Giacobbe Manca

[Recensione] Guida al nuraghe Losa e introduzione alla civiltà dei Nuraghes

Esistevano già altre due opere analoghe, dal 2004; una dello stesso Giacobbe Manca, intitolata Il nuraghe Losa e la Civiltà nuragica, Ed. Iskra, accurata, di 110 pagine, 75 foto colore e BN, con schemi ricostruttivi, ecc. (non più stampata). La seconda piccola guida, stesso anno, con ottima iconografia – unica la foto documentaria del pozzo sacro del Losa, ora scomparso – di Vincenzo Santoni, Collana “Sardegna Archeologica” della Ed. Delfino, con circa 40 pagine reali (più 24 pp. occupate dalla Bibliografia, Glossario,
Sommario, Indice ed Elenco pubblicitario delle Collane Delfino), 9 €

Guida al Nuraghe Losa e introduzione alla Civiltà dei Nuraghes”, invece, è un libro “vero”. Non si tratta solamente di una guida descrittiva fatta perché il turista, dopo la visita, sappia almeno raccontare che cosa ha visto. È molto di più.
In 120 pagine convincenti (di cui solo 8 utilizzate per Indice, Glossario e Bibliografia completi e precisi, seppur
stampati in caratteri opportunamente più piccoli e senza spazi sprecati), un’iconografia strepitosa include anche foto aeree estremamente utili, didattiche ed affascinanti, di grande impatto visivo.

– Il libro, garbato e scorrevole, ha spesso il piglio didattico di una (ottima) guida, con fotografie che presentano funzionali rimandi grafici alla pianta del Nuraghe e permettono di essere sempre ben orientati ed informati su dettagli che possono sfuggire anche ad osservatori attenti.

– L’Autore mette subito in chiaro l’argomento, spiegando con chiarezza al lettore la gran differenza corrente tra ciò che può essere definito ‘megalitico’ e ciò che invece rientra nel ‘ciclopico’.

Si tratta di una distinzione fondamentale: cronologica vista l’enorme distanza temporale che separa le due metodiche (il megalitismo risale addirittura al Neolitico); ma anche d’uso pratico, visto che il megalitismo è – in prevalenza, se non addirittura unicamente – una manifestazione cultuale.

Si prende inoltre la responsabilità delle proprie opinioni ed osservazioni fin dalle prime pagine, accompagnando il lettore tra le proprie ipotesi circa i possibili soppalchi lignei, circa l’uso ed il disuso dei passaggi ‘segreti’ ora obliterati, le metodiche di edificazione e molto altro.

Ma – soprattutto – l’Autore ha il coraggio di formulare un’ipotesi circa la datazione dei Nuraghes in genere (e del Losa in particolare), che egli sostiene essere differente da quella ‘ufficiale’, sostenuta stancamente dagli archeologi cattedratici sardi più per pavido conformismo che per solida convinzione…

Si sofferma su dettagli costruttivi importanti ed evidenti del Losa, che però – stranamente – sono sfuggiti a colleghi archeologi considerati di vaglio, pur essendo le strutture state sempre sotto gli occhi di tutti.

Riporta una rassegna storiografica e fotografica di tutti i ricercatori che si sono interessati del Losa nel corso del tempo: il Della Marmora, lo Spano, il Pinza, il Taramelli ed infine il Lilliu.

Riferisce della grave mancanza di studi scientifici di ampio respiro sul Losa e della presenza invece solo di studi archeologici che definisce – con arguzia – “puntiformi”.
Non lesina le critiche: una, per esempio, proprio all’edificazione dell’edificio che serve da ‘museo’ in loco, costruito a suo tempo proprio sull’area archeologica del nuraghe.

Infine, offre 10 schede (che egli definisce “quadri”) circa generalità, architettura, statica, edificazione, teorie vecchie e nuove, tesi militarista, destinazione,approfondimenti e sintesi. Il più interessante – a mio giudizio – è il quadro 8: esso descrive ciò che avveniva nelle altre parti del Mondo Antico, contemporaneamente al primo nascere, al vivere, all’evolversi e modificarsi del grande e vetusto gigante.

Solo due piccole note negative, che sono errori tipografici: a pag. 114 una nota a piè di pagina mancante lascia nel dubbio.

Nella tavola cronologica a pagina 115, il periodo tra 2.200 a.C. e 1600 a.C. è ripetuto due volte.
Lettura, quindi, consigliata ai lettori ignari dell’argomento nuragico, ai quali servirà da introduzione. Ma anche quelli già esperti dell’argomento vi troveranno motivi di forte interesse, nuovi spunti e – probabilmente – anche alcune notizie documentate delle quali erano all’oscuro.

Recensione di Franco Romagna

[…] formato tascabile, una bella copertina a colori con vista aerea del complesso nuragico; immagine, che si incontra subito dopo, a volo d’uccello, con schematizzati i percorsi per raggiungere il sito da diversi punti dell’isola. La guida si articola in una parte descrittiva generale del monumento, delle sue fasi costruttive e
delle campagne di scavo susseguitesi fino allo stato attuale; e in dieci quadri tematici di approfondimento sulla Civiltà Nuragica: guide nella guida.

L’autore affronta i problemi che ogni studioso si pone davanti a tale emergenza archeologica e architettonica col raziocinio del tecnico, la pazienza del filologo e l’amore dello studioso.
Le immagini a colori e in b/n con didascalie esplicative, forniscono il valido supporto necessario a chi legge e si addentra nei meandri della parte centrale del monumento tra passaggi, spalti, garrite e merli oltre che nei cortili, tra torri esterne, muraglie, capanne e testimonianze di epoche successive.

I confronti con altre realtà archeologiche servono a chiarire aspetti generali e particolari di tecniche costruttive che si riscontrano in nuraghi molto lontani tra loro.
G. Manca nella sua Guida del Losa mette in risalto le diverse fasi costruttive a partire dal basamento formato da grandi pietre grezze (sicuramente una preesistenza) e il prosieguo dell’alzato con pietre di minor dimensione collocate in bell’ordine isodomo.

Le ogive, i corridoi, e i vani nascosti sono spiegati con chiarezza nella loro funzionalità. Nel 3° quadro si dice della Statica delle ogive con un breve cenno sul sistema di costruzione delle stesse […]
un’informazione di carattere generale, giacché la statica necessita uno studio specifico che non può farsi in una Guida, se non per sommi capi.

Nel Quadro 4° sono date alcune nozioni sul metodo di costruire un nuraghe con riferimenti a studiosi del passato.
Interessante la messa in evidenza dell’inutilità strutturale dell’architrave che, a ben vedere, porta solo se stesso.

Si ipotizza una funzione ornamentale e/o una dimostrazione di potenza e capacità costruttiva: come nella porta dei leoni a Micene. Notevoli: la cronologia del Losa inserita in quella generale nuragica; le varie
campagne di scavo; le emergenze attorno al nuraghe che testimoniano il ciclo di vita degli abitanti dal luogo di culto (pozzo sacro); alla commemorazione dei morti (tomba dei giganti).

Con “cenni storiografici” l’autore fa percorrere il lungo cammino della ricerca che inizia con Alberto Della Marmora e G. Spano, quindi Pinza e Taramelli per arrivare a Lilliu, cioè ai giorni nostri.

Di grande aiuto al visitatore del complesso archeologico e al lettore sedentario sono: il Glossario e le Tavole orientative.
Piacevole la lettura.

