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Vandalusia di Sardegna

Vandali storici e Vandali odierni

Dei Vandali storici sappiamo molte cose: partirono dal regno fondato in Africa guidati dal re Genserico nel 455 d.C., si stanziarono in Sardegna per proseguire verso Roma, decadente capitale imperiale, che saccheggiarono nello stesso 455.

Erano Germani, provenivano dalle rive del Baltico (tra l’Oder e la Vistola), quindi si spostarono in Pannonia (409) per poi invadere la Gallia e la Spagna (La Vandalusia , oggi Andalusia).

Passato lo stretto di Gibilterra (428), si fusero con gli Alani (erano Irani o Ariani), divenendo potenti al comando di Genserico.

Il loro regno si estendeva lungo l’ex provincia romana dell’Africa mediterranea, da Gibilterra alla Cirenaica (attuali Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, cui presto di aggiunsero la Sicilia, le Baleari e la Sardegna).

In quest’Isola misero piede nel 455 quando, sempre al comando di Genserico, volsero le prue verso Roma (455), che fu saccheggiata.

Volendo dare credibilità a certe raffigurazioni pittoriche del “sacco di Roma” vandalico, si dovrebbe credere – senza prova – che allora fu trafugata la menorah aurea, tenuta a Roma dopo la distruzione del tempio a Gerusalemme

Imperversarono in Sardegna per circa 80 anni, fino alla sconfitta subita dai Bizantini nel 534.

Nessun monumento di rilievo restò nell’Isola dalla loro azione di rude spoliazione, ma è indubitabile che anche loro seppellissero i defunti con una modalità che da diversi anni tende a delinearsi attraverso tombe dalle caratteristiche assai essenziali e, in modo analogo – è verosimile – seppellirono i depredati isolani, superstiti della Roma famelica.

Il loro nome, tutti sanno, ha l’accezione di incolti, rozzi e violenti, quali furono. Seguivano, però, la dottrina cristiana, secondo i dettami dell’Eresia Ariana.

Significativa la novella di L. Pirandello, dove l’umorismo e il sarcasmo della vita cade su un docente erudito. Assai miope, costui tenne una memorabile Letio Magistralis avverso l’Eresia Ariana, nella sua aula sempre deserta, ma il giorno, per l’irresistibile richiamo della detestata e “oscura” eresia, era invece gremitissima … di soprabiti lì posati casualmente, in un giorno di forte pioggia (in Novelle per un anno, (1937e 1938), postuma).

Veri Vandali e loro emuli odierni, per incultura e genetica, hanno sempre parassitato la società civile.

L’archeologia, nel suo piccolo, ne “parla”, lamentando cicatrici quali esiti di malefatte segnalate, con pervicace cadenza, nelle pagine di Sardegna Antica C. M..

Da tempo però si dà anche conto di rinvenimenti o rivisitazioni su certi monumenti dalla “strana” consistenza, collocabili tra il “ciclopico e l’approssimativo”; essi figurano già nella fantasiosa, “obbligatoria”, letteratura universitaria del dopoguerra, i cui autori “attinsero” in modo discreto (= s’appropriarono in silenzio) – serpeggia la certezza, di certe pubblicazioni del primo Novecento, (una in italiano e tre in inglese), dell’archeologo Duncan Mackenzie, scozzese di buon scotch.

D. Mackenzie

Di D. Mackenzie si conosceva una breve pubblicazione della rivista usonia del 1908, tradotta in italiano dal direttore della British School di Roma, utilizzata come biglietto da visita per fare cassa (convogliata a Londra) per la loro attività di “esplorazione” (periodo coloniale).

Altre tre pubblicazioni erano in inglese e qualche docente se le fece tradurre (fino all’8 settembre del ‘44 si masticava il tedesco). Alla ripresa univer- sitaria, uno scritto del 1910 fu ritenuto particolarmente “fruttuoso” per gli accademici cooptati del secondo dopoguerra, dopo le distruzioni belliche, il vuoto culturale e lo sgomento lasciato dalle leggi razziali, pure acclamate da neo docenti universitari che s’avvantaggiarono della situazione.

