeva! ma tutti quelli che ne accettarono e ancora ne accettano, irrazionalmente, gli apporti: orbi carrieristi e “omertosi” in primis.

Preliminari e simil conclusioni

Ai tempi in cui Mackenzie venne nell’Isola, la Sardegna era vista da molti come un’anacronistica sopravvivenza antropica di semiselvaggi, palestra per etno-patologi alla Niceforo: tutto assai poco attinente con la Preistoria.

L’esplorazione attraverso quelle curiosità antropologiche, all’insegna dell’innatismo, ricercate nell’Isola dalla detta scuola inglese, gemmata nella recente capitale del potere piemontese, sembra riecheggiare la spinta indagatrice di certo pregiudizio allora seguito, sull’onda degli acclamati studi del torinese, influente e longevo, C. Lombroso (1803 – 1909).

L’attenzione “scientifica” di quest’ultimo riguardava il cretinismo e la propensione alla delinquenza – estesa, manco a dirlo, in specie alla Sardegna – le cui cause egli riconduceva alla “stirpe”.
Per tutti, in seguito, le scienze antropologiche fecero molti progressi concreti – non altrettanti quella archeologica, in verità.


In quell’ottica s’avviò in Sardegna la ricerca della British School at
Rome e in quell’avvio del 1906 si affiancò, si riporta, la curiosità archeologica dello scozzese, favorito dall’ambasciatore Egherton.


In tre autunni consecutivi egli esplorò, molte contrade della Sardegna, dal Capo di sopra all’altopiano del Guilcier e all’Iglesiente. Per i rilievi fu coadiuvato dall’architetto Newton, ottimo disegnatore di edifici preistorici; “sui monti” fu bene accolto da buoni indigeni che lo guidarono ai monumenti.

Tutto si svolse sotto una buona stella, come lui stesso scrisse.
Tornando al Mackenzie, tuttavia, bisogna riconoscere che quelli d’inizio Novecento erano tempi in cui gli studiosi ricercatori per comprendere andavano davvero a vederli… i monumenti.

Forti di ampie conoscenze pragmatiche (vedi gli archeofili tra Ottocento e primi del Novecento) li interpretavano, eseguivano o ne ispiravano il rilievo – sempre in loro presenza – e ne davano una “lettura” diretta – ben coscienti, credo, che essa fosse valida ma solo fino a maggiori progressi.


Tempo dopo, nei decenni del secondo periodo postbellico, in Sardegna si cominciò a vivere di assemblaggio e rendita (per esempio: i rilievi e le analisi del Della Marmora, del Taramelli, del Nissardi, del Pallottino, del Newton/Mackenzie ecc. furono (e sono) utilizzati, sia perché ritenuti più che accettabili sia, soprattutto, perché nessuno degli archeologi succedanei ai detti capi mitici mostrò di dover verificare, studiare o, ancor peggio, aggiornare (non dico ridisegnare – ¡Dio aiuti!).

Infatti, da allora tutto era (ed è) dato per certo e acquisito: ¡definitivamente e pedissequamente, per la beata umanità bisognosa di miti e sale da te!

“Tout de bot”, un noto articolo del 1910 di Mackenzie appare tradotto in italiano: non un saggio d’archeologia: la sola traduzione senza apporti culturali; lo premette una scarna biografia (pp.17-18).1

“Duncan Mackenzie, I Dolmens, le tombe di giganti e nuraghi della Sardegna”, Condaghes, 128 pagine; brossura BN, traduzione dell’articolo The Dolmens, Tombs of the Giants, and Nuraghi of Sardinia, (Papers of the British School at Rome, Vol. V, 2; London 1910).

Credo valga la pena soffermarsi, in breve, su alcuni aspetti: metodi, contenuti e pieghe mentali o culturali inferibili dalla detta traduzione. Il prodotto editoriale concerne, dunque, uno scritto di oltre cento anni fa: uno dei quattro dello scozzese riguardanti la Sardegna.

Risulta che il valente “archeologo preistorico”, lavorò per alcuni decenni in Egeo: a Cnossos (Creta), a Philacopy (Melos) e conosceva, oltre la sua Europa, anche il vicino Oriente.

