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Stampa 3D e Droni: il futuro dell’Archeologia

Sul finire del XX secolo, nuove tecnologie si sono affacciate sempre di più nel mondo dell’archeologia: si è passati da rilievi fatti con carta, matita, e l’ausilio della cara livella a bolla, ai più moderni sistemi di fotogrammetria. Sembra ieri, quando ancora insegnavano all’università l’uso degli stereoscopi ottici per sovrapporre tra loro due foto aeree ed avere l’idea (anche se molto enfatizzata) di come fosse un territorio visto dall’alto. Oggi è invece diventato quasi
banale utilizzare per qualsiasi ricerca, sia scolastica che a più alti livelli, foto satellitari (si pensi al semplice google maps) o anche dei “normali” droni.
È ormai alla portata di tutti essere in grado di produrre una ricostruzione 3D da delle semplici foto, o anche da un filmato: ricostruzione che poi è possibile stampare fisicamente (mediante la stampa 3D) e rendere quindi tangibile. Non si tratta più di semplici riproduzioni, ma della copia esatta di un originale, talvolta identica anche nel peso e nel materiale, o nella “texture” (la superfice esterna dell’oggetto, ma anche consistenza, densità, grana).
Queste procedure erano impensabili anni fa, quando ancora si effettuavano le copie sugli originali (una pratica ormai bandita definitivamente), immaginate il rischio e la difficoltà nel fare, ad esempio, una copia di un bronzetto, di una statuina di dea madre (si pensi alle copie in gesso delle “veneri di Parabita”) o addirittura, di un intero monumento (come un nuraghe, una chiesa, ma anche un ipogeo).

Questo articoletto non ha la pretesa di essere una guida passo passo, o una spiegazione accademica dei diversi metodi esistenti; più che altro ha l’ardire di tracciare un resoconto di queste due attuali tecnologie (droni e stampa 3D) e di come questi siano già di attuale beneficio alla materia. Come tutte le tecniche, tuttavia, queste non possono prescindere da un ragionamento a monte, su come e quando usarle, poiché il rischio sarebbe quello di ottenere un mirabile prodotto estetico, tuttavia poco informativo e di scarso o nullo interesse scientifico, con l’esclusivo risultato di diventare un ulteriore inghiottitoio di utile denaro pubblico.

Droni

Il termine “drone” è utilizzato attualmente per riferirsi in modo colloquiale ad un U.A.V. (acronimo che sta per unmanned aerial vehicle, in italiano definito più spesso aeromobile a pilotaggio remoto o A.P.R.), si tratta di un velivolo comandato a distanza mediante un telecomando, con una telecamera per “vedere” la direzione assunta ed eseguire foto, video o altri tipi di rilievi.
Sembrerà quindi banale che un drone riesca a trasportare una videocamera per fare delle riprese. Eppure, solo una decina di anni fa ancora volavano dei palloni aerostatici con cavo a terra, atti a trasportare pesanti fotocamere reflex comandate mediante lo stesso cavo di ancoraggio al suolo, utilizzate per fare degli scatti più o meno alla cieca, sperando che alla fine l’immagine fosse passabile, o quantomeno con lo specifico obbiettivo di interesse ben inquadrato…

Stampanti 3D

Non molti lo ricorderanno, ma nell’ormai datato (e sottovalutato) film “Jurassic Park III” (2001) viene mostrata una scena a dir poco premonitrice: un giovane paleontologo viene ripreso mentre mostra al protagonista un suo modello di prototipazione rapida: la camera di risonanza acustica di un velociraptor. Al tempo la scena parve futuristica. Creare un oggetto tridimensionale da una foto? Impossibile.
Chi conosce come funziona il mondo della tecnologia militare, tuttavia saprà che le invenzioni più avveniristiche sono state usate prima dai militari, e poi dai comuni cittadini: internet (Arpanet), il GPS (NAVstar GPS) e gli stessi droni prima citati. Lo stesso è stato probabilmente per la stampa 3D, cioè prima che venisse diffusamente impiegata come oggi, era ad esclusivo utilizzo degli enti di ricerca più importanti, tale da sembrare quindi avveniristica…

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Numero 66 – I Semestre 2025

Disponibile da Maggio 2025, il nuovo numero 66 di Sardegna Antica

In copertina La torre costiera La Pelosa di Stintino. Foto di Paolo Lombardi (Neroargento).