Comunque Mackenzie morì nel ‘35; in Sardegna non lo conosceva nessuno e all’università dei miei tempi i docenti si guardarono bene dal consigliarci o procurarci le sue letture: neanche era citato alle lezioni. Era “pascolo riservato” come le fanciulle… “riservate al sovrano”. Ora è tutto più chiaro

Definito “allievo” della British Scool di Roma, in quel momento storico aveva molti motivi per affermare le sue riflessioni: quelle stesse che artigli “padroni”, ingordi, presero dai suoi scritti, in mancanza di studi personali. Presero le sue inferenze e i buoni schemi, per lui realizzati dall’architetto Newton.

Quei disegni sono ancora utilizzati, per cronica mancanza di nuovi apporti (ché gli archeologi indigeni non sanno rilevare i monumenti, né disegnarli e… manco li conoscono).

C’è da dire che i non pochi errori di Mackenzie derivavano dall’inesperienza con i monumenti dell’Isola selvaggia (peraltro, malgrado i trattatelli onirici e gli scritti “autorevoli” di molti, tra Ottocento e Novecento, nessun accademico li conosceva, proprio come accade oggi.

I monumenti dell’Isola “sconosciuta” hanno varietà e particolarità che egli non poteva immaginare malgrado i suoi scavi, a Filacopi, e prima ancora, con A. Evans nell’Egeo, a Micene e a Cnosso.

Dunque Mackenzie ha molte scusanti per gli svarioni delle sue esegesi, magari un po’ meno per i granitici preconcetti mutanti, che lo indirizzavano tra uno scritto e l’altro.

In concreto egli descrisse anche alcuni monumenti culturalmente “intermedi” – secondo lui – tra dolmen e domo de janas, tra dolmen e tombe di giganti, ma diede anche saggi di lettura su alcuni nuraghe.

Quasi tutto ormai fa parte integrante dei manuali universitari detti, ma non alla di lui gloria e memoria, ma d’altri nomi che hanno fatto epoca e che pensavano anche di meritare le medagliette di carta che andavano appiccicandosi al petto (¡l’archeologia era roba di quei Mazzarò! Avrebbe convenuto Verga).

È meglio chiarire che il lesto-prestito, omertoso, non di vantaggio si rivelerà, ma – alla lunga – sarà per loro di grande e disonorevole svantaggio.

Menhir di Biru ‘e Concas (Sorgono)

Fra i detti monumenti figurano – per i prof attuali – una dozzina di dolmen e come tali da loro collocati nel Neolitico: a ben vederli sono apprestamenti essenziali, senz’arte, fatti con pietre brute e di recupero, spesso gravanti su monumenti ben più antichi che, di per sé, se saputi leggere, offrono riferimenti di cronologia relativa, quantomeno, e comunque allontanano dalle sirene del Neolitico

Per l’archeologia, ben si comprende, le sepolture sono molto importanti, non solo per le civiltà più ricche, ma anche per le culture (= popolo, in Antropologia) più essenziali.

Testimonianze architettoniche (o tipo tombale) o scrigni di ritualità e talvolta di contenuti religiosi, sono testimonianza di chi le produsse. Questo vale anche per i Vandali, che in Sardegna null’altro – parrebbe – abbiano lasciato di sé e della loro violenta società di cavalieri transumanti e grassatori; nell’Isola queste tombe, riconosciute ancora da pochissimi, furono e sono ritenute “dolmen neolitici”, nientemeno, a segno di una sostanziale incapacità di “leggere” le architetture e le loro tecniche costruttive.

L’errore, non da poco, è triplice: limiti nell’approccio conoscitivo in architettura preistorica; limiti culturali; solenne strafalcione cronologico (¡4000 anni di deriva!).

[……..continua………..]

  • Biru ‘e Concas (Sorgono)
  • 2. ¡Vandali di Stato, per esempio! – grotta Pirosu o Su Benatzu (Santadi)
  • 3. L’ultima dei Vandali – S’Ena ‘e sa Vacca (Olzai )
  • 4. Vandali e “vandalate”di casa nostra – Monte Baranta (Olmedo)
  • 5. Da Biru ‘e Concas a Monte de S’Abe

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Numero 56 – II Semestre 2019

Disponibile da Gennaio 2020, il nuovo numero 56 di Sardegna Antica

In prima di copertina: Portale di Persepoli, Iran, custodito dalla presenza imponente di poderosi lamassu.