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Editoriale n.56 di Giacobbe Manca

Sardegna Antica è un semestrale culturale per tutti: con o senza titoli, preparazione specifica in Storia, in Archeologia o altro.

Si può credere che molti, nostri lettori e non, possano anche essere molto confusi dalle odierne discussioni “culturali” – tra “favolette ufficiali” e ciarlatanerie di popolo, cui siamo sottoposti: dal web alla TV, dai giornali a certi libri incerti.

¿Chi ha ragione; chi ha torto, chi è più ciarlatano e perché? Il lettore, per sciogliere i fastidiosi dubbi, vorrebbe poter decidere da sé o confrontarsi con persone “affidabili” (¿ma chi lo è in questa ridda d’ipotesi, violenze verbali e arringhe populiste?).

Sardegna Antica ha pubblicato già in passato articoli d’accusa e propedeutici a questi difficili giudizi. I ciarlatani insopprimibili rispuntano come gramigna nell’orto, con argomenti arroganti e sempre più violenti.

Da tempo si leggono frequenti atti d’accusa da diverse “barricate”, mossi da outsider d’ogni disciplina, più spesso contro singoli o l’insieme degli Archeologi “ufficiali” (università o soprintendenza), per vere, più spesso, o presunte “barbarie” commesse a danno del comune Patrimonio Monumentale isolano.

Quelle accuse non hanno spesso un fondamento, come affermare, per esempio, che i reperti di Monte Prama siano stati deliberatamente nascosti per chissà quale oscura manovra anti-sarda.

Non furono mai nascosti, ma solo ignorati per pusillanimità e incapacità, in quei frangenti, a comprenderli correttamente

In genere, gli accusatori non possiedono manco le minime basi culturali specifiche: in quei casi dovrebbe essere più semplice smascherare i ciarlatani, ma non sempre è semplice capire quali siano le loro intenzioni, celate da molti veli.

Il condizionale è d’obbligo, perché molti di questi insulsi strilloni populisti godono, purtroppo, di buona fama e ampio seguito.

In rari casi – invece – il ciarlatano è colto, possiede titoli necessari e “lavora in ambiente”: allora per il lettore appare arduo riconoscere “la verità”. L’errore commesso da questi individui è un “falso erudito”: il più vile e lurido tradimento che si possa compiere contro la Cultura.

Alcune “voci” però, vogliono restare obiettive e distanti dai contenuti aberranti dei detti ciarlatani-strilloni diversamente collocati: siano esse voci ipocritamente ufficiali, sia “autorizzate dal potere”, sia umorali e/o estemporanee.

Sappiano i lettori che il semestrale “Sardegna Antica” vola alto, al di sopra delle indicate miserie umane degli improvvisatori descritti o degli interessi dei cattedratici cooptati coi loro codazzi-fans, annuenti in attesa di briciole del potere.

Ben si sà, non basterà dirlo e, di fatto, il dubbio del lettore persiste: ¿come – dunque – riconoscere i ciarlatani? Partiamo dal presupposto che – si dice a ragione – “La Verità è nuda”.

Intendendo con questo l’incontrovertibile trasparenza di ciò che è vero perché scientifico, dimostrabile.

Alcune persone, di qualsivoglia collocazione o provenienza “s’affrettano a rivestirla dei loro orpelli… la povera Verità”. ¿Perché lo fanno? Semplicemente perché, in fondo-in fondo, covano interessi e/o vantaggi personali.

Politici, economici, di fama, di relazione, di guadagno

Ricordo ai lettori che Sardegna Antica è sostenuta da studiosi veri e soprattutto non ha scopo di lucro (non sarebbe in buona salute se così non fosse) e ben lo sanno ora gli sbavanti che provarono a “sottrarci” lettori e iniziativa, benché spalleggiati da molti soldi pubblici garanti.

Un altro enunciato importante è: “Amare qualche cosa significa rappresentarla esattamente com’è”.

In sostanza, si devono descrivere obiettivamente sia i pregi dell’oggetto amato, sia i difetti, malgrado i quali lo si ama. Insomma, non si deve mai edulcorare o falsare ipocritamente.

Sappiamo bene che con questa filosofia si perdono alcuni lettori schierati o amanti delle favole e talvolta infantili, ma si guadagna alquanto in autostima e generale credibilità.

Descrivere il passato della Sardegna come si vorrebbe sia stato (anche se lo si vuole fortemente), è azione ipocrita, infondata, antistorica, ascientifica e vergognosa. Certi furbi descrivono storie e vicende proprio come i loro “seguaci” desiderano: lo sanno bene.

Vogliono solo vendere i propri libri o “comprare” voti, acquisire fama, soldi, simpatie e vantaggi, inviti a feste (anche inventate ad arte), sagre, congressi vari, presentazioni e manifestazioni… tutte occasioni per vendere “libri zeppa”, solo buoni per fermare tavoli pencolanti.

Scoprire il gioco di questi furbi truffatori è semplice: ¡seguite la traccia… dei soldi! Tutti i ciarlatani (sardi gloriosi compresi) inseguono i soldi.

La linea di Sardegna Antica è invece quella di combattere le malefatte, le inesattezze, le stupidaggini archeologiche o storiche ecc., senza quartiere né remore di sorta.

D’ora in avanti contiamo di stigmatizzare meglio i soprusi e i danni perpetrati a danno del comune patrimonio culturale e monumentale sardo, chiunque sia l’attore e di qualsivoglia levatura e “autorità acquisita”, senza eccezioni.

Questo vale per la recente (e antica) denuncia a carico dei menhir di Bidu ‘e Concas (non sono chiari gli intenti, ma c’è qualche fondamento), mentre rimandiamo alle passate denunce, come pure alle future che ci premureremo di segnalare ai lettori e… alla magistratura (non se ne può più di gravi scempi e abusi di certe mancate spose).

Immagine di apertura: Tomba di giganti arcaica Li Lolghi – Arzachena, miseramente ricomposta, con gravi errori di postura della stele e ricostruzione dell’esedra, che pare annoverare ortostati improvvisati, impropri o non congruenti

Combatteremo anche con recensioni di libri, specie se inutili, costosi e spesso finanziati con fondi regionali. Tra l’altro si veda già qualche esempio fra le recensioni di questo fascicolo.

Preannuncio articoli a venire, interessanti come sempre, ma questa volta forieri di possibili conseguenze… che affronteremo in diverse sedi.

In coscienza dico che il lettore di Sardegna Antica può fidarsi: con noi dispone di un interlocutore fermo, onesto e aperto al dialogo, che lo terrà coi piedi per terra, specie quando i furbi conta-storielle cercheranno di rifilargli per vero l’invisibile “unicorno rosa”… ¡perfino in televisione!

Per le vicende di Preistoria e Storia – quelle dimostrate -, la Sardegna deve essere più che fiera di ciò che fu e per la grande importanza nell’evoluzione dell’Occidente moderno: non c’è bisogno di trucchi giornalistici, né di belletti posticci, meschini, risibili e controproducenti.

Giacobbe Manca

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Vandalusia di Sardegna

Vandali storici e Vandali odierni

Dei Vandali storici sappiamo molte cose: partirono dal regno fondato in Africa guidati dal re Genserico nel 455 d.C., si stanziarono in Sardegna per proseguire verso Roma, decadente capitale imperiale, che saccheggiarono nello stesso 455.

