Il recupero di antichi arredi liturgici nella basilica di Santa Maria del Regno di Ardara, tra questi il pulpito recentemente ricollocato a destra della navata, in prossimità dell’altare, ha ridestato nuovo interesse per la tutela anche di manufatti di cui si è persa memoria storica.
Così, nel maggio scorso, in occasione della festa della Patrona massima della diocesi di Ozieri, si è avuto modo di ritrovare tra le colonne dello stesso pulpito, proprio lì dove, in passato, a memoria d’uomo pare sia sempre stato, un massiccio blocco di calcare bianco, artisticamente lavorato.
La notizia del rinvenimento degli antichi fonti di Ardara e Bisarcio è stata anticipata, in forma giornalistica, in Ritrovamento: I fonti battesimali di Ardara e Bisarcio (I-II-III parte), «Voce del Logudoro», a. lxv (2016), nn. 21-23, pp. 5.
Secondo una tradizione locale, raccolta da Tonino Cabizzosu già parroco del paese, su quel qualcosa di non meglio definito, volgarmente riconosciuto come parte di un altare, avrebbero prestato giuramento numerosi giudici di Torres, che in Ardara elessero la capitale del regno.
L’ipotesi, per quanto affascinante e suggestiva, è poco credibile per la sopravvivenza di talune ornamentazioni tardogotiche sul manufatto, che lo collocherebbero in epoca postgiudicale. Appare certo, invece, che, per giusto rispetto di quella sua presunta funzione liturgica, suor Flavia Pigliaru, da sempre attenta alle storiche pertinenze della chiesa, in conseguenza dello smantellamento del pulpito l’abbia ritirato e religiosamente custodito per qualche decennio, nel retrostante asilo infantile.
Da una prima analisi, il grosso blocco monolitico (diametro cm 75 x cm 43 di altezza) rivela un taglio impostato per una precisa geometria a sezione trasversale ottagonale e longitudinale trapezoidale ‘a calice’, oggi compromessa da un’ampia sbrecciatura e dalla perdita di una distinta porzione complementare di circa tre ottavi. Quest’ultima in origine era stretta al superstite corpo principale di cinque ottavi da lunghe grappe forse di ferro, ormai perdute, che hanno solcato la sezione longitudinale posteriore della pietra con un disegno a ‘M’.
Non si è a conoscenza, al momento, di altri bacili scavati su due conci accostati. Per una certa friabilità della pietra, non si esclude che il concio, forse in origine monolitico ottagonale, possa essersi fratturato in corso d’opera, in fase avanzata di lavorazione e per questo risarcito della parte lesionata
Nel piano superiore del concio, come una sorta di – si passi il termine – improprio ‘abaco ed echino’, è sbozzata una conca di 40 cm di diametro, per una profondità massima di circa 8 cm, atta a contenere un bacile asportabile per il ricambio dell’acqua, forse in rame, piuttosto che le reliquie di un altare, di norma alloggiate in un sepolcreto quadrangolare.
Un primo elemento di conforto di questa pista d’indagine, che si propone di dimostrare che quel che resta è porzione di un fonte battesimale tardogotico sardo-catalano, giunge da Edouard Urech che ricorda come «nell’epoca del gotico ogivale le vasche divennero sempre più piccole: da rotonde che erano, divennero ottagonali e furono erette su uno o più supporti».
Ma il binomio otto / fonte battesimale è ben più antico e lo stesso s. Ambrogio, a proposito dell’architettura ottagonale dell’aula del battistero, ricorda come nel numero otto si sia tradizionalmente evocata l’ogdoade della riconciliazione con Dio, «perché ai popoli venne concessa la vera salvezza, quando all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte».
In Sardegna, l’intuizione del Vescovo milanese trova un primo riscontro nella vasca ottagonale per il battesimo ad immersione, a destra del sagrato del santuario di S. Lussorio presso Fordongianus, databile ad un’epoca successiva allo stato di abbandono in cui cadde l’antico luogo di culto nella prima metà del vii secolo.
Non solo, la stessa scelta di una pietra di un calcare bianco, in una chiesa, S. Maria del Regno, per il resto caratterizzata dal nero della scura trachite, è concordante con il bianco emblema di purezza6 e, quindi, del candore adamitico ritrovato nel più fondante dei sacramenti.