Descrivere il passato della Sardegna come si vorrebbe sia stato (anche se lo si vuole fortemente), è azione ipocrita, infondata, antistorica, ascientifica e vergognosa.

Certi furbi descrivono storie e vicende proprio come i loro “seguaci” desiderano: lo sanno bene.

Vogliono solo vendere i propri libri o “comprare” voti, acquisire fama, soldi, simpatie e vantaggi, inviti a feste (anche inventate ad arte), sagre, congressi vari, presentazioni e manifestazioni… tutte occasioni per vendere “libri zeppa”, solo buoni per fermare tavoli pencolanti.

La linea di Sardegna Antica è invece quella di combattere le malefatte, le inesattezze, le stupidaggini archeologiche o storiche ecc., senza quartiere né remore di sorta.

D’ora in avanti contiamo di stigmatizzare meglio i soprusi e i danni perpetrati a danno del comune patrimonio culturale e monumentale sardo, chiunque sia l’attore e di qualsivoglia levatura e “autorità acquisita”, senza eccezioni.

Questo vale per la recente (e antica) denuncia a carico dei menhir di Bidu ‘e Concas (non sono chiari gli intenti, ma c’è qualche fondamento), mentre rimandiamo alle passate denunce, come pure alle future che ci premureremo di segnalare ai lettori e… alla magistratura (non se ne può più di gravi scempi e abusi di certe mancate spose).

Combatteremo anche con recensioni di libri, specie se inutili, costosi e spesso finanziati con fondi regionali.

[………..] Leggi l’Editoriale completo di Giacobbe Manca

Sommario

  • La grande statuaria – Inquadramento generale – Maurizio Feo
  • Vandalusia di Sardegna – Giacobbe Manca
  • Dalle penne alle pinne – Maura Andreoni
  • Letteratura: conquista dell’uomo – Rosanna Lupieri Perissutti
  • Nuoro tra storia e letteratura – Giovanni Graziano Manca
  • Evoluzione delle cooperative sarde – Giovanni Enna
  • Quattro protagoniste del ‘900 – Peppino Pischedda
  • La Contessa di Castelvì tra eros e potere – Pietro Martis
  • Magia nera a Ortueri – Salvatore Pinna
  • Francesco Ciusa e il monumento ai caduti di Terralba – Carlo Maccioni
  • Palmenti rupestri di Ruinas – Cinzia Loi
  • La Macchina della Verità – Ignazio Figus
  • Libri & Libri
  • Editoriale

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La Grande Statuaria

È necessaria una certa pazienza al fine d’ottenere la rappresentazione completa di un quadro composito. Esso si è andato componendo in un lunghissimo periodo di tempo, in varie aree geografiche distanti tra loro e presso differenti culture, confermando alla fine che esiste un unico meccanismo creativo sottostante, che è proprio dell’Uomo.

La statuaria è solo una delle numerose espressioni dell’Arte, in particolare di quella che riguarda la scultura della pietra locale nelle sue varietà.

L’arte Italica è quella prodotta dalle varie popolazioni abitanti la penisola italiana nel periodo protostorico, tra la prima età del ferro (IX-VIII secolo a.C.) e il completo dominio di Roma (inizio del I secolo a.C.).

Per la produzione artistica precedente si parla di arte preistorica, per quella successiva di arte romana, per la quale gli influssi originali provenienti dalla tradizione artistica italica divengono solo una delle tante componenti di quella dominante Si deve guardare all’arte dello scolpire nella sua prospettiva, a partire dai primi tentativi realizzativi e quindi motivazionali. In quest’ottica i betili, i menhir e i differenti tipi di stele, tutti insieme rappresentano i primi stadi evolutivi di questa particolare espressione dell’arte.

