Redazione

Nascita degli Dei

La formidabile scoperta nel 1994 di Göbekli Tepe in Turchia dell’archeologo tedesco Klaus Schmidt, che lavora allo scavo fino al 2014, anno del suo prematuro decesso, ci pone di fronte a una situazione complessa, di non facile lettura. É l’opera dell’uomo primitivo che cambia il mondo. Secondo Schmidt è una grande svolta dell’evoluzione; rappresenta il preludio al Neolitico e a tutto quello che ne consegue. La datazione è certa e oscilla fra gli 11.000 e i 12.000 anni fa. Siamo nel Mesolitico, il breve periodo intermedio tra la “pietra antica” – Paleolitico – e quella “nuova” – Neolitico. Sappiamo che le suddivisioni del tempo preistorico si scandiscono in classificazioni convenzionali per facilitare gli studiosi e per dare un senso e un ritmo al susseguirsi dei periodi. Gli uomini del Mesolitico sono cacciatori-raccoglitori seminomadi, cioè uomini che si procurano il cibo cacciando e raccogliendo tutto quello che è edibile del mondo vegetale, che occupano un piccolo spazio di tempo prima della rivoluzione neolitica. Sono indubbiamente i costruttori di Göbekli Tepe. Questo luogo è un complesso architettonico monumentale che stupisce e affascina per la potenza che emana sia dal lato materiale per il lavoro gigantesco di ingegneria costruttiva e di organizzazione della forza lavoro, sia per il potente senso del sacro che queste pietre comunicano, questo è un luogo dove il divino era evocato e vissuto, un luogo al confine del reale dove accogliere il volere e il potere degli dei.

È davanti a opere simili che prendono forma nella mente le millenarie domande (retoriche): “quando e perché e come” nasce nell’uomo il sentimento religioso, il bisogno del sacro e del trascendente. E altrettanti millenni di studi di filosofia, teologia, etica e morale hanno tentato e tentano di spiegare la nostra inquietudine davanti all’Infinito e lo smarrimento che la solitudine nel tempo e nello spazio opprime la nostra fragile condizione umana, ma ancora, ovviamente, non abbiamo risposte. Forse alla domanda “quando”, in quale fase del cammino inizia questo bisogno di sentire e spiegare l’arcano, di cercare e trovare un Creatore, di prendere coscienza della a vita umana, si può trovare la risposta nell’archeologia. Si pensa che la prima scintilla nasca nella mente dell’uomo di Neanderthal, quando mostra empatia perché si prende cura dei suoi simili colpiti da gravi menomazioni, le prove sono nelle ossa fossili di soggetti sopravvissuti a lungo dopo aver perso un arto perché aiutati a procurarsi il cibo. Ma soprattutto compie un atto davvero rivoluzionario: dà sepoltura ai morti. Forse questo uomo si è chiesto cosa sia questo “smettere di vivere” e perché e dove si vada poi… forse si può continuare da un’altra parte? Forse il corpo va protetto dai predatori, nascosto nella terra. Forse esegue i primi semplici riti per accompagnare il defunto. Forse il sacro, il divino, l’entità superiore si prenderà cura di colui che deve passare oltre.

La prima apparizione del sacro manifestata nell’opera dell’uomo viene espressa nelle grotte dipinte già molto tempo prima di Göbekli Tepe. Le più famose si trovano in Francia e anche qui come in Turchia, migliaia di anni dopo, i soggetti protagonisti della narrazione sono animali. Molto rare e schematiche sono le figure che rappresentano l’uomo . Animali, molti, magnifici, potenti, come un’arca di Noè le caverne ospitano le immagini della fauna che si aggirava in Europa intorno a 40.000 anni fa: leoni, rinoceronti, cavalli, uri, renne, mucche, tori, cervi, animali che in parte troviamo anche a Göbekli Tepe. Perché animali? Che cosa rappresentavano? Che rapporto c’era fra loro e l’uomo? E riproducendone le figure in luoghi nascosti e arcani se ne voleva carpire la forza, l’abilità, l’agilità, la naturale potente vitalità? Animali, animali… qualche volta anche l’uomo ne ruba le sembianze, come l’uomo-leone (Germania, Hohlenstein, 40.000 anni fa) o l’uomo che si cela sotto la pelle di una chimera: corna, coda, occhi sono un miscuglio di vari soggetti assemblati in questa figura che nasconde all’interno un uomo, se ne vedono le mani e i piedi, vistosi genitali e un bagliore negli occhi in fondo alla maschera che copre completamente viso e corpo (sud della Francia, grotta di Les Trois-Frères, 15.000 anni fa). Chi sono? Maghi, stregoni, sciamani che entrano nello spirito dell’animale o diventano la bestia stessa. Creature totemiche a Göbekli Tepe: ne troviamo tantissimi, questa volta scolpiti nella pietra di santuari costruiti dall’ingegno e dal lavoro dell’uomo. Spesso sono feroci o velenosi ed è ancora più misterioso il loro rapporto con l’uomo e i suoi riti. Sono passati millenni dall’epoca delle grotte dipinte di Chauvet o Lascaux o Altamira. Che cosa vogliono rappresentare ora? Nel Paleolitico superiore trasmettono forza, grazia, armonia. I protagonisti di Göbekli Tepe invece sono cupi, inquietanti, quasi macabri.La storia che raccontano sembra essere diversa, anche se altrettanto misteriosa. È proprio durante l’ultimo tratto del Paleolitico superiore che avviene un profondo cambiamento nella vita degli uomini. È questo il momento in cui l’evoluzione ci farà imboccare un percorso che ci porterà ad essere prima contadini e allevatori e poi sedentari fondatori di città. Ci sono molte teorie che cercano di fare luce sulle cause di questo grandissimo mutamento.


Arriviamo all’inizio dell’VIII millennio, quando si verifica un evento il cui significato ci è impossibile capire: non solo non si costruiscono più edifici sacri ma si dismette anche l’uso di quelli ancora in funzione: vengono celati alla vista, coperti con sassi e terra, sepolti ma non distrutti. Il santuario viene abbandonato e occultato, probabilmente dalle stesse genti che lo avevano costruito e frequentato, il motivo ancora una volta resterà un mistero. L’idea di Schmidt è che questa azione di annullamento fosse volontaria, oggi questa teoria non è accettata pienamente da qualche archeologo, si parla di cause naturali che avrebbero ricoperto il luogo come grandi smottamenti e frane con conseguente crollo degli edifici. Il mondo dei mesolitici è cambiato. Il loro modo di vivere ora si basa su un nuovo tipo di economia che li trasformerà in contadini sedentari. Il “cacciatore” perde importanza assieme ai suoi riti e ai suoi vincoli religiosi e assieme a essi scompaiono anche i suoi luoghi di culto. Prenderanno altre forme in altri luoghi. La montagna sacra, priva di sorgenti d’acqua e di spazi coltivabili, non è adatta alle nuove esigenze degli uomini e viene abbandonata. Ora c’è bisogno di terreni pianeggianti e fertili, perché l’uomo, anche grazie alla immane costruzione del tempio, ha imparato per necessità a seminare e mietere. La vita si sposta nei fondovalle, dove lo sviluppo dell’agricoltura e in seguito dell’allevamento di animali domesticati, permetterà e favorirà il grande passo verso il Neolitico.