Sommario

  • La Cultura Jamna e la Sardegna – Maurizio Feo
  • Shhh… Silenzio – Maura Andreoni
  • Stampa 3D e Droni: il futuro dell’Archeologia – Alessandro Atzeni
  • La Rotta Atlantica e Tesori del Nuovo Mondo – Antonia Angela Tronci
  • Le Statue Stele di Pontremoli – Gaetano Solano
  • Il Mammut Nano della Sardegna – Daniel Zoboli
  • Blocco Istoriato da Brasilia – Giacobbe Manca
  • Tributi e Banditi nella Sardegna di Fine ‘800 – Giovanni Enna
  • Le Torri Costiere Sarde – Lorenzo Scano
  • Il Cardinale Vicerè Teodoro Trivulzio – Pietro Martis


IL NUOVO NUMERO IN EDICOLA

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Le torri costiere sarde

Note storiche

Nel percorrere la costa sarda, siamo incuriositi dalla presenza imponente delle torri, per la maggior parte di costruzione spagnola, che difesero la nostra isola dalle incursioni fino al loro abbandono, avvenuto verso la metà del diciannovesimo secolo. Molte di esse sono precedenti all’occupazione spagnola: in effetti, le minacce alle coste sarde, storicamente di matrice ottomana, ebbero inizio già nel 655 d.C., quando la Sardegna diventò tappa intermedia per l’avanzata islamica verso la Spagna e il Marocco.
Nel 705 avvenne un investimento militare, (così è chiamato un attacco su larga scala, con molti uomini e mezzi: ciò per distinguerlo dalle incursioni, più frequenti non solo in Sardegna: azioni, queste ultime, improvvise e di breve durata). Quell’attacco massiccio fu opera del pirata egiziano Abdel Aziz: città come Nora e Tharros furono allora abbandonate, per mai più rinascere. Alla metà di quel secolo, i Sardi furono sottoposti alla tassa ottomana, e l’evento più drammatico fu in seguito il saccheggio di Cagliari nell’anno 816.
Solo dopo il Mille le marinerie di Pisa e Genova si interessarono alla Sardegna, allentando la pressione ottomana, che diventava più sporadica fino a diventare nuovamente minacciosa con l’invasione della Planargia da Bosa, nel 1226, e con il saccheggio dell’entroterra olbiese del 1418. Le basi ottomane nel Nordafrica, da Tunisi ad Algeri, furono una minaccia incombente per la Sardegna dopo le disfatte di Famagosta e la presa di Costantinopoli del 1453, fino all’arretramento della conquista islamica con la prima battaglia di Vienna, (1519), e poi con Lepanto e con la liberazione dell’area balcanica nel 1683.

La cintura difensiva

Le torri costiere ebbero una costruzione scaglionata nel tempo: ad esempio, la Torre del Porto a Portotorres data al 1325; la torre di Bosa fu costruita ai primi del ‘500, e così molte altre; ma fu sotto Filippo Secondo di Spagna che furono tutte rimesse in assetto, e la loro costruzione ebbe un’ulteriore accelerazione, subito dopo la battaglia di Lepanto. Esse furono allora organizzate in unico sistema di difesa militare e senza dubbio vennero utili, poiché le aggressioni ottomane non ebbero mai tregua: persino dopo la grande vittoria navale della coalizione cristiana, la Sardegna subì continui attacchi, solitamente nella bella stagione, a intervalli da uno a quattro anni fra uno e l’altro, con un solo intervallo di dieci anni dopo il 1777. Gli invasori giungevano con le fuste, grandi pescherecci armati con una spingarda a prua, con un solo albero a vela latina, e talvolta appoggiate dal più imponente sciabecco, che era provvisto anche di armi pesanti. Le fuste erano lunghe 25 metri: il loro assetto le rendeva adatte ad accostarsi alle spiagge, per poi sbarcare gli uomini con l’acqua alla cintola e riprenderli a bordo, dopo il saccheggio dei raccolti e l’eventuale predazione di uomini in età da lavoro e giovani donne.
Quel bottino era destinato rispettivamente alla schiavitù oppure agli harem. Le fuste avevano di solito 18 rematori per parte, ed erano di facile manovrabilità proprio per le dimensioni ridotte e il basso pescaggio: infatti, gli sbarchi avvenivano di regola sulle coste sabbiose. Lo sciabecco, nave imponente e pesantemente armata, stazionava più a largo.