Fu un valido aiuto di Evans, anch’egli una sorta di “mito” inglese, al quale diede certamente il suo destro, ma anche di più – dice taluno: “fornì” riflessioni e valutazioni non proprio riconosciutegli (fatti ricorrenti), forse a causa di mai chiariti umori tra lui e il famoso capo.

Dell’opera in questione e di alcuni contenuti/intuizioni del Mackenzie ho già scritto in Sardegna Antica C. M., n. 34, del 2008, nel sintetico articolo “Duncan Mackenzie e i dolmen sardi: cento anni di crepuscolo”, che ebbe qualche migliaio di lettori, ma che certo non è stato visto o inteso nel divino mondo stipendiato della “archeologia isolana”, statica e salottiera. A. Evans fu, più propriamente, un imprenditore colonialista dell’archeologia, come in quel momento storico usavano gli inglesi e non solo: era un “cacciatore” di oggetti per sé e per la “corona”, dal che ottenne il titolo di Sir: perciò non era un vero archeologo ancorché, come tanti, agì come tale.

Si sussurra che Mackenzie fu allontanato per la sua condizione di alcolista, ma si dice pure che il motivo “vero”, forse più umano, riguardava la bella compagna di Evans; altri ventilano sintomi di pazzia o sofferenze che causavano prostrazione fisica e mentale.

Molto resta vago riguardo a Mackenzie, ma nelle brume anglo-scozzesi è saggio non rimestare pettegolezzi e ci si attiene maggiormente alla scienza.

Preconcetto e maldicenza restano i lividi retaggi coltivati in orizzonti culturali e geografici angusti, come certa accademia isolana, dove la paura di un confronto scientifico è palpabile e si esorcizza talvolta con stizzose “liste di proscrizione”, lancio di melma e pugnali… alle spalle, naturalmente.

Mackenzie, lucido forestiero

Mackenzie aveva, dunque, ampie conoscenze specifiche: dal mondo megalitico delle sue contrade e della Francia, a quelle, assai più vaghe, della Corsica e delle Baleari;

come detto, ben conosceva anche diverse realtà dell’Egeo. Alle soglie dei cinquant’anni, con la sua vasta esperienza, si apprestava a conoscere l’oscura, peculiare preistoria della Sardegna.

Torno all’articolo, tradotto con intuibile impegno ma portatore di diverse pecche: ai molti passi non chiari o privi di significato, si aggiunga – come detto – la mancata attualizzazione di “certa” parte obsoleta dell’Archeologia di Sardegna. Insomma, un’occasione “perduta” per approdare a un’utile analisi bibliografica e contenutistica.

È, soprattutto, l’occasione mancata per riflettere, finalmente, sulla colpevole acquiescenza pluri generazionale verso contenuti solennemente erronei: quelli che gli orfani da mito sono ancora interessati a santificare… ab aeterno.

In tal segno, altro sconcerto deriva dalle “emanazioni” della cosiddetta Presentazione, che vorrebbe essere una premessa allo scritto in questione, ma proprio non ci riesce. Il libro ha in appendice il testo originale (trascritto… con mancanze), quasi utile per sciogliere i molti dubbi che affiorano dalla lettura.

Quanti leggeranno quella versione, dotata di “cotanta Presentazione”, tengano comunque per certo che, per l’Archeologia isolana, lo scritto del Mackenzie è proprio “preistorico”: è più che superato, solo valido per una salutare riflessione sugli errori del passato; magari è occasione per la rivisitazione dei monumenti descritti a distanza di oltre un secolo e un lustro.

Ora è pure una testimonianza indiretta delle pieghe psichiche di “studiosi” locali (dal secondo dopoguerra a oggi), che credettero di “appropriarsi” appieno delle opportunità lucide, straniere e gratuite – manna dal già defunto Mackenzie. Ancora oggi la tifoseria del Nuragico militarista ne subisce l’abbaglio (e la conferma diretta è nella “dotta” Presentazione): i dogmi emanati dai “capi-mito”, per taluni che ne sentono la dipendenza appaiono come un irrinunciabile oppio obnubilante


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OSCHIRI E IL CASTRUM LUGUIDONIS

di Giuseppe Carzedda

Giri di denaro – denaro in giro

In apertura del presente articolo, ritengo opportuno introdurre brevemente il concetto di numismatica partendo dal significato del termine stesso.