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Editoriale numero 58

Il Numero 58 della Rivista tratta finalmente un argomento a lungo sollecitato dai lettori di Sardegna Antica. Mira a un bersaglio molto ambito: un aggiornato chiarimento didattico-scientifico sulle statue di Monti Prama, cui si giunge dopo una “preparazione” sviluppata nei due numeri precedenti. Sarà – crediamo, immodestamente – un numero da collezione, unico e irripetibile, nel quale le Grandi Statue Sarde sono un argomento di gran peso, in tutti i sensi. Ad onta della sintesi, non tutto il ponderoso argomento ha potuto trovare posto in un unico numero. Alcune imprescindibili considerazioni conclusive seguiranno nel fascicolo n. 59.


Molte ipotesi popolari, false e strumentali, imprecise o favolistiche, troveranno definitiva confutazione in queste pagine, seppure esse fossero mai state credute vere in passato. Come sempre, ogni autore si assume la responsabilità culturale di ciò che afferma. Le argomentazioni proposte ci sembrano convincenti, e già questo sarà un merito: perché se, da una parte, è inaccettabile che Scienza e Storia siano piegate a interessi politici e/o commerciali, d’altra parte non si deve permettere che un tema culturale di vero interesse mondiale sia ridotto a strumento tanto provinciale e identitario da scadere in discussioni dai toni accesi e incongrui, coi tipici, rozzi modi dell’ignoranza più ingovernabile e sanguigna. I nodi culturali e cronologici, d’antica origine, sono personali dei singoli autori, come già detto.

Ci è sembrato giusto ripubblicare qui l’articolo originale, in Campidanese, con cui Giuanni Lilliu comunicò, nel 1983, per la prima volta in termini divulgativi, sia la scoperta delle statue sia i suoi significati “ufficiali”. Vale la pena perché del fascicolo, è giusto notare, si vendettero tante copie, ma non moltissime. [Per i pochi che non hanno consuetudine col sardo, la traduzione in Italiano è qui proposta, a fronte, a cura di G. Manca].
“Sardigna Antiga”, in origine, oggi Sardegna Antica C.M., nell’occasione dedicò alle Statue la copertina, che ricompare in queste pagine. ¿Troverà motivo di “pace” chi ancora sostiene un generale e voluto occultamento? Tuttavia, ¡resta pur vero che ci furono lunghi anni di attesa, tentennamenti e disguidi! Quel ritardo, semplicemente chiosa ed esemplifica le grandi difficoltà – non economiche! – in cui si dibatte tutta l’archeologia italiana e specialmente quella sarda, da tempo agonizzante.


Un inedito articolo di C. Tronchetti chiarirà persino ai non addetti ai lavori il motivo per cui noi riteniamo che egli sia da considerarsi “il vero scavatore” di Monti Prama. Altro è dire della misura in cui ciascuno è disponibile a condividere la collocazione culturale in un ancora seguito Nuragico lilliano, sospetto per longevità. Certamente lo scritto, di prima mano, sarà gradito anche agli esperti veri.

Un punto di vista personale, da parte di chi visse in prima fila quegli anni e quell’ambiente, sarà offerto da L. Scano, che poi si adoperò, col compianto Francesco Nicosia, già Soprintendente di Sassari, per dare una svolta al crescente malcontento. Lo Scano diede una spallata politico-economica e fece riemergere le statue dagli scantinati restituendoli allo studio e al mondo.
I risultati del pessimo restauro non sono certo a lui imputabili, quanto a chi fu incaricata di sorvegliare appalti e operazioni di restauro… e non lo seppe fare.

M. Feo proporrà un originale inquadramento classificatorio del fenomeno di Monti Prama, a conclusione dei due precedenti, fondamentali articoli, comparsi nei fascicoli 56 e 57, preparatori al presente.
In questo numero trovano continuità o compimento la riflessione “Archeologia e università” (maiuscolo e minuscolo intenzionali), di G. Manca e l’argomento geologico e paleontologico di A.A. Tronci. Altri temi d’interesse sono “Il culto dei morti” di G. Enna e la ricerca di Andrea Muzzeddu, sulla persistenza di riti antichi nelle prassi funerarie moderne.
Segnaliamo, per la penna di N. Bruno, l’assoluta novità di “Linguistica storica”: una critica distaccata, foriera di una stimolante proposta che darà vigore alla tormentata linguistica isolana.
Un’antica, multiforme divinità è richiamata nella recente ricerca su Giove Dolicheno della nostra M. Andreoni, affiancata dala studiosa F. Vecchi.
L’articolo di R. Lupieri Perissutti ci offre una ricca e aggiornata sintesi dell’evoluzione “per tappe rivoluzionarie”del genere umano, dalle australipitecine fino al Sapiens odierno.
Singolare è lo scritto scientifico di M. Fregoni, “Silvestrone sardo”, che dà notizia di un primato mondiale in Sardegna, toccato da un’insospettata essenza vegetale. M. Fregoni ci affida, con scienza specialistica, la meraviglia e il sorriso: ottimo viatico per la speranza anche in queste fasi travagliate.
Si chiude l’elenco delle opere e dei collaboratori per questo numero, indubbiamente speciale, rimandando i lettori anche all’unica breve recensione, di un libro particolare per il suo messaggio umano e affettivo.


È inutile elencare le difficoltà d’ogni genere affrontate (Archivi bloccati, Musei chiusi, Fonti e contatti indisponibili, impossibilità di fare ricerche sul campo, economia languente e seri problemi di salute di alcuni autori), che affliggono anche la Redazione, in questo infinito periodo di crisi sanitaria, economica e politica.
Valga per tutto solo notare il rammarico espresso alla redazione da C. Tronchetti per non potere accedere al migliore materiale fotografico, che avrebbe voluto accludere al suo scritto inedito.
Malgrado tutto, non s’interrompe la pubblicazione di queste nostre sudate e amate pagine, che – dalla provincia più interna della Sardegna – idealmente vogliono abbracciare unitamente i lettori, la cultura sarda e quelle mediterranee.

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Editoriale n.56 di Giacobbe Manca

Sardegna Antica è un semestrale culturale per tutti: con o senza titoli, preparazione specifica in Storia, in Archeologia o altro.

Si può credere che molti, nostri lettori e non, possano anche essere molto confusi dalle odierne discussioni “culturali” – tra “favolette ufficiali” e ciarlatanerie di popolo, cui siamo sottoposti: dal web alla TV, dai giornali a certi libri incerti.