In ognuna delle cinque facce superstiti (largh. cm 23 x alt. cm 27), scandite da sei pilastrini gotici a sezione triangolare, sopravvive una ricca cornice del tipo di quelle delle predelle dei coevi retabli tardogotici sardo-catalani della basilica (prima metà sec. xvi), accostabile in qualche modo, per restare in ambito isolano, a quella ben più semplice del basamento del fonte battesimale tardo plateresco della parrocchiale di San Sebastiano di Sorradile del 1697.
Per il progresso dell’Archeologia sarda di Giacobbe Manca
“Auspicato Profeta:… ma” L’archeologo scozzese Duncan Mackenzie visitò almeno tre volte la Sardegna, tra il 1906 e il 1912, producendo quattro scritti per i quaderni della British School di Roma: solo il contenuto del primo fu proposto in italiano per la rivista culturale romana Ausonia; altri tre resoconti, mai giunti agli allievi sardi in archeologia, praticamente reperibili solo a Roma, restano ancora in lingua originale.
Per il centenario, il CSCM concepì di editare la traduzione e ’attualizzazione del terzo scritto (1910), ritenuto molto interessante proprio per l’apporto che si ritiene abbia dato all’Archeologia isolana.
L’iniziativa è andata a rilento per cause diverse, come la difficoltà obbiettiva di ottenere una voltura affidabile (stanti le contraddizioni e la “legnosità” dell’autore) e la necessaria rivisitazione di tutti i monumenti ivi analizzati. Intanto furono proposti diversi articoli in Sardegna Antica C.M.: in essi si analizzano monumenti molto importanti per la letteratura di settore e si evidenziano diversi svarioni contenuti negli scritti dell’inglese.
Alla luce di odierne analisi tecniche applicate ai monumenti “chiave”, furono proposte in particolare nuove interpretazioni degli stessi, ben più fondate e ciò fu riconosciuto (scambi personali) anche dall’allora indiscusso “facitore” dell’Archeologia isolana che, in un attimo di “incertezza privata”, ritenne di dover attribuire le colpe degli errori “non visti” … al Mackenzie.
Intanto, un’inusitata iniziativa editoriale, ben lontana dall’esegesi disciplinare, apparve qualche anno fa, retorico, senza motivazioni pedagogiche, né analisi o indagini specifiche. In essa sono pesanti limiti nella traduzione pedissequa del testo inglese, nell’evidente oblio dei monumenti descritti, e lungi dall’imperativo della necessaria attualizzazione dei contenuti, anche alla luce dei nuovi e numerosi apporti scientifici già divulgati ma ignorati in toto.
In concreto, salvo il catalogo dei siti, l’opera di Mackenzie è scientificamente irrilevante, eppure oggi egli assurge, per i cattedratici, ad autore “di alto e… profetico riferimento” stando a cotanta editoria. Nella detta pubblicazione si leggono vieppiù, valutazioni del tutto erronee e/o gratuite. In ogni caso, emerge quanto – dal secondo dopoguerra a oggi – l’accademia sarda si è pedissequamente “appropriata” delle esternazioni del Mackenzie.
Infatti, nei manuali della disciplina, “imposti” agli studenti non si registra alcuna nota, chiara e inequivocabile, che rimandi all’inglese le intuizioni: le scoperte sarebbero, dunque, merito esclusivo dei “grandi” docenti-mito, trovatisi in carriera “proprio a seguito dei vasti vuoti culturali determinati… dalle leggi razziali”. Ciò spiega bene la forte reticenza e la sconnessa difesa dello status quo da parte di archeologi sistemati, ora orfani. ¡
Non fu solo Mackenzie a sbagliare, come il “potente facitore” pretendeva! ma tutti quelli che ne accettarono e ancora ne accettano, irrazionalmente, gli apporti: orbi carrieristi e “omertosi” in primis.
Preliminari e simil conclusioni
Ai tempi in cui Mackenzie venne nell’Isola, la Sardegna era vista da molti come un’anacronistica sopravvivenza antropica di semiselvaggi, palestra per etno-patologi alla Niceforo: tutto assai poco attinente con la Preistoria.