In effetti, cosa significa esattamente la parola numismatica? Etimologicamente la sua derivazione è di origine greca, nómisma, ovvero “ciò che deriva dalla legge” (la radice è infatti nómos, regola, norma), termine con cui si soleva indicare la moneta, il bene di scambio per eccellenza, creato, diffuso e garantito dallo Stato, e dunque avente un corso legale.


Una definizione particolarmente esaustiva e quasi totale, di moneta, la diede nel IV sec. a.C. Aristotele nella sua Etica Nicomachea (ET.NIC. V, V 11-15): […] e per questo essa prende il nome di nómisma, perché non esiste per natura ma per legge, e perché dipende da noi cambiarne il valore o renderla senza valore.

E ci sarà scambio quando si sarà procedu- to alla parificazione, in modo che il rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino.[…]. L’equivalente in latino di nómisma è invece nummus, il cui significato può essere ravvisato in ‘unità mone- taria fabbricata secondo la legge’.

La numismatica è quindi lo studio e la classificazione della moneta, analizzata non solo nella sua forma e sostanza, ma anche in ogni altro singolo aspetto, da quello econo- mico a quello storico e artistico. Occorre evidenziare che nel suo insieme la numismatica è una scienza a tutti gli effetti, per molti versi indipendente e con un carattere strettamente storico.

Significativo in questo senso è il profondo legame con l’archeologia: scavi archeologici e ritrovamenti monetali, marciando di pari passo devono necessariamente avvalersi di studi numismatici.

L’analisi numismatica di una moneta,trattata come se fosse un qualsiasi altro documentostorico o reperto archeologico, fornisce innumerevoli informazioni. Un rinvenimento di monete offre in-fatti notizie sulle tecniche di coniazione, sui diversi metalli usati oppure sul livello artistico raggiunto.

Se poi lo stesso ritrovamento è studiato nella sua contestualizzazione, il volume delle notizie aumenta in-credibilmente, facendo emergere nuove conoscenze.Ad esempio, si possono formulare interessanti ipotesi ricostruttive in merito a circolazione monetariae rapporti commerciali, condizioni economiche, migrazioni di popoli, invasioni e guerre, è persino possibile compiere studi sulle usanze religiose. Ne deri-va che la numismatica è una disciplina estremamente vasta, in quanto estremamente vaste sono le tipologie monetarie collegate ai rispettivi ambienti storici.

Altrettanto può dirsi degli scenari economici e sociali entro i quali la moneta emessa va a collocarsi. In questo senso occorre distinguere la moneta dal concetto di denaro, indubbiamente ben più ampio e legato per sua natura a molteplici aspetti della vita umana,a partire ad esempio dal suo utilizzo come strumento di controllo sull’individuo, universale parametro di valutazione oppure mezzo attraverso il quale si può esprimere la propria posizione all’interno di un qualsiasi contesto sociale. Lo studio numismatico può indistintamente riguardare tutte le produzioni monetarie di tutti i tempi. Si va dalle coniazioni con-temporanee a quelle rinascimentali, dalle emissioni classiche a quelle circolanti nel medioevo e così via ..


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OSCHIRI E IL CASTRUM LUGUIDONIS Leggi tutto »

Domos de janas e Domenico Lovisato

di Giacobbe Manca

Arcane Domos de janas

Volendo ripercorrere lo studio delle domos de janas [d’ora in poi anche domos d j.], è anche opportuno riprendere le peregrinazioni e le riflessioni del noto ma trascurato Domenico Lovisato: un geologo della seconda metà dell’Ottocento, che “s’ammalo” di Paletnologia in Sardegna proprio da quando, per ventura, incontrò le domos dj. e non riuscì a esorcizzarne il fascino.

Volle capire cosa fossero, conoscerne la vicenda culturale e cronologica, anche oltre i problemi logico-geologici che pure si ponevano e che per taluni ancora si pongono.

Egli sconfinò in una scienza in cui altri contemporanei avrebbero dovuto mostrare piglio scientifico, in assenza del quale fu spinto, quasi “costretto” a pronunciare il suo pensiero logico.

Molti addetti alla paletnologia sarda credono che ormai si sappia molto o quasi tutto di quanto sia concreto attendersi per questi monumenti così “prodigiosamente” scavati negli affioramenti rocciosi e detti domos de janas (: casa delle janas: piccole fate streghe).