¿Chi ha ragione; chi ha torto, chi è più ciarlatano e perché? Il lettore, per sciogliere i fastidiosi dubbi, vorrebbe poter decidere da sé o confrontarsi con persone “affidabili” (¿ma chi lo è in questa ridda d’ipotesi, violenze verbali e arringhe populiste?).

Sardegna Antica ha pubblicato già in passato articoli d’accusa e propedeutici a questi difficili giudizi. I ciarlatani insopprimibili rispuntano come gramigna nell’orto, con argomenti arroganti e sempre più violenti.

Da tempo si leggono frequenti atti d’accusa da diverse “barricate”, mossi da outsider d’ogni disciplina, più spesso contro singoli o l’insieme degli Archeologi “ufficiali” (università o soprintendenza), per vere, più spesso, o presunte “barbarie” commesse a danno del comune Patrimonio Monumentale isolano.

Quelle accuse non hanno spesso un fondamento, come affermare, per esempio, che i reperti di Monte Prama siano stati deliberatamente nascosti per chissà quale oscura manovra anti-sarda.

Non furono mai nascosti, ma solo ignorati per pusillanimità e incapacità, in quei frangenti, a comprenderli correttamente

In genere, gli accusatori non possiedono manco le minime basi culturali specifiche: in quei casi dovrebbe essere più semplice smascherare i ciarlatani, ma non sempre è semplice capire quali siano le loro intenzioni, celate da molti veli.

Il condizionale è d’obbligo, perché molti di questi insulsi strilloni populisti godono, purtroppo, di buona fama e ampio seguito.

In rari casi – invece – il ciarlatano è colto, possiede titoli necessari e “lavora in ambiente”: allora per il lettore appare arduo riconoscere “la verità”. L’errore commesso da questi individui è un “falso erudito”: il più vile e lurido tradimento che si possa compiere contro la Cultura.

Alcune “voci” però, vogliono restare obiettive e distanti dai contenuti aberranti dei detti ciarlatani-strilloni diversamente collocati: siano esse voci ipocritamente ufficiali, sia “autorizzate dal potere”, sia umorali e/o estemporanee.

Sappiano i lettori che il semestrale “Sardegna Antica” vola alto, al di sopra delle indicate miserie umane degli improvvisatori descritti o degli interessi dei cattedratici cooptati coi loro codazzi-fans, annuenti in attesa di briciole del potere.

Ben si sà, non basterà dirlo e, di fatto, il dubbio del lettore persiste: ¿come – dunque – riconoscere i ciarlatani? Partiamo dal presupposto che – si dice a ragione – “La Verità è nuda”.

Intendendo con questo l’incontrovertibile trasparenza di ciò che è vero perché scientifico, dimostrabile.

Alcune persone, di qualsivoglia collocazione o provenienza “s’affrettano a rivestirla dei loro orpelli… la povera Verità”. ¿Perché lo fanno? Semplicemente perché, in fondo-in fondo, covano interessi e/o vantaggi personali.

Politici, economici, di fama, di relazione, di guadagno

Ricordo ai lettori che Sardegna Antica è sostenuta da studiosi veri e soprattutto non ha scopo di lucro (non sarebbe in buona salute se così non fosse) e ben lo sanno ora gli sbavanti che provarono a “sottrarci” lettori e iniziativa, benché spalleggiati da molti soldi pubblici garanti.

Un altro enunciato importante è: “Amare qualche cosa significa rappresentarla esattamente com’è”.

In sostanza, si devono descrivere obiettivamente sia i pregi dell’oggetto amato, sia i difetti, malgrado i quali lo si ama. Insomma, non si deve mai edulcorare o falsare ipocritamente.

Sappiamo bene che con questa filosofia si perdono alcuni lettori schierati o amanti delle favole e talvolta infantili, ma si guadagna alquanto in autostima e generale credibilità.

Descrivere il passato della Sardegna come si vorrebbe sia stato (anche se lo si vuole fortemente), è azione ipocrita, infondata, antistorica, ascientifica e vergognosa. Certi furbi descrivono storie e vicende proprio come i loro “seguaci” desiderano: lo sanno bene.

Vogliono solo vendere i propri libri o “comprare” voti, acquisire fama, soldi, simpatie e vantaggi, inviti a feste (anche inventate ad arte), sagre, congressi vari, presentazioni e manifestazioni… tutte occasioni per vendere “libri zeppa”, solo buoni per fermare tavoli pencolanti.

Scoprire il gioco di questi furbi truffatori è semplice: ¡seguite la traccia… dei soldi! Tutti i ciarlatani (sardi gloriosi compresi) inseguono i soldi.

La linea di Sardegna Antica è invece quella di combattere le malefatte, le inesattezze, le stupidaggini archeologiche o storiche ecc., senza quartiere né remore di sorta.

D’ora in avanti contiamo di stigmatizzare meglio i soprusi e i danni perpetrati a danno del comune patrimonio culturale e monumentale sardo, chiunque sia l’attore e di qualsivoglia levatura e “autorità acquisita”, senza eccezioni.

Questo vale per la recente (e antica) denuncia a carico dei menhir di Bidu ‘e Concas (non sono chiari gli intenti, ma c’è qualche fondamento), mentre rimandiamo alle passate denunce, come pure alle future che ci premureremo di segnalare ai lettori e… alla magistratura (non se ne può più di gravi scempi e abusi di certe mancate spose).

Immagine di apertura: Tomba di giganti arcaica Li Lolghi – Arzachena, miseramente ricomposta, con gravi errori di postura della stele e ricostruzione dell’esedra, che pare annoverare ortostati improvvisati, impropri o non congruenti

Combatteremo anche con recensioni di libri, specie se inutili, costosi e spesso finanziati con fondi regionali. Tra l’altro si veda già qualche esempio fra le recensioni di questo fascicolo.

Preannuncio articoli a venire, interessanti come sempre, ma questa volta forieri di possibili conseguenze… che affronteremo in diverse sedi.

In coscienza dico che il lettore di Sardegna Antica può fidarsi: con noi dispone di un interlocutore fermo, onesto e aperto al dialogo, che lo terrà coi piedi per terra, specie quando i furbi conta-storielle cercheranno di rifilargli per vero l’invisibile “unicorno rosa”… ¡perfino in televisione!

Per le vicende di Preistoria e Storia – quelle dimostrate -, la Sardegna deve essere più che fiera di ciò che fu e per la grande importanza nell’evoluzione dell’Occidente moderno: non c’è bisogno di trucchi giornalistici, né di belletti posticci, meschini, risibili e controproducenti.

Giacobbe Manca

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CRONOLOGIA MISTICA

Pieghe mentali e mancata Scienza di Giacobbe Manca

É una questione di credibilità.