L’esplorazione attraverso quelle curiosità antropologiche, all’insegna dell’innatismo, ricercate nell’Isola dalla detta scuola inglese, gemmata nella recente capitale del potere piemontese, sembra riecheggiare la spinta indagatrice di certo pregiudizio allora seguito, sull’onda degli acclamati studi del torinese, influente e longevo, C. Lombroso (1803 – 1909).
L’attenzione “scientifica” di quest’ultimo riguardava il cretinismo e la propensione alla delinquenza – estesa, manco a dirlo, in specie alla Sardegna – le cui cause egli riconduceva alla “stirpe”. Per tutti, in seguito, le scienze antropologiche fecero molti progressi concreti – non altrettanti quella archeologica, in verità.
In quell’ottica s’avviò in Sardegna la ricerca della British School at Rome e in quell’avvio del 1906 si affiancò, si riporta, la curiosità archeologica dello scozzese, favorito dall’ambasciatore Egherton.
In tre autunni consecutivi egli esplorò, molte contrade della Sardegna, dal Capo di sopra all’altopiano del Guilcier e all’Iglesiente. Per i rilievi fu coadiuvato dall’architetto Newton, ottimo disegnatore di edifici preistorici; “sui monti” fu bene accolto da buoni indigeni che lo guidarono ai monumenti.
Tutto si svolse sotto una buona stella, come lui stesso scrisse. Tornando al Mackenzie, tuttavia, bisogna riconoscere che quelli d’inizio Novecento erano tempi in cui gli studiosi ricercatori per comprendere andavano davvero a vederli… i monumenti.
Forti di ampie conoscenze pragmatiche (vedi gli archeofili tra Ottocento e primi del Novecento) li interpretavano, eseguivano o ne ispiravano il rilievo – sempre in loro presenza – e ne davano una “lettura” diretta – ben coscienti, credo, che essa fosse valida ma solo fino a maggiori progressi.
Tempo dopo, nei decenni del secondo periodo postbellico, in Sardegna si cominciò a vivere di assemblaggio e rendita (per esempio: i rilievi e le analisi del Della Marmora, del Taramelli, del Nissardi, del Pallottino, del Newton/Mackenzie ecc. furono (e sono) utilizzati, sia perché ritenuti più che accettabili sia, soprattutto, perché nessuno degli archeologi succedanei ai detti capi mitici mostrò di dover verificare, studiare o, ancor peggio, aggiornare (non dico ridisegnare – ¡Dio aiuti!).
Infatti, da allora tutto era (ed è) dato per certo e acquisito: ¡definitivamente e pedissequamente, per la beata umanità bisognosa di miti e sale da te!
“Tout de bot”, un noto articolo del 1910 di Mackenzie appare tradotto in italiano: non un saggio d’archeologia: la sola traduzione senza apporti culturali; lo premette una scarna biografia (pp.17-18).1
“Duncan Mackenzie, I Dolmens, le tombe di giganti e nuraghi della Sardegna”, Condaghes, 128 pagine; brossura BN, traduzione dell’articolo The Dolmens, Tombs of the Giants, and Nuraghi of Sardinia, (Papers of the British School at Rome, Vol. V, 2; London 1910).
Credo valga la pena soffermarsi, in breve, su alcuni aspetti: metodi, contenuti e pieghe mentali o culturali inferibili dalla detta traduzione. Il prodotto editoriale concerne, dunque, uno scritto di oltre cento anni fa: uno dei quattro dello scozzese riguardanti la Sardegna.
Risulta che il valente “archeologo preistorico”, lavorò per alcuni decenni in Egeo: a Cnossos (Creta), a Philacopy (Melos) e conosceva, oltre la sua Europa, anche il vicino Oriente.
Fu un valido aiuto di Evans, anch’egli una sorta di “mito” inglese, al quale diede certamente il suo destro, ma anche di più – dice taluno: “fornì” riflessioni e valutazioni non proprio riconosciutegli (fatti ricorrenti), forse a causa di mai chiariti umori tra lui e il famoso capo.
Dell’opera in questione e di alcuni contenuti/intuizioni del Mackenzie ho già scritto in Sardegna Antica C. M., n. 34, del 2008, nel sintetico articolo “Duncan Mackenzie e i dolmen sardi: cento anni di crepuscolo”, che ebbe qualche migliaio di lettori, ma che certo non è stato visto o inteso nel divino mondo stipendiato della “archeologia isolana”, statica e salottiera. A. Evans fu, più propriamente, un imprenditore colonialista dell’archeologia, come in quel momento storico usavano gli inglesi e non solo: era un “cacciatore” di oggetti per sé e per la “corona”, dal che ottenne il titolo di Sir: perciò non era un vero archeologo ancorché, come tanti, agì come tale.