Dai poveri e ben superati manuali proposti/imposti agli studenti si evincono certezze – inguaribile presunzione degli uomini – sia sulla loro destinazione (furono per certo sepolture), sia sulla posizione culturale e cronologica (furono fatte da popoli del Neolitico – almeno dal Medio in poi – per tutto il Calcolitico e fino al Bronzo Antico, se non oltre); ancora. sono presenti a ogni latitudine dell’Isola, con la sola eccezione della regione Gallura.

In realtà, pero, sono pochi gli indizi e ancor meno le prore utili a determinare un’affidabile seriazione tipologica necessaria per porre in relazione le molte specificità dei monumenti con distinte fasi culturali o popoli ascrivibili al lungo periodo su accennato.

Insomma, le cosiddette domos dj. esprimono una grande variabilità nella forma, nella dimensione e negli apprestamenti interni e ciò deve avere un senso. In esse si osservano rilievi, decorazioni con ocre policrome, simbologie, banconi, loculi, rialzi, cornici, semicolonne e altri elementi architettonici a bassorilievo, semplici o stupefacenti trabeazioni, ora con soffitti piatti o diversamente curvilinei e variamente lisciati o segnati da coppelle rituali.

Domus di Isportana – Dorgali

Talvolta le pareti sono lisce, talaltra lavorate a cavità. solchi e chiare costolature di varie larghezze.

Le cavità hanno dimensioni molto variabili: da un ambiente a vani multipli disposti in planimetrie altrettanto diverse. Ora contengono uno spazio piccolo quanto un’urna, ora una stanzina angusta, ora ambienti numerosi e grandi, anche molto ampi,”regolari” (circolari e/o quadrangolari) disposti in modo simmetrico; altre volte le camere sono molto iregolari, a lobi e nicchie o spazi diversi.

Contengono colonne semplici o istoriate con ocre o semirilievi diversi, banconi e divisori. Anche i portelli d’accesso originali, prima di eventuali modifiche per riutilizzi, appaiono diversi per forma, dimensione e disposizione: rilevati o a livello di suolo, verso tutti i quadranti del cielo.

Concentrate in quantità o disseminate su ampi territori. si ritrovano in esemplari singoli, in due o più unità vicine, fino a insiemi giustamente definibili “necropoli”, dove si contano anche decine di domos dj., talora tutte diverse tra loro.

Insomma, tutte queste varietà di forme, dimensioni e particolarità devono pure avere un senso logico che, in buona parte, deve essere ancora compreso.

Se si ritiene che tutto ormai si sappia, come sopra accennavo, penso non avrebbe più senso concreto il persistere con scritti intrisi di pedisseque e banali ripetizioni, anche quando “l’auspicata novità” consista ancora in cocci o oggetti ubicati in “stratigrafie ripetitive”, a reiterare conferme.

Vedo, piuttosto, che nessuna utile estensione dell’indagine, di fatto, sia concessa ai “contenitori” oltre una vaga descrizione, così che, le indagini restano monche. Torniamo indietro nella storiografia, dunque, a quando il complesso delle conoscenze su queste cavità artificiali era pari al chiarore di un luna, e in un antro del tutto buio o poco meno.

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Torri del silenzio

Finora è stato visto come sia particolarmente difficile – e spesso impossibile – ricostruire, con i soli strumenti dell’archeologia, le pratiche rituali e il pensiero filosofico-religioso, dei diversi popoli antichi, di cui non sono giunte tradizioni.

Non per giungere ad una verità, ma solo per individuare ipotesi plausibili riconducibili alla ricerca paletnologica, è opportuno rivolgersi alle diverse fonti dell’Antropologia.

Analogamente, il problema dell’interpretazione o della collocazione culturale, si pone anche per quei monumenti “nuovi”, insoliti e persino unici, che fortunatamente si possono ancora rinvenire, come l’allineamento di Ittiri oggetto di queste riflessioni.

Come detto nella prima parte, l’interpretazione quale raro “luogo del silenzio” del ben vistoso, ma finora inosservato, monumento a grossi poliedri ortostati di Sa Figu parrebbe trovare un forte sostegno nella realtà attuale dei Parsi, un’antica popolazione residente tra la Persia e l’India, dove s’insediò a seguito dell’avanzare dell’islam nel loro territorio d’origine.