Molti, troppi indizi consentono dubbi sulla strana cronologia del Nuragico attualmente utilizzata in Sardegna e, incredibile a dirsi, viene pure presa sul serio dagli studiosi italiani e persino dagli europei: credo in buona fede e per mancanza d’altro.


La questione è molto, direi troppo importante per lasciarla correre. Specialmente per i molti guasti che derivano da una periodizzazione attualmente diffusa “in ambiente”: alquanto miope, a mio vedere.
Di fatto s’ingenerano errori, perdite di tempo, spreco di carta e inchiostri, in ricercatori che assai meglio potrebbero impiegare il loro ingegno in cose più costruttive.

Per associazione di idee, esco dal vago ed entro nel velleitario, penso alla presunta scrittura nuragica, che a iniziali tratti di stimolo lascia il campo a pedanti e caparbie posizioni speculative.

Penso che se il nuragico non fosse ridotto dalla cosiddetta accademia a quel “calderone” smodatamente ampio e accomodante, molte ambiguità sarebbero non solo superate, ma non sarebbero state neanche intraprese:
uno scritto più o meno vago o proponibile, databile a un’avanzata Età del Ferro, per esempio, in nessun modo potrebbe essere ritenuto e preteso come nuragico, se fosse finalmente chiaro a tutti che la detta, straordinaria epoca dei costruttori di nuraghe, si era già conclusa da secoli prima.

Si tratta di voler vedere e accettare, secondo scienza – per metodo – e non per schieramento di una o altra tifoseria.

Per questo ho da tempo il desiderio struggente di ripercorrere le tappe che hanno visto i presunti ricercatori archeologi predecessori alla scrupolosa ricerca del quadro cronologico in cui calare le vicende
preistoriche della Sardegna.

Si tratta, insomma, di chiarire come si è giunti infine a determinare quella
griglia del tempo nuragico e, per capire, quale valore scientifico essa possa avere: un esercizio che sarebbe salutare anche per le povere università isolane, dove “la cosa” è rifilata agli allievi come garantita, in virtù di altere posizioni dogmatiche (gli archeologi sono tutti “credenti”) e sottaciuta nella sua intima dinamica compositiva (prendere o lasciare: a scatola chiusa, senza spazi per dubbi).

Sarà un impegno gravoso, lungo e paziente, forse tedioso, e per questo da anni tengo “lontano da me questo calice amaro”.

Col passare del tempo, però, è divenuto necessario e persino urgente, quagliare argomenti solidi per uscire dalle molte facce dell’ambiguità,
con cui sono costretto a confrontarmi.
Per principiare il gravoso excursus storiografico, credo sia opportuno andare rapidi sui calcoli fatti dal canonico G. Spano nel suo trattatello sui nuraghe.


1 Egli propone date assolute incontrollabili, ma garantite dalle discendenze bibliche, ¡da lui interpretate!
Nei popoli Caldei, che si dispersero tra Siria e Palestina, egli individua i costruttori dei nuraghe.
Non condivide l’Arri, secondo cui quei medesimi (G. Spano, Memoria sopra i nuraghi di Sardegna, 1854-1867, p. 48.) transfughi edificarono i nuraghe solo verso il 1546 a.C. (sic!), ovvero quando lasciarono la Palestina per l’occupazione di Giosuè.

Egli afferma, invece, che tutto dovette avvenire prima di Abramo, tra il secondo e il terzo secolo dopo il diluvio universale: esattamente 292 anni dopo quell’evento (sic!), ovvero 2322 anni prima di Cristo (ancora sic!).

L’ispirazione architettonica fu data dal naïve impegno edile di Caino, il quale edificò una città turrita [s’intenda una torre città] e la chiamò Enoch, come il suo figlio maggiore.


Si può convenire che i dati sopra enumerati siano un tantino sospetti, ma comunque interessanti: non posso fare a meno di notare una “straordinaria” vicinanza della data dell’Arri con quella più attuale fornita oggi dalle scuole universitarie quella dello Spano non poté essere accolta dall’accademia:¡troppo mistica!)
ma le convergenze potrebbero essere casuali.


La successiva sintesi, ben più moderna, venne circa un secolo dopo da Massimo Pallottino.

2 Egli propone uno schema a larghissime maglie; accetta la diffusa opinione che il Nuragico si debba ascrivere all’Età del Bronzo (¿perché? – ¡non è dato sapere!).

Stando a questa ferma visione, i primi nuraghe risalirebbero a un “certo tratto” dell’ampio ventaglio di secoli compresi tra il 1500 e l’800 a.C., nel quale s’affaccierebbero la fine dell’Eneolitico e l’avvio del Bronzo…


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LA GUERRA PIÙ ANTICA

Premessa Alla domanda: “Qual è la guerra più antica?”, la risposta più corretta sembrerebbe essere: “Quella del 2.700 a.C., vinta da Sumer contro l’Elam, in cui Enembaragesi, re di Kish, spogliò gli Elamiti di tutti i loro possedimenti”.
Fu certamente una guerra tra due popolazioni ricche e stanziali ormai da vari millenni. Ma fu solo la prima riportata per iscritto dagli annalisti: e certamente fu preceduta da mille altre…

L’evidenza archeologica di “guerra” più antica in assoluto appartiene al sito di Jebel Sahaba, nell’odierno Sudan settentrionale ed è datata attorno ai 12.000 anni prima di Cristo. Quegli antichi resti d’esseri umani uccisi in azioni violente di guerra, ottennero un’accurata sepoltura nel vicino cimitero di Qadan: ciò lascia intuire che una popolazione già stabilizzata e non più nomade, ebbe modo e tempo di provvedere a sepolture tradizionali. Ciò conferma la “regola” della sedentarietà che causerebbe la guerra.

Il problema In questi ultimi anni, si assiste ad un tambureggiante crescendo rievocativo delle presunte grandezze culturali, marinare e militari dei Sardi del passato.
Più spesso si tratta d’iniziative d’entusiasti “non addetti ai lavori” (come chi scrive questo articolo, s’intende!), ma talvolta persino di aventi diritto, con tanto di titolo d’archeologo.
Si può fare un po’ di chiarezza?
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LA CENA DELLE ANIME

Un’osservazione filmica della tradizione sarda nella Notte dei Morti
di Ignazio Figus

“La notte del 2 novembre si mangiano di prammatica “sos macarrones de sos mortos” (i maccheroni dei morti).

Prima di porsi a letto le famiglie preparano sulle mense un gran piatto di questi maccheroni, che sono destinati ai defunti parenti.
Le anime entrano alla mezzanotte nelle case, girano intorno alle mense imbandite, e se ne partono quindi saziate dal solo odore delle vivande.

Se invece non si prepara alcun piatto, i morti se ne vanno via sospirando…” .