Si sussurra che Mackenzie fu allontanato per la sua condizione di alcolista, ma si dice pure che il motivo “vero”, forse più umano, riguardava la bella compagna di Evans; altri ventilano sintomi di pazzia o sofferenze che causavano prostrazione fisica e mentale.
Molto resta vago riguardo a Mackenzie, ma nelle brume anglo-scozzesi è saggio non rimestare pettegolezzi e ci si attiene maggiormente alla scienza.
Preconcetto e maldicenza restano i lividi retaggi coltivati in orizzonti culturali e geografici angusti, come certa accademia isolana, dove la paura di un confronto scientifico è palpabile e si esorcizza talvolta con stizzose “liste di proscrizione”, lancio di melma e pugnali… alle spalle, naturalmente.
Mackenzie, lucido forestiero
Mackenzie aveva, dunque, ampie conoscenze specifiche: dal mondo megalitico delle sue contrade e della Francia, a quelle, assai più vaghe, della Corsica e delle Baleari;
come detto, ben conosceva anche diverse realtà dell’Egeo. Alle soglie dei cinquant’anni, con la sua vasta esperienza, si apprestava a conoscere l’oscura, peculiare preistoria della Sardegna.
Torno all’articolo, tradotto con intuibile impegno ma portatore di diverse pecche: ai molti passi non chiari o privi di significato, si aggiunga – come detto – la mancata attualizzazione di “certa” parte obsoleta dell’Archeologia di Sardegna. Insomma, un’occasione “perduta” per approdare a un’utile analisi bibliografica e contenutistica.
È, soprattutto, l’occasione mancata per riflettere, finalmente, sulla colpevole acquiescenza pluri generazionale verso contenuti solennemente erronei: quelli che gli orfani da mito sono ancora interessati a santificare… ab aeterno.
In tal segno, altro sconcerto deriva dalle “emanazioni” della cosiddetta Presentazione, che vorrebbe essere una premessa allo scritto in questione, ma proprio non ci riesce. Il libro ha in appendice il testo originale (trascritto… con mancanze), quasi utile per sciogliere i molti dubbi che affiorano dalla lettura.
Quanti leggeranno quella versione, dotata di “cotanta Presentazione”, tengano comunque per certo che, per l’Archeologia isolana, lo scritto del Mackenzie è proprio “preistorico”: è più che superato, solo valido per una salutare riflessione sugli errori del passato; magari è occasione per la rivisitazione dei monumenti descritti a distanza di oltre un secolo e un lustro.
Ora è pure una testimonianza indiretta delle pieghe psichiche di “studiosi” locali (dal secondo dopoguerra a oggi), che credettero di “appropriarsi” appieno delle opportunità lucide, straniere e gratuite – manna dal già defunto Mackenzie. Ancora oggi la tifoseria del Nuragico militarista ne subisce l’abbaglio (e la conferma diretta è nella “dotta” Presentazione): i dogmi emanati dai “capi-mito”, per taluni che ne sentono la dipendenza appaiono come un irrinunciabile oppio obnubilante
E’ in edicola il n° 50 di Sardegna Antica – Culture Mediteranee. Un importante traguardo per la rivista di archeologia, etnologia, storia, più diffusa in Sardegna.
Pubblichiamo integralmente l’editoriale del direttore scientifico, Giacobbe Manca:
“Un solo angolino per complimentarci con i lettori, gli articolisti e con tutta la Redazione di Sardegna Antica C.M., giacché siamo giunti al traguardo dei cinquanta fascicoli semestrali (cosa impensabile nel 1992, quando – con entusiasmo e un tradizionale “fico secco” abbiamo avviato, col numero 0, la nuova iniziativa).
Voglio ricordare anche la serie precedente, intitolata Sardigna Antiga, giunta allora al n.7: usciva saltuariamente dal 1982, solo quando finanze e produzioni di scritti vari dei soliti “volonterosi” lo consentivano. Con Sardegna Antica C.M. abbiamo prodotto, dunque, un’attività culturale con uscite regolari, per 25 anni e a questa è giusto sommare i precedenti 10 di produzioni episodiche iniziali (direi sperimentali), ricche di entusiasmo e … di molti errori, s’intende.