Erano Germani, provenivano dalle rive del Baltico (tra l’Oder e la Vistola), quindi si spostarono in Pannonia (409) per poi invadere la Gallia e la Spagna (La Vandalusia , oggi Andalusia).

Passato lo stretto di Gibilterra (428), si fusero con gli Alani (erano Irani o Ariani), divenendo potenti al comando di Genserico.

Il loro regno si estendeva lungo l’ex provincia romana dell’Africa mediterranea, da Gibilterra alla Cirenaica (attuali Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, cui presto di aggiunsero la Sicilia, le Baleari e la Sardegna).

In quest’Isola misero piede nel 455 quando, sempre al comando di Genserico, volsero le prue verso Roma (455), che fu saccheggiata.

Volendo dare credibilità a certe raffigurazioni pittoriche del “sacco di Roma” vandalico, si dovrebbe credere – senza prova – che allora fu trafugata la menorah aurea, tenuta a Roma dopo la distruzione del tempio a Gerusalemme

Imperversarono in Sardegna per circa 80 anni, fino alla sconfitta subita dai Bizantini nel 534.

Nessun monumento di rilievo restò nell’Isola dalla loro azione di rude spoliazione, ma è indubitabile che anche loro seppellissero i defunti con una modalità che da diversi anni tende a delinearsi attraverso tombe dalle caratteristiche assai essenziali e, in modo analogo – è verosimile – seppellirono i depredati isolani, superstiti della Roma famelica.

Il loro nome, tutti sanno, ha l’accezione di incolti, rozzi e violenti, quali furono. Seguivano, però, la dottrina cristiana, secondo i dettami dell’Eresia Ariana.

Significativa la novella di L. Pirandello, dove l’umorismo e il sarcasmo della vita cade su un docente erudito. Assai miope, costui tenne una memorabile Letio Magistralis avverso l’Eresia Ariana, nella sua aula sempre deserta, ma il giorno, per l’irresistibile richiamo della detestata e “oscura” eresia, era invece gremitissima … di soprabiti lì posati casualmente, in un giorno di forte pioggia (in Novelle per un anno, (1937e 1938), postuma).

Veri Vandali e loro emuli odierni, per incultura e genetica, hanno sempre parassitato la società civile.

L’archeologia, nel suo piccolo, ne “parla”, lamentando cicatrici quali esiti di malefatte segnalate, con pervicace cadenza, nelle pagine di Sardegna Antica C. M..

Da tempo però si dà anche conto di rinvenimenti o rivisitazioni su certi monumenti dalla “strana” consistenza, collocabili tra il “ciclopico e l’approssimativo”; essi figurano già nella fantasiosa, “obbligatoria”, letteratura universitaria del dopoguerra, i cui autori “attinsero” in modo discreto (= s’appropriarono in silenzio) – serpeggia la certezza, di certe pubblicazioni del primo Novecento, (una in italiano e tre in inglese), dell’archeologo Duncan Mackenzie, scozzese di buon scotch.

D. Mackenzie

Di D. Mackenzie si conosceva una breve pubblicazione della rivista usonia del 1908, tradotta in italiano dal direttore della British School di Roma, utilizzata come biglietto da visita per fare cassa (convogliata a Londra) per la loro attività di “esplorazione” (periodo coloniale).

Altre tre pubblicazioni erano in inglese e qualche docente se le fece tradurre (fino all’8 settembre del ‘44 si masticava il tedesco). Alla ripresa univer- sitaria, uno scritto del 1910 fu ritenuto particolarmente “fruttuoso” per gli accademici cooptati del secondo dopoguerra, dopo le distruzioni belliche, il vuoto culturale e lo sgomento lasciato dalle leggi razziali, pure acclamate da neo docenti universitari che s’avvantaggiarono della situazione.

Comunque Mackenzie morì nel ‘35; in Sardegna non lo conosceva nessuno e all’università dei miei tempi i docenti si guardarono bene dal consigliarci o procurarci le sue letture: neanche era citato alle lezioni. Era “pascolo riservato” come le fanciulle… “riservate al sovrano”. Ora è tutto più chiaro

Definito “allievo” della British Scool di Roma, in quel momento storico aveva molti motivi per affermare le sue riflessioni: quelle stesse che artigli “padroni”, ingordi, presero dai suoi scritti, in mancanza di studi personali. Presero le sue inferenze e i buoni schemi, per lui realizzati dall’architetto Newton.

Quei disegni sono ancora utilizzati, per cronica mancanza di nuovi apporti (ché gli archeologi indigeni non sanno rilevare i monumenti, né disegnarli e… manco li conoscono).

C’è da dire che i non pochi errori di Mackenzie derivavano dall’inesperienza con i monumenti dell’Isola selvaggia (peraltro, malgrado i trattatelli onirici e gli scritti “autorevoli” di molti, tra Ottocento e Novecento, nessun accademico li conosceva, proprio come accade oggi.

I monumenti dell’Isola “sconosciuta” hanno varietà e particolarità che egli non poteva immaginare malgrado i suoi scavi, a Filacopi, e prima ancora, con A. Evans nell’Egeo, a Micene e a Cnosso.

Dunque Mackenzie ha molte scusanti per gli svarioni delle sue esegesi, magari un po’ meno per i granitici preconcetti mutanti, che lo indirizzavano tra uno scritto e l’altro.

In concreto egli descrisse anche alcuni monumenti culturalmente “intermedi” – secondo lui – tra dolmen e domo de janas, tra dolmen e tombe di giganti, ma diede anche saggi di lettura su alcuni nuraghe.

Quasi tutto ormai fa parte integrante dei manuali universitari detti, ma non alla di lui gloria e memoria, ma d’altri nomi che hanno fatto epoca e che pensavano anche di meritare le medagliette di carta che andavano appiccicandosi al petto (¡l’archeologia era roba di quei Mazzarò! Avrebbe convenuto Verga).

È meglio chiarire che il lesto-prestito, omertoso, non di vantaggio si rivelerà, ma – alla lunga – sarà per loro di grande e disonorevole svantaggio.

Menhir di Biru ‘e Concas (Sorgono)

Fra i detti monumenti figurano – per i prof attuali – una dozzina di dolmen e come tali da loro collocati nel Neolitico: a ben vederli sono apprestamenti essenziali, senz’arte, fatti con pietre brute e di recupero, spesso gravanti su monumenti ben più antichi che, di per sé, se saputi leggere, offrono riferimenti di cronologia relativa, quantomeno, e comunque allontanano dalle sirene del Neolitico

Per l’archeologia, ben si comprende, le sepolture sono molto importanti, non solo per le civiltà più ricche, ma anche per le culture (= popolo, in Antropologia) più essenziali.

Testimonianze architettoniche (o tipo tombale) o scrigni di ritualità e talvolta di contenuti religiosi, sono testimonianza di chi le produsse. Questo vale anche per i Vandali, che in Sardegna null’altro – parrebbe – abbiano lasciato di sé e della loro violenta società di cavalieri transumanti e grassatori; nell’Isola queste tombe, riconosciute ancora da pochissimi, furono e sono ritenute “dolmen neolitici”, nientemeno, a segno di una sostanziale incapacità di “leggere” le architetture e le loro tecniche costruttive.

L’errore, non da poco, è triplice: limiti nell’approccio conoscitivo in architettura preistorica; limiti culturali; solenne strafalcione cronologico (¡4000 anni di deriva!).

[……..continua………..]