Questo scriveva nel 1834 il poeta, giornalista e folklorista, Giuseppe Calvia Sechi nella Rivista delle tradizioni popolari a proposito delle usanze familiari logudoresi in occasione della commemorazione dei defunti.

Nelle note relative a questa descrizione lo studioso ci informa che: “È un ricordo evidente del culto dei morti in Grecia e in Roma…” e ancora “Pare di assistere alla scena di Tiresia e delle anime vaganti attorno al fosso scavato da Ulisse, e descritto da Omero nell’XI dell’Odissea…


Questa relazione vivi – morti evidenziata dal Calvia, sembra dunque sottolineare una ricerca di risposte a interrogativi eterni che riguardano la vita e la morte e il nostro rapporto con esse.

I defunti, in qualche modo, non sono separati dalla comunità, ma continuano a farne parte ed è necessario sfamarli, oltre che imparare ad ascoltarli traendo insegnamenti per il prosieguo della nostra vita.


Il culto dei morti è un elemento centrale nella cultura popolare della Sardegna. Rappresenta indubbiamente uno dei temi classici dell’antropologia e trova nell’Isola (e nel meridione d’Italia) espressioni ancora vitali e analizzabili…


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UN METODO PER L’ARCHEOLOGIA

“Spallate d’autore” o Faulabberu”
di Giacobbe Manca

¿Quale Archeologia?
Desideri e Clima avverso
L’obbiettivo è scrivere di ricerca in ambito preistorico senza ripetere amenità trite; voglio percorrere una strada nuova per la ricerca in Sardegna, aperta nell’ambito dell’Architettura Preistorica, oltre le stucchevoli convinzioni riportate in manuali obbligatori, nati stantii. Puntare l’obiettivo sulle tecniche non riscuote i consensi dovuti, ma sono ineludibili anche se subdolamente evitate, finora. Introducendo gli argomenti tecnici penso sia cosa buona e giusta eliminare macerie e cianfrusaglie fin qui prodotte dai tanti “padroni” dell’Archeologia in pagine assai lontane da una qualche parvenza di scienza.
Si tratta di lembi stucchevoli di un folklore archeologico tutto sardo.


L’Architettura e le Tecniche Preistoriche si apprendono in specie sul campo, studiando di persona molti monumenti, cui si sommano gli apporti di operai intelligenti, laureati alla scuola dell’esperienza artigiana: sono cavapietre, scalpellini e costruttori di veri muri a secco (solidi), che, per fortuna, mi hanno accompagnano agli scavi.
Con giuste conoscenze si fanno i passi nella ricerca di settore, ben oltre l’attuale storiografia, ricca di contraddizioni e molte amenità. Eppure, gli addetti hanno sempre attinto a quella, acriticamente.
Il loro “attingere” (¡incredibile a dirsi!) lo definiscono “metodo
storico”; di fatto sono tristi sottrazioni di pensieri altrui.
Il cosiddetto “metodo” degli accademici, infatti, è solo un sotterfugio attuato da chi fruga nelle tasche altrui, non fa ricerca scientifica e, poveretto, in concreto non sa leggere un monumento.
E le fantasie accademiche sono chiamate scienza!

Misera tempora cucurrunt
A considerare la consistenza delle conoscenze tecniche
possedute da ampia parte degli Archeologi di Sardegna, dopo “soli” due secoli d’indagini così “autorevolmente reclamizzate”, viene lo sgomento.
Tralasciamo i pochi lumi del ‘700; sorridiamo sulle menate fenicio-egizio-pelasgiche ottocentesche; soffriamo per i penosi strascichi del primo Novecento (fascismo, leggi razziali, ecc.); smaltiamo la decadenza da contagio e nepotismo dei lustri postbellici, forse ineludibile, che purtroppo continua fino a oggi e appare chiaro che non di vizi epocali s’è trattato ma di secolari “carenze vitaminiche”.
Questa sarda è da sempre una terra di rapina dove l’assenza di metodo è cronica (specie nelle dissimulate procedure d’indagine archeologica). ¡Si tratta, credo, d’intellettuali carrieristi, straniti per gli immeritati scranni su cui sono assisi! Forse però c’è anche altro…
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Architettura preistorica e SINDROME DEL CONDOTTIERO

di Giacobbe Manca

Studiare un edificio significa leggerne la propria funzionalità socio-economica. Esso rappresenta, insomma, una risposta concreta a precise esigenze della società che lo ha espresso, sia essa piccola o grande.
Che più spesso, poi, gli archeologi non riescano a “chiarire” in modo esauriente la funzionalità di un certo edificio preistorico è un fatto solo in parte legato alla difficile penetrabilità delle intenzioni degli uomini preistorici: più spesso si tratta degli ineludibili limiti di noi moderni… e non solo.

A ben riflettere, limitatamente alla varietà tipologica dei monumenti richiamati nel riquadro appare sempre che essi sono in un qualche rapporto con le isole, più o meno grandi.

Un rapido sguardo ad essi, prima ancora di una procedura scientifica, sembrerebbe di consentire, di ipotizzare, singolarmente, una sorta di rapporto inverso fra la dimensione delle isole e l’imponenza e il numero dei monumenti da esse espressi.

Il rapporto appare più marcato se si volesse fare un riferimento al relativo potenziale umano. Si pensi, per esempio, al “sese grande” di Pantelleria (minuscola isola) a confronto con i nuraghe arcaici a bastione e stanzine della Sardegna, sia pure di maggiori dimensioni: ma l’Isola è molto più estesa e doveva essere ben più popolata).

Si pensi, ancora, alla concentrazione monumentale nell’isola Minorca, ben maggiore di quanto si rileva nella più estesa Maiorca. L’argomento sopra accennato, ancora aperto, nasce da uno spunto colloquiale avanzato da Maurizio Feo, l’apprezzato autore di numerosi scritti in Sardegna Antica C.M. e di libri (pubblicati dal CSCM).


Di fatto, i manufatti antichissimi, esprimono sia le abilità di chi le ha realizzate, sia la loro partecipazione a conoscenze più ampie, proprie di un ambito antropologico ben più ampio.

Il sostrato culturale e gli intrecci di radici antiche vanno ben oltre l’orizzonte cantonale in cui i popoli vivono: un ambito tanto vasto
che può comprendere, in questo senso, tutte le terre che s’affacciano al Mediterraneo, per esempio.
Ci sono poi consuetudini ancora più generalizzabili, connaturate alla specie umana e alla sua plurimillenaria esperienza con i materiali messi a disposizione dalla natura: frasche, rami, pali, terra, argilla, pietre
dure, massi, lastroni, pelli, fibre, ecc..

Tutto poi risponde alle leggi naturali della fisica, per cui una procedura edificatoria può avere un senso e avrà futuro, o non averne affatto.

Dove non arriva l’intuito dell’uomo, sarà l’osservazione dei fatti naturali a portare soluzioni, giacché non può essere vinta l’intrinseca natura dei materiali e delle forze che li governano.