Grande fu l’impegno intellettuale
Impegno soprattutto strategico: sia per non soccombere a causa dell’economia assai risicata sia, soprattutto, per salvare lo spirito messo a dura prova (molti furono i lividi pugnali da pollaio “istituzionale” lanciati senza scrupoli sui nostri costati, regolarmente… dalle spalle).
Detta così, in fondo in fondo, questa vicenda è proprio pari a una delle innumerevoli iniziative editoriali, nate e scomparse in questi ultimi 35 anni. In concreto, Sardegna Antica C.M. ha navigato lontana dai servizi delle grandi città (siamo provinciali) senza sovvenzioni pubbliche o private, dirette o indirette, ma non si poteva consentire che gomme, formaggi, salsicce, supernegozi o ammicamenti clientelari “farcissero” i prodotti culturali di quei numerosi studiosi e ricercatori (spesso fra i migliori nel proprio settore) che ci affidano ancora il loro lavoro. Tutto ciò, per quasi due generazioni.
Una scommessa continua
La Redazione e io viviamo Sardegna Antica come una scommessa continua – che crediamo vinta finora – di produrre e diffondere cultura, novità scientifiche in specie, a principiare dall’Archeologia (per quanto mi compete) concepita come servizio, tale da richiedere agli appassionati un trascurabile esborso economico: se la cultura è richiesta dai lettori, allora può e deve essere prodotta, altrimenti crediamo avrebbe poco senso continuare a pubblicare fascicoli o libri, ancor meno in virtù delle sole sovvenzioni pubbliche, che proprio aborriamo inseguire.
Oltre il prioritario impegno per il fascicolo semestrale, abbiamo editato o coeditato diversi libri, culturalmente importanti (i nostri lettori e i numerosi abbonati lo sanno), eppure – sapevamo bene – che essi sarebbero stati – come di norma – fonti di sole soddisfazioni morali. Non abbiamo scopo di lucro – è ormai più che chiaro – e quanti hanno ritenuto di imitarci, fantasticando grassi guadagni, sono ben presto spariti dalla scena dell’editoria (talvolta dopo pochissimi numeri), ancorchè sostenuti da soldi pubblici.
Una rivista indipendente al 100%
Oggi Sardegna Antica è forse l’unico semestrale culturale nell’Isola senza sostegni finanziari esterni, ma è anche il più seguito nel suo genere (stima non fatta da noi, ma da un’attenta bibliotecaria). Infine, voglio dire che, come tanti, anch’io sogno di lasciare in buone mani Sardegna Antica, ma ormai è certo che malgrado il “…mio dì tardo traendo…” dovrò (e vorrò) continuare ancora il mio impegno, forse a lungo, ma se accadrà che qualcuno, fortemente, vorrà prendere il mio impegnativo testimone – anche a breve, auguro – sono certo che s’avvierà per una via culturale lunga, ricca di soddisfazioni: altrettante e più di quelle da me vissute.” G.M.
In apertura del presente articolo, ritengo opportuno introdurre brevemente il concetto di numismatica partendo dal significato del termine stesso.
In effetti, cosa significa esattamente la parola numismatica? Etimologicamente la sua derivazione è di origine greca, nómisma, ovvero “ciò che deriva dalla legge” (la radice è infatti nómos, regola, norma), termine con cui si soleva indicare la moneta, il bene di scambio per eccellenza, creato, diffuso e garantito dallo Stato, e dunque avente un corso legale.
Una definizione particolarmente esaustiva e quasi totale, di moneta, la diede nel IV sec. a.C. Aristotele nella sua Etica Nicomachea (ET.NIC. V, V 11-15): […] e per questo essa prende il nome di nómisma, perché non esiste per natura ma per legge, e perché dipende da noi cambiarne il valore o renderla senza valore.
E ci sarà scambio quando si sarà procedu- to alla parificazione, in modo che il rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino.[…]. L’equivalente in latino di nómisma è invece nummus, il cui significato può essere ravvisato in ‘unità mone- taria fabbricata secondo la legge’.