  • Biru ‘e Concas (Sorgono)
  • 2. ¡Vandali di Stato, per esempio! – grotta Pirosu o Su Benatzu (Santadi)
  • 3. L’ultima dei Vandali – S’Ena ‘e sa Vacca (Olzai )
  • 4. Vandali e “vandalate”di casa nostra – Monte Baranta (Olmedo)
  • 5. Da Biru ‘e Concas a Monte de S’Abe

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UN METODO PER L’ARCHEOLOGIA

“Spallate d’autore” o Faulabberu”
di Giacobbe Manca

¿Quale Archeologia?
Desideri e Clima avverso
L’obbiettivo è scrivere di ricerca in ambito preistorico senza ripetere amenità trite; voglio percorrere una strada nuova per la ricerca in Sardegna, aperta nell’ambito dell’Architettura Preistorica, oltre le stucchevoli convinzioni riportate in manuali obbligatori, nati stantii. Puntare l’obiettivo sulle tecniche non riscuote i consensi dovuti, ma sono ineludibili anche se subdolamente evitate, finora. Introducendo gli argomenti tecnici penso sia cosa buona e giusta eliminare macerie e cianfrusaglie fin qui prodotte dai tanti “padroni” dell’Archeologia in pagine assai lontane da una qualche parvenza di scienza.
Si tratta di lembi stucchevoli di un folklore archeologico tutto sardo.


L’Architettura e le Tecniche Preistoriche si apprendono in specie sul campo, studiando di persona molti monumenti, cui si sommano gli apporti di operai intelligenti, laureati alla scuola dell’esperienza artigiana: sono cavapietre, scalpellini e costruttori di veri muri a secco (solidi), che, per fortuna, mi hanno accompagnano agli scavi.
Con giuste conoscenze si fanno i passi nella ricerca di settore, ben oltre l’attuale storiografia, ricca di contraddizioni e molte amenità. Eppure, gli addetti hanno sempre attinto a quella, acriticamente.
Il loro “attingere” (¡incredibile a dirsi!) lo definiscono “metodo
storico”; di fatto sono tristi sottrazioni di pensieri altrui.
Il cosiddetto “metodo” degli accademici, infatti, è solo un sotterfugio attuato da chi fruga nelle tasche altrui, non fa ricerca scientifica e, poveretto, in concreto non sa leggere un monumento.
E le fantasie accademiche sono chiamate scienza!

Misera tempora cucurrunt
A considerare la consistenza delle conoscenze tecniche
possedute da ampia parte degli Archeologi di Sardegna, dopo “soli” due secoli d’indagini così “autorevolmente reclamizzate”, viene lo sgomento.
Tralasciamo i pochi lumi del ‘700; sorridiamo sulle menate fenicio-egizio-pelasgiche ottocentesche; soffriamo per i penosi strascichi del primo Novecento (fascismo, leggi razziali, ecc.); smaltiamo la decadenza da contagio e nepotismo dei lustri postbellici, forse ineludibile, che purtroppo continua fino a oggi e appare chiaro che non di vizi epocali s’è trattato ma di secolari “carenze vitaminiche”.
Questa sarda è da sempre una terra di rapina dove l’assenza di metodo è cronica (specie nelle dissimulate procedure d’indagine archeologica). ¡Si tratta, credo, d’intellettuali carrieristi, straniti per gli immeritati scranni su cui sono assisi! Forse però c’è anche altro…
…LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 52

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Architettura preistorica e SINDROME DEL CONDOTTIERO

di Giacobbe Manca

Studiare un edificio significa leggerne la propria funzionalità socio-economica. Esso rappresenta, insomma, una risposta concreta a precise esigenze della società che lo ha espresso, sia essa piccola o grande.
Che più spesso, poi, gli archeologi non riescano a “chiarire” in modo esauriente la funzionalità di un certo edificio preistorico è un fatto solo in parte legato alla difficile penetrabilità delle intenzioni degli uomini preistorici: più spesso si tratta degli ineludibili limiti di noi moderni… e non solo.

A ben riflettere, limitatamente alla varietà tipologica dei monumenti richiamati nel riquadro appare sempre che essi sono in un qualche rapporto con le isole, più o meno grandi.

Un rapido sguardo ad essi, prima ancora di una procedura scientifica, sembrerebbe di consentire, di ipotizzare, singolarmente, una sorta di rapporto inverso fra la dimensione delle isole e l’imponenza e il numero dei monumenti da esse espressi.

Il rapporto appare più marcato se si volesse fare un riferimento al relativo potenziale umano. Si pensi, per esempio, al “sese grande” di Pantelleria (minuscola isola) a confronto con i nuraghe arcaici a bastione e stanzine della Sardegna, sia pure di maggiori dimensioni: ma l’Isola è molto più estesa e doveva essere ben più popolata).

Si pensi, ancora, alla concentrazione monumentale nell’isola Minorca, ben maggiore di quanto si rileva nella più estesa Maiorca. L’argomento sopra accennato, ancora aperto, nasce da uno spunto colloquiale avanzato da Maurizio Feo, l’apprezzato autore di numerosi scritti in Sardegna Antica C.M. e di libri (pubblicati dal CSCM).


Di fatto, i manufatti antichissimi, esprimono sia le abilità di chi le ha realizzate, sia la loro partecipazione a conoscenze più ampie, proprie di un ambito antropologico ben più ampio.

Il sostrato culturale e gli intrecci di radici antiche vanno ben oltre l’orizzonte cantonale in cui i popoli vivono: un ambito tanto vasto
che può comprendere, in questo senso, tutte le terre che s’affacciano al Mediterraneo, per esempio.
Ci sono poi consuetudini ancora più generalizzabili, connaturate alla specie umana e alla sua plurimillenaria esperienza con i materiali messi a disposizione dalla natura: frasche, rami, pali, terra, argilla, pietre
dure, massi, lastroni, pelli, fibre, ecc..

Tutto poi risponde alle leggi naturali della fisica, per cui una procedura edificatoria può avere un senso e avrà futuro, o non averne affatto.

Dove non arriva l’intuito dell’uomo, sarà l’osservazione dei fatti naturali a portare soluzioni, giacché non può essere vinta l’intrinseca natura dei materiali e delle forze che li governano.

La possibilità di realizzare e regolare un’accumulazione primitiva di beni (per ampia disponibilità di cibo e strumenti) avrà effetti non solo sulla qualità della vita ma confluirà anche in opere di utilità comunitarie, persino impegnative.

La realtà architettonica espressa da un popolo sarà dunque conseguente al “potenziale” del territorio e alle sue capacità produttive. Insomma, è la cultura, l’economia, il grado di abilità tecnica acquisito (ovvero il complessivo grado di civiltà raggiunto da una popolazione, o da un clan sufficientemente numeroso, che si concretizzerà in una specifica architettura.

Ancora, è da credere che sarà l’esperienza, consolidata nelle soluzioni tecnico/costruttive tradizionali, ad attestare i differenti gradi di razionalità espressi o messi in atto negli edifici (e dunque “leggibili”).

Porre a confronto esempi delle diverse categorie di monumenti preistorici, evidenzierebbe il come in essi siano impliciti fattori riconducibili a realtà configurabili, sia nella demografia sia nell’economia.

Insomma, dal contenuto tecnico-architettonico osservabile in ogni monumento si potrebbero ricavare fondate ipotesi, sia sul successo demografico sia sullo sviluppo socio-economico ma anche sulle intime e generazionali “vocazioni” di un popolo preistorico.