La possibilità di realizzare e regolare un’accumulazione primitiva di beni (per ampia disponibilità di cibo e strumenti) avrà effetti non solo sulla qualità della vita ma confluirà anche in opere di utilità comunitarie, persino impegnative.

La realtà architettonica espressa da un popolo sarà dunque conseguente al “potenziale” del territorio e alle sue capacità produttive. Insomma, è la cultura, l’economia, il grado di abilità tecnica acquisito (ovvero il complessivo grado di civiltà raggiunto da una popolazione, o da un clan sufficientemente numeroso, che si concretizzerà in una specifica architettura.

Ancora, è da credere che sarà l’esperienza, consolidata nelle soluzioni tecnico/costruttive tradizionali, ad attestare i differenti gradi di razionalità espressi o messi in atto negli edifici (e dunque “leggibili”).

Porre a confronto esempi delle diverse categorie di monumenti preistorici, evidenzierebbe il come in essi siano impliciti fattori riconducibili a realtà configurabili, sia nella demografia sia nell’economia.

Insomma, dal contenuto tecnico-architettonico osservabile in ogni monumento si potrebbero ricavare fondate ipotesi, sia sul successo demografico sia sullo sviluppo socio-economico ma anche sulle intime e generazionali “vocazioni” di un popolo preistorico.

Nell’inquadramento architettonico dei monumenti interviene, dunque, l’estensione territoriale, la specificità dei suoli e, appunto, l’economia di una data collettività che li ha prodotti.

É lapalissiano: vivere in zone sub-desertiche o paludose significa disporre di assai meno risorse rispetto a coloro che vivono in aree boschive o in pianure, ben più adatte alla produzione di cibo e mezzi.

Inoltre, dall’analisi attenta di un “tessuto” murario, si possono individuare non solo le tecniche ricorrenti ma anche le soluzioni costruttive (l’intelligenza), come pure l’intera sintassi o la filosofia costruttiva sottintesa in ogni singolo edificio: s’individua, in sostanza, la categoria cui ascriverlo e quindi si potranno esprimere convergenze o difformità con altri monumenti preistorici.

Dolmen diffusi in territori caucasici e del Mar Nero. Si noti il riquadro a bassorilievo, che rimanda alle tombe di giganti.

Col detto processo ermeneutico, dunque, si possono accrescere le conoscenze dei componenti distintivi contenuti nell’antica scienza del costruire (pensieri, criteri, tecniche), che sono impliciti nei monumenti detti e derivarne, pertanto, molte conoscenze correlate.

Individuare “comuni denominatori”, per dirla con l’aritmetica, può essere utile a rivelare parentele, progressi e convergenze.

Senza voler entrare in tecnicismi ardui, per dare un primo, semplice esempio, si potrebbe dire che tutti i monumenti preistorici sono realizzati a secco (ovvero non hanno malte aggreganti); che i massi concorrenti a siffatte opere, sono collocati solo in determinati modi e non in altri: parlo, insomma, della statica di muri che si possono definire logici, ben precedenti alla scoperta dei cementi e che, pertanto, prescindono da quel diverso criterio.

Si deve prendere atto che le richiamate costruzioni, che si conviene definire a secco, hanno regole precise che, ahimè, sfuggono in toto a troppi archeologi no- strani detentori di scranni e, pertanto, solo tale vuoto costoro possono trasmettere agli ubbidienti seguaci.

Da qui, a mio vedere, discendono i guasti infiniti (mancato progresso o enormi assenze conoscitive) che sono stati prodotti da certa letteratura fantastica (giustificata – a loro dire – dal “metodo storico”), che definisco insensata, ottocentesca o vuoto-velleitaria. Penso si possa giungere a dire che la filosofia tec- nico-edificatoria nella preistoria sia sostanzialmente una sola.

Dato un progetto preistorico in planimetria e in elevato, l’unica norma consta nel disporre i blocchi componenti i muri in modo nettamente stabile e concatenato: senza deroghe o cedimenti.

Non sembri questa una banalità, né cosa semplice, giacché l’evocata stabilità o solidità dei muri a secco (che si potrebbe assumere come proverbiale nel caso dei nuraghe, per esempio) pardossalmente appare uguale in tutte le varietà dei paramenti murari, siano essi concavi, lineari, verticali, aggettanti o arretranti, o, non è assurdo, persino convesso-aggettanti

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Fonti battesimali tardogotici di Ardara e Bisarcio

Il recupero di antichi arredi liturgici nella basilica di Santa Maria del Regno di Ardara, tra questi il pulpito recentemente ricollocato a destra della navata, in prossimità dell’altare, ha ridestato nuovo interesse per la tutela anche di manufatti di cui si è persa memoria storica.

Così, nel maggio scorso, in occasione della festa della Patrona massima della diocesi di Ozieri, si è avuto modo di ritrovare tra le colonne dello stesso pulpito, proprio lì dove, in passato, a memoria d’uomo pare sia sempre stato, un massiccio blocco di calcare bianco, artisticamente lavorato.

La notizia del rinvenimento degli antichi fonti di Ardara e Bisarcio è stata anticipata, in forma giornalistica, in Ritrovamento: I fonti battesimali di Ardara e Bisarcio (I-II-III parte), «Voce del Logudoro», a. lxv (2016), nn. 21-23, pp. 5.

Secondo una tradizione locale, raccolta da Tonino Cabizzosu già parroco del paese, su quel qualcosa di non meglio definito, volgarmente riconosciuto come parte di un altare, avrebbero prestato giuramento numerosi giudici di Torres, che in Ardara elessero la capitale del regno.

L’ipotesi, per quanto affascinante e suggestiva, è poco credibile per la sopravvivenza di talune ornamentazioni tardogotiche sul manufatto, che lo collocherebbero in epoca postgiudicale. Appare certo, invece, che, per giusto rispetto di quella sua presunta funzione liturgica, suor Flavia Pigliaru, da sempre attenta alle storiche pertinenze della chiesa, in conseguenza dello smantellamento del pulpito l’abbia ritirato e religiosamente custodito per qualche decennio, nel retrostante asilo infantile.

Da una prima analisi, il grosso blocco monolitico (diametro cm 75 x cm 43 di altezza) rivela un taglio impostato per una precisa geometria a sezione trasversale ottagonale e longitudinale trapezoidale ‘a calice’, oggi compromessa da un’ampia sbrecciatura e dalla perdita di una distinta porzione complementare di circa tre ottavi. Quest’ultima in origine era stretta al superstite corpo principale di cinque ottavi da lunghe grappe forse di ferro, ormai perdute, che hanno solcato la sezione longitudinale posteriore della pietra con un disegno a ‘M’.