La numismatica è quindi lo studio e la classificazione della moneta, analizzata non solo nella sua forma e sostanza, ma anche in ogni altro singolo aspetto, da quello econo- mico a quello storico e artistico. Occorre evidenziare che nel suo insieme la numismatica è una scienza a tutti gli effetti, per molti versi indipendente e con un carattere strettamente storico.
Significativo in questo senso è il profondo legame con l’archeologia: scavi archeologici e ritrovamenti monetali, marciando di pari passo devono necessariamente avvalersi di studi numismatici.
L’analisi numismatica di una moneta,trattata come se fosse un qualsiasi altro documentostorico o reperto archeologico, fornisce innumerevoli informazioni. Un rinvenimento di monete offre in-fatti notizie sulle tecniche di coniazione, sui diversi metalli usati oppure sul livello artistico raggiunto.
Se poi lo stesso ritrovamento è studiato nella sua contestualizzazione, il volume delle notizie aumenta in-credibilmente, facendo emergere nuove conoscenze.Ad esempio, si possono formulare interessanti ipotesi ricostruttive in merito a circolazione monetariae rapporti commerciali, condizioni economiche, migrazioni di popoli, invasioni e guerre, è persino possibile compiere studi sulle usanze religiose. Ne deri-va che la numismatica è una disciplina estremamente vasta, in quanto estremamente vaste sono le tipologie monetarie collegate ai rispettivi ambienti storici.
Altrettanto può dirsi degli scenari economici e sociali entro i quali la moneta emessa va a collocarsi. In questo senso occorre distinguere la moneta dal concetto di denaro, indubbiamente ben più ampio e legato per sua natura a molteplici aspetti della vita umana,a partire ad esempio dal suo utilizzo come strumento di controllo sull’individuo, universale parametro di valutazione oppure mezzo attraverso il quale si può esprimere la propria posizione all’interno di un qualsiasi contesto sociale. Lo studio numismatico può indistintamente riguardare tutte le produzioni monetarie di tutti i tempi. Si va dalle coniazioni con-temporanee a quelle rinascimentali, dalle emissioni classiche a quelle circolanti nel medioevo e così via ..
Sa Chida de Perfugas è un film-documentario girato nel 2015 a Perfugas, nella regione storica dell’Anglona. Il film, con la guida ideale di Nicolino, prima boghe del coro dei Cunfrades, descrive e racconta con meticolosità le sei giornate che precedono la Domenica di Pasqua: Sa Chida Santa.
Il montaggio del documentario rispetta la cronologia degli eventi proponendoci dei “quadri” che vanno dalle prove di canto del coro dei Cunfrades alla panificazione nella frazione di Lumbaldu e all’allestimento dei sepulcros ad opera delle donne di Perfugas, per arrivare alle giornate del Giovedì e Venerdì Santo con i riti paraliturgici de s’Incravamentu (crocefissione) e de s’Iscravamentu (deposizione); del Sabato Santo, con la vestizione della statua della Madonna e, infine, del giorno di Pasqua con il rito de s’Incontru.
Questa è dunque la scansione degli accadimenti descritti, ma i due giovani autori – l’antropologo Giovanni P. Deperu e il cineasta Giampaolo Buiaroni – con il loro lavoro sono andati ben al di là della semplice registrazione degli eventi, realizzando un’opera che dà sostanza all’ormai proverbiale frase: un anziano che muore è una biblioteca che brucia, pronunciata da Hamadou Hampaté Bâ, narratore del Mali, per spiegare con efficace semplicità il ruolo di trasmettitori di saggezza e conoscenza rivestito dagli anziani nella cultura africana.
Un concetto, questo, ripreso qualche anno fa anche in Sardegna, quando da più parti appariva ormai indifferibile attuare una massiccia campagna di riprese cinematografiche e registrazioni sonore, col fine di preservare la memoria e l’esperienza degli anziani, custodi di saperi connessi con la cultura materiale e immateriale.
Guardando Sa Chida de Perfugas si ha la chiara percezione che quella indicazione abbia guidato il lavoro degli autori. La narrazione, affidata ad alcuni dei detentori della memoria storica del paese, è una chiara scelta che va proprio in questa direzione e riconosce l’urgenza antropologica di salvaguardare la testimonianza dei luoghi, delle persone, della lingua e degli eventi, che in qualche modo rappresentano la struttura portante dell’intera comunità.