Nell’inquadramento architettonico dei monumenti interviene, dunque, l’estensione territoriale, la specificità dei suoli e, appunto, l’economia di una data collettività che li ha prodotti.

É lapalissiano: vivere in zone sub-desertiche o paludose significa disporre di assai meno risorse rispetto a coloro che vivono in aree boschive o in pianure, ben più adatte alla produzione di cibo e mezzi.

Inoltre, dall’analisi attenta di un “tessuto” murario, si possono individuare non solo le tecniche ricorrenti ma anche le soluzioni costruttive (l’intelligenza), come pure l’intera sintassi o la filosofia costruttiva sottintesa in ogni singolo edificio: s’individua, in sostanza, la categoria cui ascriverlo e quindi si potranno esprimere convergenze o difformità con altri monumenti preistorici.

Dolmen diffusi in territori caucasici e del Mar Nero. Si noti il riquadro a bassorilievo, che rimanda alle tombe di giganti.

Col detto processo ermeneutico, dunque, si possono accrescere le conoscenze dei componenti distintivi contenuti nell’antica scienza del costruire (pensieri, criteri, tecniche), che sono impliciti nei monumenti detti e derivarne, pertanto, molte conoscenze correlate.

Individuare “comuni denominatori”, per dirla con l’aritmetica, può essere utile a rivelare parentele, progressi e convergenze.

Senza voler entrare in tecnicismi ardui, per dare un primo, semplice esempio, si potrebbe dire che tutti i monumenti preistorici sono realizzati a secco (ovvero non hanno malte aggreganti); che i massi concorrenti a siffatte opere, sono collocati solo in determinati modi e non in altri: parlo, insomma, della statica di muri che si possono definire logici, ben precedenti alla scoperta dei cementi e che, pertanto, prescindono da quel diverso criterio.

Si deve prendere atto che le richiamate costruzioni, che si conviene definire a secco, hanno regole precise che, ahimè, sfuggono in toto a troppi archeologi no- strani detentori di scranni e, pertanto, solo tale vuoto costoro possono trasmettere agli ubbidienti seguaci.

Da qui, a mio vedere, discendono i guasti infiniti (mancato progresso o enormi assenze conoscitive) che sono stati prodotti da certa letteratura fantastica (giustificata – a loro dire – dal “metodo storico”), che definisco insensata, ottocentesca o vuoto-velleitaria. Penso si possa giungere a dire che la filosofia tec- nico-edificatoria nella preistoria sia sostanzialmente una sola.

Dato un progetto preistorico in planimetria e in elevato, l’unica norma consta nel disporre i blocchi componenti i muri in modo nettamente stabile e concatenato: senza deroghe o cedimenti.

Non sembri questa una banalità, né cosa semplice, giacché l’evocata stabilità o solidità dei muri a secco (che si potrebbe assumere come proverbiale nel caso dei nuraghe, per esempio) pardossalmente appare uguale in tutte le varietà dei paramenti murari, siano essi concavi, lineari, verticali, aggettanti o arretranti, o, non è assurdo, persino convesso-aggettanti

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Architettura preistorica e SINDROME DEL CONDOTTIERO Leggi tutto »

Ottusangoli e fole

Per il progresso dell’Archeologia sarda
di Giacobbe Manca

“Auspicato Profeta:… ma”
L’archeologo scozzese Duncan Mackenzie visitò almeno tre volte la Sardegna, tra il 1906 e il 1912, producendo quattro scritti per i quaderni della British School di Roma: solo il contenuto del primo fu proposto in italiano per la rivista culturale romana Ausonia; altri tre resoconti, mai giunti agli allievi sardi in archeologia, praticamente reperibili solo a Roma, restano ancora in lingua originale.


Per il centenario, il CSCM concepì di editare la traduzione e ’attualizzazione del terzo scritto (1910), ritenuto molto interessante proprio per l’apporto che si ritiene abbia dato all’Archeologia isolana.

L’iniziativa è andata a rilento per cause diverse, come la difficoltà obbiettiva di ottenere una voltura affidabile (stanti le contraddizioni e la “legnosità” dell’autore) e la necessaria rivisitazione di tutti i monumenti ivi analizzati. Intanto furono proposti diversi articoli in Sardegna Antica C.M.: in essi si analizzano monumenti molto importanti per la letteratura di settore e si evidenziano diversi svarioni contenuti negli scritti dell’inglese.


Alla luce di odierne analisi tecniche applicate ai monumenti “chiave”, furono proposte in particolare nuove interpretazioni degli stessi, ben più fondate e ciò fu riconosciuto (scambi personali) anche dall’allora indiscusso “facitore” dell’Archeologia isolana che, in un attimo di “incertezza privata”, ritenne di dover attribuire le colpe degli errori “non visti” … al Mackenzie.


Intanto, un’inusitata iniziativa editoriale, ben lontana dall’esegesi disciplinare, apparve qualche anno fa, retorico, senza motivazioni pedagogiche, né analisi o indagini specifiche. In essa sono pesanti limiti nella traduzione pedissequa del testo inglese, nell’evidente oblio dei monumenti descritti, e lungi dall’imperativo della necessaria attualizzazione dei contenuti, anche alla luce dei nuovi e numerosi apporti scientifici già divulgati ma ignorati in toto.


In concreto, salvo il catalogo dei siti, l’opera di Mackenzie è scientificamente irrilevante, eppure oggi egli assurge, per i cattedratici, ad autore “di alto e… profetico riferimento” stando a cotanta editoria. Nella detta pubblicazione si leggono vieppiù, valutazioni del tutto erronee e/o gratuite.
In ogni caso, emerge quanto – dal secondo dopoguerra a oggi – l’accademia sarda si è pedissequamente “appropriata” delle esternazioni del Mackenzie.

Infatti, nei manuali della disciplina, “imposti” agli studenti non si registra alcuna nota, chiara e inequivocabile, che rimandi all’inglese le intuizioni: le scoperte sarebbero, dunque, merito esclusivo dei “grandi” docenti-mito, trovatisi in carriera “proprio a seguito dei vasti vuoti culturali determinati… dalle leggi razziali”. Ciò spiega bene la forte reticenza e la sconnessa difesa dello status quo da parte di archeologi sistemati, ora orfani. ¡

Non fu solo Mackenzie a sbagliare, come il “potente facitore” pretendeva! ma tutti quelli che ne accettarono e ancora ne accettano, irrazionalmente, gli apporti: orbi carrieristi e “omertosi” in primis.

Preliminari e simil conclusioni

Ai tempi in cui Mackenzie venne nell’Isola, la Sardegna era vista da molti come un’anacronistica sopravvivenza antropica di semiselvaggi, palestra per etno-patologi alla Niceforo: tutto assai poco attinente con la Preistoria.

L’esplorazione attraverso quelle curiosità antropologiche, all’insegna dell’innatismo, ricercate nell’Isola dalla detta scuola inglese, gemmata nella recente capitale del potere piemontese, sembra riecheggiare la spinta indagatrice di certo pregiudizio allora seguito, sull’onda degli acclamati studi del torinese, influente e longevo, C. Lombroso (1803 – 1909).

L’attenzione “scientifica” di quest’ultimo riguardava il cretinismo e la propensione alla delinquenza – estesa, manco a dirlo, in specie alla Sardegna – le cui cause egli riconduceva alla “stirpe”.
Per tutti, in seguito, le scienze antropologiche fecero molti progressi concreti – non altrettanti quella archeologica, in verità.