Le torri in assetto dopo Lepanto

Fissiamo l’attenzione dunque al 1571, quando delle oltre cento torri oggi visibili ne preesistevano una sessantina, molte ammalorate, che quasi in tutti i casi furono oggetto di recupero. Immaginiamo di armare e mettere in assetto qualcuna delle più grandi, chiamare allora “gagliarde”, quali furono ad esempio la torre Pelosa di Stintino, o la torre del Porto a Portotorres, oppure ancora la Torre Grande nella costa oristanese, o quella di Barì.
La “gagliarda” era diversa dalla “senzilla” torre di media grandezza, come la torre di S. Lucia di Siniscola, e dalla piccola “torrezilla”, utile solo per avvistamento e segnalazione: tali erano, ad esempio, quella di Torre Falcone a Stintino, la “torretta” di Platamona, quella di Frigiano a Castelsardo, quella di s. Gemiliano a Tortolì.
Come già detto, la forte accelerazione nel mettere in opera tante fortezze, e rimettere in assettoquelle già esistenti, avvenne subito dopo Lepanto. Questa coincidenza merita una riflessione…

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La Cultura Jamna e la Sardegna

Le enormi potenzialità sviluppatesi con la ricerca genetica sul DNA Antico hanno già permesso nuove certezze scientifiche, anche in ambito archeologico, antropologico e storico: alcune hanno rivelato verità preistoriche prima insospettate e ritenute impossibili, che hanno sgombrato il campo dalle ricostruzioni ipotetiche errate che fino a ieri erano considerate dignitosamente accettabili. In particolare, s’è finalmente chiarito uno degli intricati dubbi linguistici riguardanti l’Europa: come mai le lingue pre-indoeuropee, precedentemente parlate nella Vecchia Europa siano state quasi per intero sostituite da lingue di tipo indoeuropeo.
L’argomento riguarda anche la Sardegna: Pittau sosteneva che Etruschi e Sardi – popolazioni confinanti per mezzo del mare Tirreno – fossero accomunati da molte altre caratteristiche, oltre che da due lingue molto affini, che lui riteneva indoeuropee. La ricerca genetica ha dimostrato in modo definitivo e scientifico che non è così. È meglio prima spiegare da quali popolazioni di fondatori derivino gli abitanti dell’Europa.

La prima ondata di popolamento sarebbe avvenuta intorno a 37.000 anni fa e sarebbe stata composta di sparuti gruppi differenti di cacciatori-raccoglitori, provenienti dall’oriente, che si sarebbero sparsi lungo le vie di spostamento delle prede preferite, pertanto seguendo le vie scelte dagli animali stessi, lungo le praterie degli impluvi principali. La migrazione presuppone un cambio di ambiente, impone l’adattamento dell’organismo a nuovi agenti patogeni, differenti abitudini e modifiche nella dieta: tutti questi elementi lasciano tracce nel genoma, come si vedrà. La genetica sostiene che molti di questi gruppi avessero prevalentemente una pelle scura ed occhi azzurri e che si siano spinti fino all’estremo occidente dell’Europa, attuale Inghilterra inclusa (“Cheddar man”).
La pigmentazione era dovuta all’appartenenza a popolazioni provenienti da zone in cui era obbligata una cronica esposizione al sole per buona parte dell’anno. Si deve considerare che si trattò di un primo “popolamento” molto relativo: i cacciatori-raccoglitori hanno sempre avuto una bassissima densità di popolazione e d’abitudine furono sostanzialmente nomadi.

Una seconda migrazione si sarebbe verificata circa 9.000 anni fa: avrebbe condotto in Europa un più nutrito numero di agricoltori neolitici provenienti dall’Anatolia. Questa “ondata” di popolamento, secondo la Genetica, sarebbe stata composta da gruppi familiari già adattati all’agricoltura, che avrebbero portato con sé anche alcune piante e animali. La vicinanza con gli animali avrebbe col tempo prodotto varie modifiche nel sistema immunitario umano (per es.: resistenza a lebbra e tubercolosi). La persistenza dell’enzima lattasi anche in età adulta sembra essersi prodotta in questa popolazione in seguito a fattori di pressione ambientale. L’onda di migrazione si sarebbe introdotta in Europa e avrebbe in parte spiazzato dalle sedi prescelte i precedenti cacciatori/raccoglitori. D’altronde, il disboscamento necessario all’agricoltura in genere allontanava anche le prede stesse dei cacciatori, che già di per sé si erano rarefatte per via della caccia: insomma, non ci sarebbe stato alcun bisogno di una guerra tra i due gruppi, come un tempo si preferiva credere.
Gli agricoltori portarono con sé geni che esprimevano pelle chiara, alta statura, comparsa di tolleranza al lattosio in età adulta (persistenza della lattasi): il loro successo fece sì che questo divenne il genoma umano tipico e più diffuso del Neolitico, in tutta l’Europa, cui appartenne anche Oetzi.