Giovanni P. Deperu e Giampaolo Buiaroni hanno dunque realizzato, consegnandolo al paese e alla comunità scientifica, un documento che rappresenta un importante tassello nel difficile cammino verso la corretta, non mistificata, riscrittura della storia delle nostre piccole, grandi comunità.
La testimonianza, nella lingua propria di Perfugas: il sardo logudorese e il gallurese, è resa dai soggetti che nel film si raccontano e si fanno carico, in prima persona, di quanto affermano.
Questo lavoro dichiara in modo evidente l’interazione tra il cineasta/antropologo e i soggetti filmati. Nessuna voce fuori campo (quella che con una felice intuizione è stata definita la “voce di Dio”), che avochi a sé la pretesa di descrivere ciò che già così bene le immagini raccontano; né si riscontra in questo documentario un’osservazione filmica “distaccata” con l’approccio, per capirci, dell’entomologo che studia i suoi insetti.
Tutto ciò testimonia come gli autori abbiano ben metabolizzato i dettami della moderna antropologia visuale che, andando oltre un cinema di semplice osservazione, propone un cinema di partecipazione, dove il regista/etnologo, egli stesso, si mette in gioco in stretta relazione con gli attori sociali, realizzando un “incontro” capace di attivare fruttuose connessioni tra filmmaker e protagonisti.
Attraverso queste modalità realizzative Sa Chida de Perfugas diviene un film costruito con la partecipa- zione attiva dei suoi soggetti, i quali non si limitano a offrire la propria testimonianza ma danno precise indicazioni ai cineasti circa la correttezza delle loro scelte.
Se è vero, in questo senso, che il lavoro di Deperu e Buiaroni è stato in qualche modo facilitato dall’essere essi stessi parte della comunità e dunque intimamente coinvolti negli eventi raccontati, è anche vero che questo “incontro” tra cineasta e attori sociali – di là dagli stimoli suscitati dal regista o dagli elementi del contesto, che possono essere “organizzati” e “controllati” – introduce molteplici e interessanti variabili.
Tra queste sono comprese anche quelle forme di auto-rappresentazione delle persone filmate, che in qualche modo enfatizzano o comunque sottolineano parti del proprio discorso indirizzandole alla comunità senza intermediazioni, superando quindi la relazione diretta con il cineasta.
Ciò si riscontra, benché in forma episodica, per esempio, nella sequenza dedicata alla realizzazione dei sepulcros, quando le due donne intervistate rimproverano bonariamente le ragazze d’oggi, particolarmente smaliziate – a loro dire – e così facendo sembrano voler bypassare l’intervistatore per rivolgersi direttamente alle giovani del paese.
Nei momenti liturgici la camera si muove con discrezione, spesso sembra quasi “nascondersi” dietro l’angolo, rispettosa dell’altrui raccoglimento. La fotografia è curata e sempre sorvegliata e mai tende alla spettacolarizzazione degli eventi che per la loro connaturata teatralità sono già “spettacolari” di per sé.
E non si può tacere dell’ottimo lavoro svolto dal fonico Luca Panciroli che, raccogliendo in presa diretta il canto sacro, crea in modo esemplare un’atmosfera di riflessione e preghiera. Apparentemente semplice, il montaggio del film è, in realtà, piuttosto elaborato e riesce a incrociare sapientemente la complessa liturgia della settimana santa con racconti di episodi, mai insignificanti o banali, che arricchiscono la trama narrativa, rendendo la visione ancor più piacevole e in alcuni casi persino divertente.
Il controllo della narrazione è sempre ben saldo e, nella sua complessa orditura, non perde mai di vista la giusta centralità della confraternita che, in fondo, è l’attiva depositaria della continuità della tradizione.
Senza il loro grande impegno sarebbe tutto certamente più povero e complicato.
Un film intellettualmente onesto, dunque, ben lontano da stereotipi cultural/turistici, che rappresenta un dono che gli autori Deperu e Buiaroni hanno voluto fare a Perfugas e a se stessi, in quanto parte di quella comunità. Un dono ben prezioso, di cultura, memoria e, in qualche misura, di speranza per il futuro del paese e della cultura etnologica isolana.