In quell’ottica s’avviò in Sardegna la ricerca della British School at
Rome e in quell’avvio del 1906 si affiancò, si riporta, la curiosità archeologica dello scozzese, favorito dall’ambasciatore Egherton.


In tre autunni consecutivi egli esplorò, molte contrade della Sardegna, dal Capo di sopra all’altopiano del Guilcier e all’Iglesiente. Per i rilievi fu coadiuvato dall’architetto Newton, ottimo disegnatore di edifici preistorici; “sui monti” fu bene accolto da buoni indigeni che lo guidarono ai monumenti.

Tutto si svolse sotto una buona stella, come lui stesso scrisse.
Tornando al Mackenzie, tuttavia, bisogna riconoscere che quelli d’inizio Novecento erano tempi in cui gli studiosi ricercatori per comprendere andavano davvero a vederli… i monumenti.

Forti di ampie conoscenze pragmatiche (vedi gli archeofili tra Ottocento e primi del Novecento) li interpretavano, eseguivano o ne ispiravano il rilievo – sempre in loro presenza – e ne davano una “lettura” diretta – ben coscienti, credo, che essa fosse valida ma solo fino a maggiori progressi.


Tempo dopo, nei decenni del secondo periodo postbellico, in Sardegna si cominciò a vivere di assemblaggio e rendita (per esempio: i rilievi e le analisi del Della Marmora, del Taramelli, del Nissardi, del Pallottino, del Newton/Mackenzie ecc. furono (e sono) utilizzati, sia perché ritenuti più che accettabili sia, soprattutto, perché nessuno degli archeologi succedanei ai detti capi mitici mostrò di dover verificare, studiare o, ancor peggio, aggiornare (non dico ridisegnare – ¡Dio aiuti!).

Infatti, da allora tutto era (ed è) dato per certo e acquisito: ¡definitivamente e pedissequamente, per la beata umanità bisognosa di miti e sale da te!

“Tout de bot”, un noto articolo del 1910 di Mackenzie appare tradotto in italiano: non un saggio d’archeologia: la sola traduzione senza apporti culturali; lo premette una scarna biografia (pp.17-18).1

“Duncan Mackenzie, I Dolmens, le tombe di giganti e nuraghi della Sardegna”, Condaghes, 128 pagine; brossura BN, traduzione dell’articolo The Dolmens, Tombs of the Giants, and Nuraghi of Sardinia, (Papers of the British School at Rome, Vol. V, 2; London 1910).

Credo valga la pena soffermarsi, in breve, su alcuni aspetti: metodi, contenuti e pieghe mentali o culturali inferibili dalla detta traduzione. Il prodotto editoriale concerne, dunque, uno scritto di oltre cento anni fa: uno dei quattro dello scozzese riguardanti la Sardegna.

Risulta che il valente “archeologo preistorico”, lavorò per alcuni decenni in Egeo: a Cnossos (Creta), a Philacopy (Melos) e conosceva, oltre la sua Europa, anche il vicino Oriente.

Fu un valido aiuto di Evans, anch’egli una sorta di “mito” inglese, al quale diede certamente il suo destro, ma anche di più – dice taluno: “fornì” riflessioni e valutazioni non proprio riconosciutegli (fatti ricorrenti), forse a causa di mai chiariti umori tra lui e il famoso capo.

Dell’opera in questione e di alcuni contenuti/intuizioni del Mackenzie ho già scritto in Sardegna Antica C. M., n. 34, del 2008, nel sintetico articolo “Duncan Mackenzie e i dolmen sardi: cento anni di crepuscolo”, che ebbe qualche migliaio di lettori, ma che certo non è stato visto o inteso nel divino mondo stipendiato della “archeologia isolana”, statica e salottiera. A. Evans fu, più propriamente, un imprenditore colonialista dell’archeologia, come in quel momento storico usavano gli inglesi e non solo: era un “cacciatore” di oggetti per sé e per la “corona”, dal che ottenne il titolo di Sir: perciò non era un vero archeologo ancorché, come tanti, agì come tale.

Si sussurra che Mackenzie fu allontanato per la sua condizione di alcolista, ma si dice pure che il motivo “vero”, forse più umano, riguardava la bella compagna di Evans; altri ventilano sintomi di pazzia o sofferenze che causavano prostrazione fisica e mentale.

Molto resta vago riguardo a Mackenzie, ma nelle brume anglo-scozzesi è saggio non rimestare pettegolezzi e ci si attiene maggiormente alla scienza.

Preconcetto e maldicenza restano i lividi retaggi coltivati in orizzonti culturali e geografici angusti, come certa accademia isolana, dove la paura di un confronto scientifico è palpabile e si esorcizza talvolta con stizzose “liste di proscrizione”, lancio di melma e pugnali… alle spalle, naturalmente.

Mackenzie, lucido forestiero

Mackenzie aveva, dunque, ampie conoscenze specifiche: dal mondo megalitico delle sue contrade e della Francia, a quelle, assai più vaghe, della Corsica e delle Baleari;

come detto, ben conosceva anche diverse realtà dell’Egeo. Alle soglie dei cinquant’anni, con la sua vasta esperienza, si apprestava a conoscere l’oscura, peculiare preistoria della Sardegna.

Torno all’articolo, tradotto con intuibile impegno ma portatore di diverse pecche: ai molti passi non chiari o privi di significato, si aggiunga – come detto – la mancata attualizzazione di “certa” parte obsoleta dell’Archeologia di Sardegna. Insomma, un’occasione “perduta” per approdare a un’utile analisi bibliografica e contenutistica.

È, soprattutto, l’occasione mancata per riflettere, finalmente, sulla colpevole acquiescenza pluri generazionale verso contenuti solennemente erronei: quelli che gli orfani da mito sono ancora interessati a santificare… ab aeterno.

In tal segno, altro sconcerto deriva dalle “emanazioni” della cosiddetta Presentazione, che vorrebbe essere una premessa allo scritto in questione, ma proprio non ci riesce. Il libro ha in appendice il testo originale (trascritto… con mancanze), quasi utile per sciogliere i molti dubbi che affiorano dalla lettura.

Quanti leggeranno quella versione, dotata di “cotanta Presentazione”, tengano comunque per certo che, per l’Archeologia isolana, lo scritto del Mackenzie è proprio “preistorico”: è più che superato, solo valido per una salutare riflessione sugli errori del passato; magari è occasione per la rivisitazione dei monumenti descritti a distanza di oltre un secolo e un lustro.

Ora è pure una testimonianza indiretta delle pieghe psichiche di “studiosi” locali (dal secondo dopoguerra a oggi), che credettero di “appropriarsi” appieno delle opportunità lucide, straniere e gratuite – manna dal già defunto Mackenzie. Ancora oggi la tifoseria del Nuragico militarista ne subisce l’abbaglio (e la conferma diretta è nella “dotta” Presentazione): i dogmi emanati dai “capi-mito”, per taluni che ne sentono la dipendenza appaiono come un irrinunciabile oppio obnubilante


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Straordinario Voes di Nule

di Giacobbe Manca

Per primo, del nuraghe Voes pubblicò nel 1910 l’archeologo scozzese Duncan Mackenzie.