La terza ondata di popolamento fu quella degli Yamnaya. Circa cinquemila anni fa si affermò in Europa la cultura Jamna (o cultura della tomba a fossa, da jamna: “fossa”), i cui esponenti sono denominati Yamnaya dalla genetica e corrispondono ai Kurgan dell’archeologia, descritti anche da M. Gimbutas. La loro economia era basata sulla pastorizia di pecore e bovini. Derivavano da più vecchie culture della regione delle steppe, ma ebbero maggior successo dei loro predecessori, perché riuscirono a sfruttare le risorse in modo molto migliore. Si diffusero in un’area veramente immensa: dall’Ungheria fino ai Monti Altai in Mongolia. La scomparsa totale o quasi totale di genomi antichi, differenti dai loro, dimostrano che essi sostituirono in molti luoghi le culture che li avevano preceduti.

È un fenomeno imponente, che gli archeologi non credevano possibile. In questa impresa furono certamente facilitati da almeno tre fattori.
1) Il primo è la ruota. Non si tratta neppure di una loro invenzione: infatti, la ruota era comparsa alcuni secoli prima della loro ascesa e si era propagata molto velocemente in tutta l’Eurasia.
2) Il secondo sta nel fatto che gli Yamnaya imitarono i carri coperti su ruote dai loro vicini meridionali, i Majkop, una popolazione insediata nel Caucaso tra il Mar Caspio ed il Mar Nero, che già seppelliva i propri morti nei kurgan (e che derivava alcuni caratteri dagli iranici e dagli armeni: alcuni loro manufatti risalgono alla cultura mesopotamica di Uruk). È inutile spiegare l’enorme importanza che ebbero la ruota ed il carro. Va però chiarito che – per chi viveva nella steppa – il carro ebbe un ruolo ancor più determinante, perché rese agibili e sfruttabili le immense pianure prima proibite, portandovi l’acqua con i carri.
3) Il terzo fattore fu l’adozione di un’altra invenzione che mutuarono da altri: l’addomesticazione del cavallo…

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Il Nuraghe Longu di Chiaramonti

La regione storica Anglona, nel Nord della Sardegna, si gloria della presenza di numerosissime e particolari testimonianze preistoriche. Anche le più antiche tracce della presenza umana nell’isola ci giungono proprio da questo territorio: ben noti sono i ritrovamenti di utensili litici di selce in tecnica detta Clactoniana, attribuiti al paleolitico inferiore e datati da 250 a 700 mila anni. Esse provengono dalle balze quaternarie dislocate lungo il Rio Battana (detto anche Altana), nel tratto che scorre tra Martis, Laerru e Perfugas prima d’immettersi nel maggiore fiume Coghinas.
Il territorio è anche ricco di documenti monumentali e di reperti ascrivibili al Neolitico, attestato fin dalla fase media detta cultura di Bonu Ighinu. La straordinaria statuina, o veneretta di Dea Madre è una tra le numerose suppellettili: l’unica conosciuta con un bimbo tenuto al seno. L’oggetto è parzialmente mutilo, ma innegabilmente nella frattura è riconoscibile la sagoma del poppante.
Alla fase neolitica appartengono anche splendide domos de janas scavate nella roccia, che in quest’area sono spesso ricche di bassorilievi zoomorfi o teriomorfi (cioè, motivi magico-religiosi, che evocano animali o divinità totemiche a essi correlate) scolpiti nelle pareti. Questi singolari monumenti sono tombe collettive e risalgono almeno al Neolitico Medio, con una grande diffusione dalla fase recente.
In questi monumenti gli scalpellini mostrano sia una grande maestria nell’esecuzione, sia una profonda conoscenza degli affioramenti da scavare e delle pietre da utilizzare per riuscire ad aggredirli, scavando e decorando in diverso modo le sepolture.