Sa Chida de Perfugas: Vedi il documentario completo
[Clicca sul link e prima della visone attiva i sottotitoli in italiano in basso a destra nella schermata di YouTube]
Per primo, del nuraghe Voes pubblicò nel 1910 l’archeologo scozzese Duncan Mackenzie.
In Sardegna, da ormai un lustro il giovane archeologo Antonio Taramelli operava a Cagliari. Di vasta cultura classica, succedeva al Patroni nella direzione delle an- tichità sarde, in quanto esperto e figlio d’arte (il padre Torquato – bergamasco – era un noto geologo, docente a Pavia dal 1875). In quell’avvio di secolo, nel programma degli studi an- tropologici promossi in ambito mediterraneo (anche a Malta, Corsica e Baleari), la British School di Roma aveva deciso, sotto l’egida dei suoi potenti agganci politici, d’intraprendere lo studio dei monumenti preistorici dell’isola ritenuta selvaggia, ancora sostanzialmente sconosciuta.
L’appassionato Francesco Nissardi, tecnico della règia soprintendenza, da tempo sapeva di questo straordina- rio monumento e nell’autunno del 1906, con liberalità, lo fece conoscere proprio al ricercatore inglese e all’architetto disegnatore F.H. Newton, solito compagno di viaggio, durante la prima delle sue diverse visite fatte in Sardegna. Nissardi, già allievo dello Spano, fece parte ai due inglesi anche della propria esperienza e dei primi rudimenti tecnici conseguiti col personale studio dei monumenti nuragici.
Fu così che la consistenza architettonica del grande e composito edificio di Nule, che custodisce una percorribilità interna “inusitata”, unitamente all’austerità dell’estetica e alla solidità, furono puntualmente sottolineati da Mackenzie… LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 49 IN EDICOLA
A partire da oggi è in distribuzione il n° 49 della rivista “Sardegna Antica – Culture Mediterranee”. Nei prossimi giorni potrete acquistare la vostra copia (al consueto costo di 3 €) nelle principali edicole della Sardegna.
“Lettere al Direttore” “Libri & Libri” di Gonaria Manca “I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna” di F. Casula “Curiosità archeologiche” di G. Manca
Anche a giudicare dai soli poveri resti superstiti, era certo una tomba di giganti notevole, non tanto per le dimensioni quanto per l’importanza scientifica.
Consistenza della tomba
Attualmente, blocchi sporadici e pochi ortostati evocano un cenno dell’arco frontale che delimita l’esedra e alle spalle ciò che resta del tumulo; frammenti della stele frontale con cornice, sparsi lì davanti – non coerenti – attestano la sua arcaicità, mentre un grosso parallelepipedo ben lavorato, dall’apparente ruolo d’architrave “caricaturale”, mostra al centro della base un incavo: una sorta di archetto scalpellato, basso e appena marcato, la cui posizione richiama l’accesso alla camera.
Al suo colmo, nello spessore, l’insolito blocco appare lavorato con una lieve cuna nella lunghezza e nella larghezza, evidentemente predisposta per accogliere blocchi sovrastanti di forma congruente, così come si vede nelle tombe “a filari” ben lavorate.
Il parallelepipedo ha lati arrotondati e appare ricollocato in modo approssimativo. Ora è inclinato verso il retro e poggia al suolo sulla terra: dunque non è in situ come taluno ha ritenuto; inoltre la sua presenza attesta una vicenda non univoca del monumento arcaico, che fu ripreso con diverse tecniche in antico e ancora spogliato forse per effetto delle chiudende dalla prima metà dell’Ottocento.
Per intendere il basso varco indicato come l’ingresso alla camera, è necessario ipotizzare anche dei sottostanti e combacianti piedritti di stipite, magari affossati. In verità, al disotto di questo blocco essi non ci sono e dunque tutti i dubbi sono confermati e accrescono il pensiero sulla incongruenza di questo concio con l’ultimo ingresso apprestato nella tomba.
L’incavo è certo in linea con l’asse della camera tombale retrostante e tuttavia, dalla casistica e dalla logica, è lecito credere che l’apparato d’ingresso doveva, comunque, essere attrezzato diversamente, sia nella fase arcaica sia nelle successive ipotizzate, come si può ben desumere dalla situazione superstite e dalla casistica conosciuta… LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 49 IN EDICOLA