In Sardegna, da ormai un lustro il giovane archeologo Antonio Taramelli operava a Cagliari. Di vasta cultura classica, succedeva al Patroni nella direzione delle an- tichità sarde, in quanto esperto e figlio d’arte (il padre Torquato – bergamasco – era un noto geologo, docente a Pavia dal 1875).
In quell’avvio di secolo, nel programma degli studi an- tropologici promossi in ambito mediterraneo (anche a Malta, Corsica e Baleari), la British School di Roma aveva deciso, sotto l’egida dei suoi potenti agganci politici, d’intraprendere lo studio dei monumenti preistorici dell’isola ritenuta selvaggia, ancora sostanzialmente sconosciuta.


L’appassionato Francesco Nissardi, tecnico della règia soprintendenza, da tempo sapeva di questo straordina- rio monumento e nell’autunno del 1906, con liberalità, lo fece conoscere proprio al ricercatore inglese e all’architetto disegnatore F.H. Newton, solito compagno di viaggio, durante la prima delle sue diverse visite fatte in Sardegna. Nissardi, già allievo dello Spano, fece parte ai due inglesi anche della propria esperienza e dei primi rudimenti tecnici conseguiti col personale studio dei monumenti nuragici.

Fu così che la consistenza architettonica del grande e composito edificio di Nule, che custodisce una percorribilità interna “inusitata”, unitamente all’austerità dell’estetica e alla solidità, furono puntualmente sottolineati da Mackenzie…
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Monte de S’Abe e i rapaci

Poco oltre la periferia, Sud-occidentale di Olbia, alle spalle dell’aeroporto e del castello Pedres, si può osservare ciò che resta di una bella, grandissima, tomba di giganti più spesso detta di Monte de S’Ape (ma è meglio dire S’Abe!).1
Si raggiunge facilmente, unitamente al nominato castello, dalla strada che da Olbia conduce a Loiri. Del monumento sepolcrale si osserva l’esedra lunata, ampia e incompleta come un sorriso segnato da incidenti, realizzata con una dozzina di lastre ortostate di diversa misura.

Il lungo corridoio tombale è reso con analoghe lastre e appare coperto solo molto parzialmente da pochi grossi blocchi residui, cilindroidi, in disposizione dolmenica e appaiati; esso è chiuso con una bella lastra fondale inusitatamente rotondeggiante e accuratamente lavorata nel contorno (con evidente incongruenza rispetto alla funzione rivestita), eccessiva per dimensioni e, infine, sensibilmente distante dal giro conclusivo dell’abside.

La tomba fu privata della sua bellissima stele che, certamente molto alta, l’ornava in facciata; la si deve immaginare canonica: ricurva in alto e segnata da cornici ai bordi e con un’analoga banda al centro.

Di essa resta solo lo spazio vuoto nel centro dell’esedra (come la cicatrice di un antico delitto) ad indicare una colpevole ignoranza e un’ingorda miopia, vagamente riconducibile agli inizi del secolo scorso, se non prima.
Si osserva in quel tratto centrale, appena più interno nel detto varco, il basso avvio del consueto corridoio d’accesso, curiosamente sovrastato da un piccolo architrave, incongruente con l’insieme e, per sua stessa postura, assai stridente, nella cui faccia inferiore è una concavità liscissima: un’areola di tipo ben noto, che per le sue peculiarità e per l’originaria funzione sacrale definisco “preghiera”.

Considerando l’insieme di tutti gli elementi concordi sopra indicati, quali lo stile dolmenico nell’esedra e nella camera, la grande stele arcaica in facciata (ora asportata, ma presente in antico: residua in un piccolo frammento basale in situ), si può certamente ascrivere questa tomba di giganti a quelle di realizzazione più antica e, pertanto, collocabile genericamente al Nuragico Arcaico.

Alcuni degli elementi sopra notati, però, lasciano fondatamente pensare che la tomba sia stata edificata (un fatto ricorrente anche in antico) nello stesso sito dove già esisteva un precedente monumento funerario, i cui componenti ricomposti (almeno alcuni, per quanto oggi osservabile) non lasciano dubbi.

Richiamo l’attenzione sulla notata, non proprio congruente, lastra fondale di camera, sulla sua notevole distanza dal muro absidale e, infine, sul piccolo menhir segnato da “preghiera” quale improbabile architrave del basso corridoio d’accesso alla camera: chiari elementi di riutilizzo.

Non potendo meglio sondare le strutture dell’edificio ci si limita a questi tre elementi, che personalmente ritengo molto significativi, ancorché mai siano stati osservati prima, né dall’archeologa che a suo tempo condusse lo scavo archeologico e non solo, né da quanti la “studiarono” in seguito o, meglio, ne ripeterono pedissequamente la planimetria e il riepilogo dei poveri risultati di scavo3 (che diede esiti romani e moderni, non meglio circostanziate ceramiche di “tipo nuragico” (?) e piccole anse “di tipo Bunnanaro”).

Altre pubblicazioni espressamente dedicate alla Gallura esprimono, nello specifico rimando ai monumenti funerari nuragici e, dunque, anche a Monte de S’Abe, posizioni assai epidermiche e annichilite sul dato quantitativo, con inadeguati e assai impropri rimandi bibliografici.4

Ha dell’infantile, ad esempio, l’osservazione “da luminare” circa fatti architettonici sovrapposti (e l’imman- cabile ripetizione pedissequa [vedi la nota precedente] per cui si avanza una comune sorte fra la tomba di Monte de S’Abe (Olbia) a quelle di Coddu ‘Ecchju e Li Lolghi (entrambe di Arzachena).

In quello scritto, si legge, infatti, che tutte sarebbero accomunate da aggiunte architettoniche su cosiddette allées couvertes originarie (sostanzialmente si dice che le camere delle tombe in origine sarebbero state dolmen allungati) trasformate in tombe di giganti: ma questo non è proprio vero e i tre monumenti
tombali richiamati hanno in comune solo lo stile dolmenico delle camere, oltre la richiamata connotazione (e quindi la cronologia) di tombe arcaiche (si ricorda, ad esempio, la cosiddetta stele “centinata” e l’esedra a ortostati).


In realtà quell’attribuzione di struttura composita notata è chiaramente corretta solo per la tomba di Coddu ‘Ecchju (che nel cuore custodisce una cosiddetta allée couverte) ma non per le altre due.
La tomba di Li Lolghi conserva “aggregato” nel tratto absidale l’intero dolmen allungato originario (in nessun
modo trasformato in corridoio di tomba di giganti, che ad esso viene invece addossata davanti, nel quadrante meridionale).

Ancora, il sepolcro di Monte de S’Abe ha caratteristiche del tutto diverse, mai messe in luce da cotanti analisti
esperti – maldestri ripetitori di pensieri e opere altrui.

Le peculiarità notate in quest’ultima, infatti, depongono certamente per una continuità nell’uso funerario del sito, ma con un totale rifacimento degli edifici più antichi, supposti e sfuggenti (fra cui non necessariamente una allée couverte), i cui esiti non sopravvivono “inglobati nel cuore”, come genericamente si vorrebbe, ma in mimetici elementi componenti, diversamente riutilizzati nel tempo (menhir come architrave, lastra di copertura riusata come ridondante pietra fondale) e con uno spazio/iatus troppo ampio tra quest’ultima e il giro absidale.