Non si è a conoscenza, al momento, di altri bacili scavati su due conci accostati. Per una certa friabilità della pietra, non si esclude che il concio, forse in origine monolitico ottagonale, possa essersi fratturato in corso d’opera, in fase avanzata di lavorazione e per questo risarcito della parte lesionata

Nel piano superiore del concio, come una sorta di – si passi il termine – improprio ‘abaco ed echino’, è sbozzata una conca di 40 cm di diametro, per una profondità massima di circa 8 cm, atta a contenere un bacile asportabile per il ricambio dell’acqua, forse in rame, piuttosto che le reliquie di un altare, di norma alloggiate in un sepolcreto quadrangolare.

Un primo elemento di conforto di questa pista d’indagine, che si propone di dimostrare che quel che resta è porzione di un fonte battesimale tardogotico sardo-catalano, giunge da Edouard Urech che ricorda come «nell’epoca del gotico ogivale le vasche divennero sempre più piccole: da rotonde che erano, divennero ottagonali e furono erette su uno o più supporti».

Ma il binomio otto / fonte battesimale è ben più antico e lo stesso s. Ambrogio, a proposito dell’architettura ottagonale dell’aula del battistero, ricorda come nel numero otto si sia tradizionalmente evocata l’ogdoade della riconciliazione con Dio, «perché ai popoli venne concessa la vera salvezza, quando all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte».

In Sardegna, l’intuizione del Vescovo milanese trova un primo riscontro nella vasca ottagonale per il battesimo ad immersione, a destra del sagrato del santuario di S. Lussorio presso Fordongianus, databile ad un’epoca successiva allo stato di abbandono in cui cadde l’antico luogo di culto nella prima metà del vii secolo.

Non solo, la stessa scelta di una pietra di un calcare bianco, in una chiesa, S. Maria del Regno, per il resto caratterizzata dal nero della scura trachite, è concordante con il bianco emblema di purezza6 e, quindi, del candore adamitico ritrovato nel più fondante dei sacramenti.

In ognuna delle cinque facce superstiti (largh. cm 23 x alt. cm 27), scandite da sei pilastrini gotici a sezione triangolare, sopravvive una ricca cornice del tipo di quelle delle predelle dei coevi retabli tardogotici sardo-catalani della basilica (prima metà sec. xvi), accostabile in qualche modo, per restare in ambito isolano, a quella ben più semplice del basamento del fonte battesimale tardo plateresco della parrocchiale di San Sebastiano di Sorradile del 1697.

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Ottusangoli e fole

Per il progresso dell’Archeologia sarda
di Giacobbe Manca

“Auspicato Profeta:… ma”
L’archeologo scozzese Duncan Mackenzie visitò almeno tre volte la Sardegna, tra il 1906 e il 1912, producendo quattro scritti per i quaderni della British School di Roma: solo il contenuto del primo fu proposto in italiano per la rivista culturale romana Ausonia; altri tre resoconti, mai giunti agli allievi sardi in archeologia, praticamente reperibili solo a Roma, restano ancora in lingua originale.


Per il centenario, il CSCM concepì di editare la traduzione e ’attualizzazione del terzo scritto (1910), ritenuto molto interessante proprio per l’apporto che si ritiene abbia dato all’Archeologia isolana.

L’iniziativa è andata a rilento per cause diverse, come la difficoltà obbiettiva di ottenere una voltura affidabile (stanti le contraddizioni e la “legnosità” dell’autore) e la necessaria rivisitazione di tutti i monumenti ivi analizzati. Intanto furono proposti diversi articoli in Sardegna Antica C.M.: in essi si analizzano monumenti molto importanti per la letteratura di settore e si evidenziano diversi svarioni contenuti negli scritti dell’inglese.


Alla luce di odierne analisi tecniche applicate ai monumenti “chiave”, furono proposte in particolare nuove interpretazioni degli stessi, ben più fondate e ciò fu riconosciuto (scambi personali) anche dall’allora indiscusso “facitore” dell’Archeologia isolana che, in un attimo di “incertezza privata”, ritenne di dover attribuire le colpe degli errori “non visti” … al Mackenzie.


Intanto, un’inusitata iniziativa editoriale, ben lontana dall’esegesi disciplinare, apparve qualche anno fa, retorico, senza motivazioni pedagogiche, né analisi o indagini specifiche. In essa sono pesanti limiti nella traduzione pedissequa del testo inglese, nell’evidente oblio dei monumenti descritti, e lungi dall’imperativo della necessaria attualizzazione dei contenuti, anche alla luce dei nuovi e numerosi apporti scientifici già divulgati ma ignorati in toto.


In concreto, salvo il catalogo dei siti, l’opera di Mackenzie è scientificamente irrilevante, eppure oggi egli assurge, per i cattedratici, ad autore “di alto e… profetico riferimento” stando a cotanta editoria. Nella detta pubblicazione si leggono vieppiù, valutazioni del tutto erronee e/o gratuite.
In ogni caso, emerge quanto – dal secondo dopoguerra a oggi – l’accademia sarda si è pedissequamente “appropriata” delle esternazioni del Mackenzie.

Infatti, nei manuali della disciplina, “imposti” agli studenti non si registra alcuna nota, chiara e inequivocabile, che rimandi all’inglese le intuizioni: le scoperte sarebbero, dunque, merito esclusivo dei “grandi” docenti-mito, trovatisi in carriera “proprio a seguito dei vasti vuoti culturali determinati… dalle leggi razziali”. Ciò spiega bene la forte reticenza e la sconnessa difesa dello status quo da parte di archeologi sistemati, ora orfani. ¡

Non fu solo Mackenzie a sbagliare, come il “potente facitore” pretendeva! ma tutti quelli che ne accettarono e ancora ne accettano, irrazionalmente, gli apporti: orbi carrieristi e “omertosi” in primis.

Preliminari e simil conclusioni

Ai tempi in cui Mackenzie venne nell’Isola, la Sardegna era vista da molti come un’anacronistica sopravvivenza antropica di semiselvaggi, palestra per etno-patologi alla Niceforo: tutto assai poco attinente con la Preistoria.

L’esplorazione attraverso quelle curiosità antropologiche, all’insegna dell’innatismo, ricercate nell’Isola dalla detta scuola inglese, gemmata nella recente capitale del potere piemontese, sembra riecheggiare la spinta indagatrice di certo pregiudizio allora seguito, sull’onda degli acclamati studi del torinese, influente e longevo, C. Lombroso (1803 – 1909).

L’attenzione “scientifica” di quest’ultimo riguardava il cretinismo e la propensione alla delinquenza – estesa, manco a dirlo, in specie alla Sardegna – le cui cause egli riconduceva alla “stirpe”.
Per tutti, in seguito, le scienze antropologiche fecero molti progressi concreti – non altrettanti quella archeologica, in verità.


In quell’ottica s’avviò in Sardegna la ricerca della British School at
Rome e in quell’avvio del 1906 si affiancò, si riporta, la curiosità archeologica dello scozzese, favorito dall’ambasciatore Egherton.