L’indagine sul nuraghe Longu riporta alla piena Età del Bronzo e le peculiarità di questo nuraghe ci inducono a pensare che quegli antenati lontani, costruttori di rara maestria e intelligenza, abbiano ereditato le grandi abilità nella lavorazione della pietra da quei lontanissimi scalpellini neolitici, che oggi si apprezzano per i loro edifici a bastione e le torri preistoriche, chiamati nuraghe in Sardegna e così noti nel mondo.
La ricerca che da anni ci spinge a visitare e studiare queste straordinarie costruzioni, non a caso ci ha portato spesso nei territori dell’Anglona, una delle regioni dell’Isola particolarmente ricca di monumenti. Fra questi è pure ampia la casistica delle varianti, le cui specificità offrono il destro per arricchire sia le conoscenze architettoniche, sia la possibilità di prospettare le linee di un progresso generale, nelle tecniche e nel pensiero progettuale.
Il nuraghe Longu di Chiaramonti si trova in località Funtana Saltza, facilmente individuabile percorrendo la statale 672 verso Tempio, sulla sinistra, dopo circa 2 km oltre il più noto e ben visibile nuraghe Ruju, a brevissima distanza dalla strada, ma precluso alle visite. Il Longu è costruito con la locale trachite rossa. Un marcato e secolare spietramento lo ha ridotto alla sola camera basale; ne ha occluso l’ingresso rivolto a Sudest e messo in luce la rampa intermuraria, dalla quale oggi è possibile l’accesso. L’esterno è facilmente leggibile solo nel lato Nord-Nordest, laddove si apprezza la raffinata disposizione e lavorazione dei conci di blocchi disposti in filari; in questo lato la torre si eleva per 5 metri abbondanti sulle macerie. La muratura residua emerge dall’accumulo della rovina e lascia ipotizzare una struttura complessa dalle dimensioni di maggiori dimensioni. L’ispezione interna della torre può avvenire solo inerpicandosi sul materiale d’accumulo causato da spoliazione, fino a giungere quasi al colmo. Un incredibile squarcio aperto sul vano scala/rampa mostra subito misure da record: una larghezza di metri 1,50 alla base e di 1,10 al colmo del vano è indiscutibilmente eccezionale e finora unica.

Attraverso la posizione scomposta dei conci trachitici resta uno squarcio tra le murature, dal quale è possibile riconoscere l’esito di un vano intermurario, differente dalla camera basale, che è ricavato in uno spessore murario usualmente non vuotato nelle torri nuragiche Volendo dare una descrizione semplicistica vagamente orientativa a chi non ha mai varcato l’ingresso di queste torri preistoriche, si potrebbe dire che questi antichi edifici sono sostanzialmente costituiti da più paramenti concentrici, quasi gusci multipli, che racchiudono le camere disposte in genere fino a tre livelli; attorno a esse sono gli spazi dei vani di servizio: un apprestamento dell’ingresso, nicchie, rampe per giungere ai piani alti, ma anche vani accessori non canonici, anch’essi raggiungibili per mezzo di scale sussidiarie o attraverso botole servite da scale in legno. Il nuraghe Longu fa parte di una nutrita lista di torri che – limitandoci a guardare nella sola Anglona – sono appunto note per la presenza in esse di vani infra-piano, da alcuni detti mezzanini, e che allo stato attuale della ricerca sembrerebbero presenti con maggiore frequenza nell’area centro settentrionale dell’isola.

Il mezzanino del nuraghe Longu entra a pieno diritto tra quelli definibili più unici che rari, potremmo quasi considerarlo come un corridoio interrotto in quota che si sviluppa da est a ovest del cono murario. La sua considerevole dimensione, che sul piano pavimentale abbiamo misurato in ben 12,60 metri di sviluppo, lo differenzia da quelli già noti che nella maggior parte dei casi terminano con un modesto spazio ricavato sopra l’ingresso.
Il vano mezzanino del Longu dal suo punto di apertura sulla nicchia d’andito oltrepassa di molto il sottostante corridoio d’ingresso. Lo stretto vano posto al colmo dell’edificio residuo, è qui descritto in modo assai parziale a causa delle condizioni deprecabili del nuraghe: noi lo definiamo mezzanino, ma uno scavo razionale del nuraghe potrebbe dimostrare che appartiene a una seconda rampa. È ora opportuno percorrere la rampa elicoidale intermuraria, dalle dimensioni inusitate e propriamente monumentali attraverso l’unica apertura che oggi consente l’accesso al monumento…