Questa insolita disposizione è spiegabile solo se si ammette che in quel tratto, in antico, poteva facilmente essere presente un piccolo dolmen (come a Li Lolghi (?) o magari una cista litica con peristalite (di cultura gallurese): tutto ormai spazzato via dall’antico rifacimento (e forse anche da altre manovre “scientifiche” ben successive), i cui elementi dovettero essere riutilizzati nella nuova tomba monumentale, quella che già è stata ascritta al Nuragico Arcaico (come anche molti altri esempi di tombe di giganti concorrono a confermare, oltre ogni dubbio).
Continua nel numero 40


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Domos de janas e Domenico Lovisato

di Giacobbe Manca

Arcane Domos de janas

Volendo ripercorrere lo studio delle domos de janas [d’ora in poi anche domos d j.], è anche opportuno riprendere le peregrinazioni e le riflessioni del noto ma trascurato Domenico Lovisato: un geologo della seconda metà dell’Ottocento, che “s’ammalo” di Paletnologia in Sardegna proprio da quando, per ventura, incontrò le domos dj. e non riuscì a esorcizzarne il fascino.

Volle capire cosa fossero, conoscerne la vicenda culturale e cronologica, anche oltre i problemi logico-geologici che pure si ponevano e che per taluni ancora si pongono.

Egli sconfinò in una scienza in cui altri contemporanei avrebbero dovuto mostrare piglio scientifico, in assenza del quale fu spinto, quasi “costretto” a pronunciare il suo pensiero logico.

Molti addetti alla paletnologia sarda credono che ormai si sappia molto o quasi tutto di quanto sia concreto attendersi per questi monumenti così “prodigiosamente” scavati negli affioramenti rocciosi e detti domos de janas (: casa delle janas: piccole fate streghe).

Dai poveri e ben superati manuali proposti/imposti agli studenti si evincono certezze – inguaribile presunzione degli uomini – sia sulla loro destinazione (furono per certo sepolture), sia sulla posizione culturale e cronologica (furono fatte da popoli del Neolitico – almeno dal Medio in poi – per tutto il Calcolitico e fino al Bronzo Antico, se non oltre); ancora. sono presenti a ogni latitudine dell’Isola, con la sola eccezione della regione Gallura.

In realtà, pero, sono pochi gli indizi e ancor meno le prore utili a determinare un’affidabile seriazione tipologica necessaria per porre in relazione le molte specificità dei monumenti con distinte fasi culturali o popoli ascrivibili al lungo periodo su accennato.

Insomma, le cosiddette domos dj. esprimono una grande variabilità nella forma, nella dimensione e negli apprestamenti interni e ciò deve avere un senso. In esse si osservano rilievi, decorazioni con ocre policrome, simbologie, banconi, loculi, rialzi, cornici, semicolonne e altri elementi architettonici a bassorilievo, semplici o stupefacenti trabeazioni, ora con soffitti piatti o diversamente curvilinei e variamente lisciati o segnati da coppelle rituali.

Domus di Isportana – Dorgali

Talvolta le pareti sono lisce, talaltra lavorate a cavità. solchi e chiare costolature di varie larghezze.

Le cavità hanno dimensioni molto variabili: da un ambiente a vani multipli disposti in planimetrie altrettanto diverse. Ora contengono uno spazio piccolo quanto un’urna, ora una stanzina angusta, ora ambienti numerosi e grandi, anche molto ampi,”regolari” (circolari e/o quadrangolari) disposti in modo simmetrico; altre volte le camere sono molto iregolari, a lobi e nicchie o spazi diversi.

Contengono colonne semplici o istoriate con ocre o semirilievi diversi, banconi e divisori. Anche i portelli d’accesso originali, prima di eventuali modifiche per riutilizzi, appaiono diversi per forma, dimensione e disposizione: rilevati o a livello di suolo, verso tutti i quadranti del cielo.

Concentrate in quantità o disseminate su ampi territori. si ritrovano in esemplari singoli, in due o più unità vicine, fino a insiemi giustamente definibili “necropoli”, dove si contano anche decine di domos dj., talora tutte diverse tra loro.

Insomma, tutte queste varietà di forme, dimensioni e particolarità devono pure avere un senso logico che, in buona parte, deve essere ancora compreso.

Se si ritiene che tutto ormai si sappia, come sopra accennavo, penso non avrebbe più senso concreto il persistere con scritti intrisi di pedisseque e banali ripetizioni, anche quando “l’auspicata novità” consista ancora in cocci o oggetti ubicati in “stratigrafie ripetitive”, a reiterare conferme.

Vedo, piuttosto, che nessuna utile estensione dell’indagine, di fatto, sia concessa ai “contenitori” oltre una vaga descrizione, così che, le indagini restano monche. Torniamo indietro nella storiografia, dunque, a quando il complesso delle conoscenze su queste cavità artificiali era pari al chiarore di un luna, e in un antro del tutto buio o poco meno.

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Passeggiata a Dorgali

di Giacobbe Manca

Debbo segnalare agli studiosi il grandissimo interesse che ha Dorgali: la bellezza del territorio dalle montagne dolomitiche superbe, dalle foreste incantevoli, dai golfi pieni d’incantevole azzurro, di misteriose grotte sottomarine, di antri dove sfilano come in processione di ceri le stalattiti più sorprendenti. Ma soprattutto è la gente schietta, ospitale, lavoratrice, ingegnosa, che lascia in cuore la nostalgia del ricordo, quando non incatena con le malie dell’amore”.


Così il Taramelli sintetizza, in uno scritto del 1933, il suo sincero amore per l’ameno villaggio di Dorgali e per la sua gente. L’irrefrenabile scavatore dall’ instancabile piccone, con la punta sempre lucida, aveva “scoperto” Dorgali nel 1927 e da allora mostrò un evidente legame emotivo con questo territorio e con la sua gente.

Può essere utile confermare ancora oggi come l’incanto del territorio in questione permanga immutato e altrettanto può dirsi delle qualità umane di chi lo abita.
Taramelli, spartano studioso di Preistoria, dovette lasciare più che un pizzico di cuore a Dorgali, giusto come per altre insondabili strade era successo anche al grande Alberto della Marmora, che nel maggio del 1823 si rifugiò presso il parroco di questo paese, dopo aver subito una grassazione ed essere scampato ad un grave pericolo di vita nella piana d’Isalle, per scoprire che due dei molti malviventi erano nipoti proprio di quel curato, che confessandone l’identità, in pari tempo glieli raccomandò perché impetrasse clemenza per loro, che erano buone anime, in fondo.

Come in un romanzo ottocentesco, appunto, quel potente magnanime intervenne a Cagliari presso il Viceré perché il reato fosse condonato e i legami umani si rinsaldarono viepiù, giacché il Della Marmora tenne a battesimo il primogenito del giovane ex bandito, che nel frattempo si era sposato.

Aveva intuito, il Taramelli, di là dalle incontrollabili pulsioni dell’animo, lo straordinario potenziale archeologico del vario e vasto, anzi vastissimo, territorio di Dorgali. Se fosse confermata la presenza dell’uomo paleolitico nella Valle di Lanaitto (Oliena-Dorgali), proprio ai piedi della Cordiglia di Tiscali (Dorgali), o altrove, lungo la costa (Grutta de Tziu Santoru?), si potrebbe affermare che ogni epoca preistorica è testimoniata in questo straordinario territorio, dipinto dai fascinosi calcari, dai diversi graniti e dal basalto a placche o a singolari colonne poligonali delle eruzioni quaternarie.

Egli stesso aveva segnalato diversi monumenti, alcuni di grande rilievo, come il Nuraghe Mannu, a picco sulla Codula Fuili e dominante su tutto il suggestivo Golfo di Orosei, da Capo di Monte Santo a Sud alla Marina di Cartoe e Osalla.

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