In tre autunni consecutivi egli esplorò, molte contrade della Sardegna, dal Capo di sopra all’altopiano del Guilcier e all’Iglesiente. Per i rilievi fu coadiuvato dall’architetto Newton, ottimo disegnatore di edifici preistorici; “sui monti” fu bene accolto da buoni indigeni che lo guidarono ai monumenti.

Tutto si svolse sotto una buona stella, come lui stesso scrisse.
Tornando al Mackenzie, tuttavia, bisogna riconoscere che quelli d’inizio Novecento erano tempi in cui gli studiosi ricercatori per comprendere andavano davvero a vederli… i monumenti.

Forti di ampie conoscenze pragmatiche (vedi gli archeofili tra Ottocento e primi del Novecento) li interpretavano, eseguivano o ne ispiravano il rilievo – sempre in loro presenza – e ne davano una “lettura” diretta – ben coscienti, credo, che essa fosse valida ma solo fino a maggiori progressi.


Tempo dopo, nei decenni del secondo periodo postbellico, in Sardegna si cominciò a vivere di assemblaggio e rendita (per esempio: i rilievi e le analisi del Della Marmora, del Taramelli, del Nissardi, del Pallottino, del Newton/Mackenzie ecc. furono (e sono) utilizzati, sia perché ritenuti più che accettabili sia, soprattutto, perché nessuno degli archeologi succedanei ai detti capi mitici mostrò di dover verificare, studiare o, ancor peggio, aggiornare (non dico ridisegnare – ¡Dio aiuti!).

Infatti, da allora tutto era (ed è) dato per certo e acquisito: ¡definitivamente e pedissequamente, per la beata umanità bisognosa di miti e sale da te!

“Tout de bot”, un noto articolo del 1910 di Mackenzie appare tradotto in italiano: non un saggio d’archeologia: la sola traduzione senza apporti culturali; lo premette una scarna biografia (pp.17-18).1

“Duncan Mackenzie, I Dolmens, le tombe di giganti e nuraghi della Sardegna”, Condaghes, 128 pagine; brossura BN, traduzione dell’articolo The Dolmens, Tombs of the Giants, and Nuraghi of Sardinia, (Papers of the British School at Rome, Vol. V, 2; London 1910).

Credo valga la pena soffermarsi, in breve, su alcuni aspetti: metodi, contenuti e pieghe mentali o culturali inferibili dalla detta traduzione. Il prodotto editoriale concerne, dunque, uno scritto di oltre cento anni fa: uno dei quattro dello scozzese riguardanti la Sardegna.

Risulta che il valente “archeologo preistorico”, lavorò per alcuni decenni in Egeo: a Cnossos (Creta), a Philacopy (Melos) e conosceva, oltre la sua Europa, anche il vicino Oriente.

Fu un valido aiuto di Evans, anch’egli una sorta di “mito” inglese, al quale diede certamente il suo destro, ma anche di più – dice taluno: “fornì” riflessioni e valutazioni non proprio riconosciutegli (fatti ricorrenti), forse a causa di mai chiariti umori tra lui e il famoso capo.

Dell’opera in questione e di alcuni contenuti/intuizioni del Mackenzie ho già scritto in Sardegna Antica C. M., n. 34, del 2008, nel sintetico articolo “Duncan Mackenzie e i dolmen sardi: cento anni di crepuscolo”, che ebbe qualche migliaio di lettori, ma che certo non è stato visto o inteso nel divino mondo stipendiato della “archeologia isolana”, statica e salottiera. A. Evans fu, più propriamente, un imprenditore colonialista dell’archeologia, come in quel momento storico usavano gli inglesi e non solo: era un “cacciatore” di oggetti per sé e per la “corona”, dal che ottenne il titolo di Sir: perciò non era un vero archeologo ancorché, come tanti, agì come tale.

Si sussurra che Mackenzie fu allontanato per la sua condizione di alcolista, ma si dice pure che il motivo “vero”, forse più umano, riguardava la bella compagna di Evans; altri ventilano sintomi di pazzia o sofferenze che causavano prostrazione fisica e mentale.

Molto resta vago riguardo a Mackenzie, ma nelle brume anglo-scozzesi è saggio non rimestare pettegolezzi e ci si attiene maggiormente alla scienza.

Preconcetto e maldicenza restano i lividi retaggi coltivati in orizzonti culturali e geografici angusti, come certa accademia isolana, dove la paura di un confronto scientifico è palpabile e si esorcizza talvolta con stizzose “liste di proscrizione”, lancio di melma e pugnali… alle spalle, naturalmente.

Mackenzie, lucido forestiero

Mackenzie aveva, dunque, ampie conoscenze specifiche: dal mondo megalitico delle sue contrade e della Francia, a quelle, assai più vaghe, della Corsica e delle Baleari;

come detto, ben conosceva anche diverse realtà dell’Egeo. Alle soglie dei cinquant’anni, con la sua vasta esperienza, si apprestava a conoscere l’oscura, peculiare preistoria della Sardegna.

Torno all’articolo, tradotto con intuibile impegno ma portatore di diverse pecche: ai molti passi non chiari o privi di significato, si aggiunga – come detto – la mancata attualizzazione di “certa” parte obsoleta dell’Archeologia di Sardegna. Insomma, un’occasione “perduta” per approdare a un’utile analisi bibliografica e contenutistica.

È, soprattutto, l’occasione mancata per riflettere, finalmente, sulla colpevole acquiescenza pluri generazionale verso contenuti solennemente erronei: quelli che gli orfani da mito sono ancora interessati a santificare… ab aeterno.

In tal segno, altro sconcerto deriva dalle “emanazioni” della cosiddetta Presentazione, che vorrebbe essere una premessa allo scritto in questione, ma proprio non ci riesce. Il libro ha in appendice il testo originale (trascritto… con mancanze), quasi utile per sciogliere i molti dubbi che affiorano dalla lettura.

Quanti leggeranno quella versione, dotata di “cotanta Presentazione”, tengano comunque per certo che, per l’Archeologia isolana, lo scritto del Mackenzie è proprio “preistorico”: è più che superato, solo valido per una salutare riflessione sugli errori del passato; magari è occasione per la rivisitazione dei monumenti descritti a distanza di oltre un secolo e un lustro.

Ora è pure una testimonianza indiretta delle pieghe psichiche di “studiosi” locali (dal secondo dopoguerra a oggi), che credettero di “appropriarsi” appieno delle opportunità lucide, straniere e gratuite – manna dal già defunto Mackenzie. Ancora oggi la tifoseria del Nuragico militarista ne subisce l’abbaglio (e la conferma diretta è nella “dotta” Presentazione): i dogmi emanati dai “capi-mito”, per taluni che ne sentono la dipendenza appaiono come un irrinunciabile oppio obnubilante


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