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La fase nuragica misteriosa

Tra il nuraghe Ui e le tombe di giganti di Madau

La torre secondaria del nuraghe Ui

Sono giunte in redazione le fotografie di una strana stanza di nuraghe, mai studiato, ancora sorprendentemente integra sotto l’insensata ed estesa rovina cui fu ridotto il nuraghe Ui di Chiaramonti. Il nuraghe non è mai stato preso in seria considerazione per uno studio o uno scavo da parte degli enti preposti.
A ovest dei resti del monumento, anche qui ridotto a rovina, alcune case coloniche estranee al nuraghe presidiano un verde podere posto nella valle. Assai verosimilmente le case furono edificate a detrimento del vicino nuraghe Ui, la cui planimetria, pur rivelando un edificio complesso, rimane al momento incomprensibile anche per l’intrico della vegetazione e per il degrado ubiquitario. Al colmo del rilievo s’individua la stanza inferiore della torre centrale, beante perché svettata nel terzo superiore, e attorno si vedono indizi di altre torrette svettate, diversamente disposte: tre sono certe; resta il dubbio che le altre ipotizzabili possano essere capanne dell’Età del ferro.
Alcune strutture sono tangenti alla torre antica e di esse almeno due sono staccate dal complesso: son poste a ridosso dell’ampio cortile antistante, cioè a Sud, dove convergono tutti gli ingressi dei vari ambienti, le cui aperture sono ora affossate per l’interramento assai consistente. La rovina è talmente fitta che al primo sguardo, nessuno direbbe che sott o quel cumulo si trovi ancora un vano intero.

I contadini qui stanziati dovettero notare che sotto quei blocchi sconnessi era nascosta una qualche cavità. Si aprì un’apertura che permise di affacciarsi ai paramenti interni di una camera di aspetto singolare. L’idea fissa di un tesoro, dovette accendere la frenesia con l’effetto di fare rimuovere altri blocchi, fino a determinare una brutta e ampia breccia nella quale un uomo riesce a entrare. Dalla base del foro c’è una caduta di circa un metro e mezzo per posare i piedi sul suolo della camera, quindi entrare nella camera richiede una scala adeguata.
Da come appare oggi la stanza, ripiena di terra e residui organici, non si hanno dubbi sul fatto che nessun tesoro fu rinvenuto ma, in cambio di ciò i vicini contadini acquistarono una stia bell’e pronta. Quest’uso “moderno” e imprevisto del nuraghe ha consentito che alcuni appassionati cultori di archeologia preistorica isolana, capitati lì per caso, dessero notizia del vano in questione, che appare realizzato con tecniche costruttive difformi dalle quelle più ricorrenti e note. Una delle singolarità di questa torretta è la consistenza del muro basale, che si può vedere solo dall’interno per uno sviluppo verticale di due metri, emergente sul pavimento attuale: verosimilmente prosegue immutato fino alla base antica della camera. Esso è realizzato in pietre trachitiche, relativamente piccole, in confronto con i blocchi del resto delle strutture in rovina, ma in specie rispetto alla copertura ogivale, che si configura come una sorta di scudo litico concavo e molto ribassato, anziché ogivale “al modo nuragico”.
Il muro è fatto a piccole pietre, compattate da un aggregante tenacissimo, che pare posto non a consolidare, quanto a riempire le fessure fra i blocchi. Tale impasto terragno e argilloso, annerito da residui carboniosi, pare indurito fortemente per l’esposizione a una temperatura molto elevata, che determinato l’arrossamento antico delle pietre del muro. Una teoria di lastrine uniforma la parte alta del muro, livellandolo all’altezza di circa due metri dal suolo attuale. Questo espediente servì, verosimilmente, per preparare un piano di posa omogeneo, in funzione della realizzazione della “nuova” copertura, che è certamente diversa da quella delle origini. Questa preparazione è necessariamente successiva a una demolizione, le cui cause naturalmente sfuggono. La volta aggiunta è del tutto singolare, sia per la dimensione dei blocchi utilizzati, che sono di dura trachite rossa prossima al basalto, sia per le dimensioni dei conci di forma irregolarmente conica, dalle dimensioni ben maggiori rispetto ai blocchetti utilizzati nell’anello basale, sia per il profilo della nuova copertura, fortemente ribassata e dunque dal fortissimo aggetto e direi proprio insolita negli edifici nuragici.