Stele (sing. e plur. ; raro il plur. -i), lastra oblunga di pietra, ornata con decorazioni, bassorilievi, iscrizioni e sim., infissa nel terreno o poggiata su un basamento, avente lo scopo di ricordare un seppellimento (s. funeraria), lo scioglimento di un voto (s. votiva), un fatto memorabile avvenuto in quel luogo, o anche di indicare un termine di confine

A saper ben leggere le forme, i simboli e i materiali, se ne possono trarre di volta in volta preziose informazioni sulle culture che ne permisero la comparsa e ne fecero uso.

Per ciò che attiene alla statuaria, la storiografia generalmente non include nell’arte italica né quella prodotta nelle colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia, né quella etrusca, né quella sarda che era peraltro di fatto sconosciuta fino alla scoperta delle statue inizialmente dette “Giganti di Monte ‘e Prama”, avvenuta nel 1974.

In linea di massima i popoli italici, anche sotto il dominio greco, mantennero sempre una tendenza ad un’espressione artistica meno formalizzata e più vivace e spontanea.

Questa espressività locale rimase più chiaramente avvertibile in particolare nelle popolazioni abitanti in aspre zone montane, più lontane dal contatto greco, come i Piceni o i Sanniti.

Si devono aggiungere a questi i Sardi, che certamente filtrarono gli apporti culturali esterni, scegliendo ed adottando ciò che di quelli trovavano più consoni a propri gusti ed esigenze.

È corretto credere che l’arte italica abbia avuto origine già secoli prima del IX secolo a.C., quando ci furono i primi scambi commerciali nel sud Italia, e gli esempi più chiari sono i dolmen e i menhir del Salento, insieme ai graffiti nelle grotte del Gargano.

“Autoctono” non è mai veramente nessuno: ognuno deriva da qualcun altro, altrove, cui è debitore di qualche prestito culturale e genetico

Le popolazioni che meglio svilupparono un’arte propria, sempre sotto l’influenza dei coloni della Grecia, a partire dall’VIII secolo a.C., furono gli Etruschi e i Dauni di Puglia, seguiti dai campani di Capua.

L’arte spaziò dall’architettura monumentale dei templi, come nel miglior esempio nell’area sacra di Paestum, all’uso della ceramica, della terracotta e del bronzo per sculture minori di monumenti funebri, di vasi e di statuette votive.

L’arte italica, sviluppatasi nell’VIII secolo a.C., si fuse infine con quella di Roma nel I secolo a.C. dopo le campagne di conquista dell’Urbe del III secolo a.C., partendo da Taranto, dalla Sicilia durante le guerre puniche, e infine durante le guerre sannitiche e la guerra sociale nel I secolo a.C.; i primi contatti, al livello architettonico, erano comparsi nel III secolo a.C..

Dopo l’assimilazione romana di tutto il potere italico, l’arte di tali popolazioni scomparirà con la piena unificazione politica di Roma del territorio peninsulare.

Comunicazione mediatica

È inteso che vi sia stato un obbligatoriamente lungo periodo di evoluzione dell’espressività umana attraverso la scultura della pietra.

Oggi forse nessuno si stupisce più tanto del fatto che un messaggio possa essere indifferentemente comunicato da un’immagine fissa su un cartellone, come anche da un’immagine mobile su uno schermo riflettente, o addirittura da uno schermo diafano sul quale l’immagine è trasferita da molto lontano.

Al riguardo, la tecnologia mediatica più avanzata 5.000 anni fa era la pietra incisa eventualmente colorata: ed era altrettanto stupefacente quanto lo è oggi un sofisticato ologramma tridimensionale.

Naturalmente, doveva essere grande la motivazione, per spingere all’impiego di tanto impegno e del lungo tempo necessario alla realizzazione dell’opera.

Perché fare le statue?

La simbologia rappresentativa delle statue è – in fondo – anche la simbologia dei gesti. L’espressione umana attraverso le immagini grafiche graffiate, o dipinte e quelle volumetriche sempre più corpose degli altorilievi e delle statue a tutto tondo si basa su alcune posture ed alcuni gesti ed espressioni che dovettero essere inventati. È in Mesopotamia che si codifica per la prima volta il sistema dei valori semantici legati a ciascun gesto.

[……..continua………..]

  • I Lamassu
  • Statue stele
  • Le stele lunigianesi
  • Un inciso

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