Il nome “Parsi” deriva da Persi o Persiani e li individua come i discendenti di quell’antico e ben noto popolo del Vicino Oriente, la cui religione improntata al culto di Mitra (Mitra era il Sole e il fuoco), mostra ampie convergenze con i contenuti della mistica di Zarathustra (Zoroastro per i Greci) che si esprime nel culto alla sacralità degli elementi costituenti la Natura.

La componente messianica di questa religione finì anche per avere marcate ascendenze in una larga parte del popolo ebraico nella fase in cui fu deportato nella Babilonia di Nabuchadrezzar (o Nabucodonosor), (dal 586 al 538 a.C.), ma certo anche dalla lunga dominazione Assira (dal 538 al 332 a.C.).

Mappa di Babilonia secondo un’illustrazione della Encyclopaedia Biblica (Wikipedia)

Da quell’influsso, presente in un’importante componente dell’ebraismo, quella messianica della grande fucina mistica di Qumram, presso il Mar Morto, si avranno sensibili conseguenze nella predicazione cristiana. Analogamente, particolari contenuti della religione mitraica avranno esplicite e sorprendenti convergenze contenutistiche nella teologia cristiana.

Attestato estesamente in antico, il rito della scarnificazione – nelle sue diversificazioni potrebbe sembrare un fatto lontanissimo dalle consuetudini del terzo millennio e, ove sopravvivesse ancora, una pratica sconveniente di anacroni stici gruppuscoli, ancora agganciati alla preistoria.

La potente, chiusa ma moderna etnia dei Parsi vive a Bombay, dove ha una florida condizione economica basata su tecnologie avanzate. Detengono ampie aree boscate dove praticano la loro singolare prassi funeraria, secondo il loro credo religioso, il cui fondamentale imperativo è il rispetto della purezza degli elementi divini Terra, Fuoco, Aria e Acqua, quali fattori fondamentali della Natura e della vita.

Per questo la dissoluzione dei cadaveri non deve contaminare alcuno di questi componenti. La soluzione coerente è che i corpi dei defunti siano esposti alla solerzia dei numerosi avvoltoi – oggi allevati di proposito(4) , i quali per antichissima consuetudine sono richiamati ai bordi delle mura d’alte torri circolari.

Le dachmars, in occidente definite “torri del silenzio”, sono costruite al culmine di un’altura, e consistono sostanzialmente in un recinto lastricato, chiuso con pareti tali da impedire la vista di una così greve manifestazione, durante la quale, con una ben nota celerità determinata in concreto dal consistente numero di rapaci (meglio se oltre cento), le parti molli del defunto e non poche ossa minori ritornano direttamente a far parte del ciclo biologico della Natura, nel pieno rispetto della sua regola e della sua “purezza divina”.

Incisione di una torre del Silenzio zoroastriana (Wikipedia)

La collocazione in una dimora definitiva delle ossa avanzate avverrà in cimiteri preposti, dove tutti i componenti del gruppo umano si ricongiungono ai propri antenati e dove, i vivi abbiano un luogo dove “incontrare” e compiangere i defunti.


Immaginando anche contesti diversi e molto più lontani nel tempo, si può anche ipotizzare che non tutte le ossa fossero restituite dal frenetico e rissoso banchetto tenuto dagli avvoltoi e da altri rapaci, giacché è noto che alcune varietà di essi inghiottono le più piccole o spezzano le più grosse facendole cadere sulle rocce, per poi attingere al midollo o agli stessi frantumi.

É da credere che da un tale trattamento avanzino il cranio – se pure veniva esposto e non prelevato in precedenza per riservargli un rito specifico ,(5)
le ossa lunghe più pesanti, come i femori e le placche del bacino, oltre a parti della colonna vertebrale e molte costole…

Giacobbe Manca

L’articolo nel numero 32
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Economia delle antiche civiltà mediterranee

– seconda parte
di Giovanni Enna

1.2.2 – Civiltà ebraica
Secondo il libro della Genesi, la patria originale di Abramo era la città di Ur, nella Mesopotamia, dove forse visse all’epoca in cui la civiltà sumerica godeva degli ultimi bagliori di gloria.

Abramo, con il padre Terach, la moglie Sara e il nipote Lot, lasciò Ur per andare nel paese di Canaan , dove si stabilì dopo una breve puntata in Egitto, tra il secolo XX e XVI a.C. . Circa due secoli dopo il popolo ebreo trasmigrò in Egitto, chiamatovi da Giuseppe, figlio di Giacobbe.