Le t.d.g. nn. 2 e 3 della necropoli di Madau – Fonni

Ancorché superstiti dalle demenziali a dir poco, integrazioni al cemento, hanno tratti in cui si osservano delle sovrapposizioni costruttive rapportabili a quelle del nuraghe Ui di Chiaramonti. Prendiamo la tomba 3 quale esempio meglio calzante con la torretta del nuraghe Ui. Nella sua camera, alla base è venuto in luce l’esito di una precedente tdg edificata con piccole lastre, che fu abbandonata in una fase a noi sconosciuta e, quindi, smantellata per ricostruirla con una tecnica completamente diversa.
La tecnica sovrapposta mostra grandi placche granitiche interne ed esterne alla camera, nell’esedra e nel corpo. Le grosse lastre hanno la “faccia ben bocciardata, ma anche anche le superfici di posa e affianca mento accuratamente preparate. Esse realizzano una tomba di giganti ben più monumentale rispetto alle precedenti, e l’imparentamento con le fasi costrutti ve della confinante tomba 2 è evidente. Entrambe le tombe appartengono a una fase molto evoluta fra le t.d.g. nuragiche e paiono precedere di qualche secolo la tecnica ben più raffi nata che osserviamo nelle successive, splendide tombe di Biristeddi, la cui raffinata esecuzione è esaltata dall’uso del basalto…

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Raichinas

In una bella sera d’agosto la dottoressa Maria Pala,Senior lecturer (Docente) presso l’Università di Huddersfield, ha tenuto un’interessante conferenza nel suggestivo scenario del sito archeologico Su Romanzesu, presso Bitti. Ha spiegato brevemente come si compone il DNA, che cosa siano i Geni, il Genoma, i due tipi di DNA (nucleare e mitocondriale). Quindi ha passato in rassegna gli studi di popolazione meno recenti, fino a scendere nel dettaglio di quelli più aggiornati e volti alla ricerca delle radici genetiche della popolazione sarda.
La giovane ricercatrice espone sostanzialmente due studi di genetica, di cui, come correttamente viene a precisare, non è autrice.
La sua trattazione è stata ordinata e rigorosamente scientifica, restando rispettosamente a portata di comprensibilità da parte di un pubblico numeroso e attento di non addetti ai lavori. Naturalmente, ha escluso dalla propria esposizione tutte le fantasticherie divenute tanto di moda sull’isola negli ultimi tempi.

Ha spiegato che cosa sia l’Archeogenetica, che consiste nell’applicazione della Genetica molecolare allo studio del passato delle generazioni umane. Analizza la variabilità genetica sia di popolazioni attuali, sia di popolazioni antiche. Ci si chiede: come può l’Archeogenetica, oggi, studiare il passato?
Ciò è possibile perché il nostro DNA attuale è una copia che deriva da quello dei nostri antenati del passato: letteralmente, ne contiene molti “pezzi” identici ed altri che si sono progressivamente e in varia misura modificati nel corso dei millenni (mutazioni). In un certo senso, si può dire che il DNA quasi possieda una propria “memoria”. Pertanto analizzando il Dna attuale si può ricostruire il passato e risalire fino all’origine delle specie (questo è vero in teoria; in pratica no, ma solo per l’irreperibilità del materiale, perché il Dna col tempo si deteriora). Analizzando il DNA antico si può quasi andare indietro nel tempo e avere una “visione” (genetica, s’intende) del passato: in questo modo si può talvolta aggiungere un tassello al quadro sempre incompleto della ricostruzione del passato che l’archeologia ci offre. Il sequenziamento del DNA iniziò negli anni ‘80, ma è solo dal 2000 che si è potuto tecnologica mente tentare e ottenere il completo sequenziamento di tutto il genoma (NGS: new generation sequencing).