Dall’Egitto tornò verso la Palestina nel secolo XIII a.C. sotto la guida di Mosè e di Giosuè. La conquista della terra di Canaan iniziò con il guado del fiume Giordano. La prima località raggiunta dalla tribù ebraica fu Galgala, a est di Gerico.

Alla morte di Salomone (sec. X a.C.) la monarchia unitaria genera due regni, Israele a nord e Giudea a sud. La scissione è accompagnata dalla decadenza, seguita poi dalla schiavitù di Babilonia.

Successivamente si ebbero fasi alterne di indipendenza (con rinascita dei due regni) e di dominazione straniera. Con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 d.C., termina la storia millenaria dell’antico popolo ebraico in Palestina.

1.2.2.1 Sistema economico ebraico.
La natura del suolo palestinese (tranne alcuni lembi particolarmente fertili come la valle di Isreel, ai piedi del massiccio del Monte Gelboe) non permise agli ebrei di dare sviluppo soprattutto all’agricoltura, danneggiata dalla natura arida del suolo (contrariamente ai fertili terreni egizi e mesopotamici).

Le colture furono varie: frumento, orzo, fave, lenticchie, viti, olivo, melograno, mandorle, fico, sicomòro. Il fabbisogno alimentare veniva soddisfatto principalmente mediante la pastorizia e l’allevamento. Gli animali allevati furono in particolare buoi, cavalli, asini, cammelli, capre, pecore.

La scarsa disponibilità di generi alimentari impedì la specializzazione del lavoro nel settore terziario, quale l’artigianato, che rimase poco sviluppato rispetto ai popoli confinanti. Gli agglomerati urbani erano contraddistinti da una diffusa povertà. Lo stesso Tempio di Gerusalemme era un edificio di dimensioni inferiori rispetto alle grandi opere mesopotamiche o egizie.

Il re Salomone fu costretto ad avvalersi della cooperazione dei fenici, sia per procurarsi i materiali più pregiati (in particolare legno), sia per ottenere efficaci collaboratori sul piano tecnico. Fu necessario importare metalli da Cipro, dall’Anatolia, dall’Arabia, l’esportazione riguardò soltanto le eccedenze di grano, vino, olio.

Il regno di Israele non possedeva la conoscenza tecnica necessaria allo sviluppo del commercio marittimo su larga scala. Il nominato re, per far viaggiare le sue “navi di Tarsis” (tipiche imbarcazioni larghe, adatte per lunghi viaggi in alto mare) chiamò in aiuto gli esperti di Chiram, re di Tiro. Tarsis, situata nel Mediterraneo era probabilmente la Sardegna, dalla quale gli israeliti importarono argento, ferro, stagno, piombo.


Nel complesso l’economia del popolo ebraico (tranne la breve parentesi della prosperità ai tempi di Salomone e di David) si rivelò come una tra le più modeste di quelle dell’Antichità. Nel corso dei secoli, fino all’era precristiana, la vita lussuosa fu riservata ai ceti nobili.

L’accumulazione dei beni, seppure praticata da un ristretto gruppo sociale di persone, non faceva parte della cultura del popolo ebraico, pervaso dalla presenza divina. Tutte le norme tramandate dall’Antico Testamento confermano l’immagine di una società tesa al raggiungimento di un equilibrio etico – sociale , piuttosto che a quello dell’accumulo di ricchezze.

Nel vecchio Testamento e nelle successive raccolte di leggi e di interpretazioni, che costituiscono l’originale pensiero ebraico, si rispecchia la lotta tra la società tribale, caratterizzata da una proprietà comunitaria e da un’attività economica primitiva, e il processo economico impersonale di una società più complessa, divisa in classi e caste, basata in gran parte sulla proprietà privata.

Attraverso l’influenza spirituale dei profeti, si ebbero dei mutamenti nella struttura economica, con la condanna degli eccessi delle nuove classi commerciali, degli usurai (venne proibita la riscossione dell’interesse; tuttavia, la norma comportamentale della remissione dei debiti nell’anno sabbatico venne aggirata e annullata con la crescita dell’attività creditizia), dei predatori di terre.

Articolo completo sul n. 37

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