L’archeologia fornisce il dato archeologico, cioè quali possano essere stati i cambiamenti di stile di vita (“cultura materiale”), eventuali espansioni di popolazioni, oppure il loro declino. Praticamente essa risponde – o tenta di rispondere – alle domande: cosa, dove, quando. L’Archeogenetica, invece, analizzando le composizioni dei DNA moderni e quelle del DNA antico disponibile riesce a risalire a epoche passate e a “vedere” persino movimenti migratori di popolazioni: in tal modo essa riesce a rispondere precisa mente alle domande: chi e da dove.
È poi comunemente noto che esistono due modelli teorici generali tra cui scegliere (con grande difficoltà per gli archeologi, come nel caso degli Etruschi) quando si debba descrivere nascita ed evoluzione delle civiltà del passato: essi sono quelli della diffusione culturale e demica. Il primo modello corrisponde alla trasmissione di un’idea (o di un metodo, o di una tecnica: per esempio, la coltura di un tipo di pianta non autoctona, originaria di un’altra regione geografica), senza una vera e propria migrazione di popolazione. L’unica cosa che viaggia in quel caso è l’idea: lo fa attraverso scambi verbali (e commerciali) tra individui, comunicazione interpersonale, emulazione e apprendimento.
Alla fine, lo stile di vita di una popolazione B si modifica e diviene simile a quello della popolazione A, dalla quale è originata l’idea in oggetto, ma con la tecnica Admixture, si osserva che la composizione genetica della popolazione (DNA moderno) B è rimasta invariata ed è ancora quella precedente allo scambio culturale (DNA antico). Secondo questo modello sembra possa aver viaggiato la realizzazione del “vaso campaniforme” (cultura del v. campaniforme), la cui distribuzione in Europa è tanto discontinua e irregolare da essere definita “a macchia di leopardo”.

Il secondo modello implica invece lo spostamento di un numero sensibile di individui, che portano con sé la propria tecnologia, la lingua, la filosofia: per esempio, come avvenne nella “conquista” del Nuovo Mondo da parte degli europei dopo il 1500. Nel secondo caso, si assiste – sì – alla modifica dello stile di vita, ma essa si accompagna anche a una modifica rilevabile del patrimonio genetico, che nel caso del Nord America è stata drammatica: il DNA antico dei nativi è oggi quasi scomparso, pressocché completamente sostituito da quello dei moderni coloni europei. In questo caso si parla di “replacement” (sostituzione), più che di “admixture” (mescolamento).
È evidente che una vera diffusione culturale possa essere sensibilmente più veloce di una diffusione demica, che dipende dalle possibilità di spostamento degli esseri umani. All’atto pratico, la diffusione culturale è considerata un evento più raro di quella demica. Ciò è forse anche dovuto al fatto che possa essere più difficile da dimostrare: ma è indiscusso che sia sempre stata molto meno ricercata. Forse è realmente meno frequente.
Dal 1994 si è scoperta l’unicità genetica dei Sardi, grazie ai primi studi di L. Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, che adottarono – non era ancora disponibile il DNA – 95 marcatori classici (tra cui, per esempio, i gruppi sanguigni del sistema AB0 e altri indicatori non genetici, ma determinati da geni) e si accorsero di non potere rappresentare la Sardegna nelle loro mappe grafiche di gradienti di frequenza dei marcatori: perché i dati della popolazione sarda erano terribilmente fuori scala. Comparvero in seguito altri risultati con differenze di distribuzione che indicavano in modo non definitivo le popolazioni di Corsica e Sardegna come possibili “isolatigenetici”, separati dalle altre popolazioni europee…

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Numero 65 – II Semestre 2024

Disponibile da Novembre 2024, il nuovo numero 65 di Sardegna Antica

In copertina la monumentale rampa intermuraria del Nuraghe Longu di Chiaramonti (dall’articolo di Paolo Lombardi e più).

Sommario

  • Raichinas – Maurizio Feo
  • Un Dio fra i fiori – Maura Andreoni
  • La sindrome Dunning Kruger – Maurizio Feo
  • Vulcanesimo a Baunei – Antonio Assorgia
  • Un bronzetto sardo (?) dalla Sicilia – Alessandro Atzeni
  • Una fase nuragica misteriosa – Giacobbe Manca
  • Il nuraghe Longu di Chiaramonti – Paolo Lombardi e Gigi Rocca
  • Ida Comaschi Caria, la grande paleontologa sarda – Giovanni Graziano Manca
  • Mistificazione Storica – Andrea Muzzeddu
  • Nobiltà spagnola, piemontese e i sardi – Giovanni Enna
  • La sarda rivoluzione incompiuta (1793-1802) – Peppino Pischedda


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Peccato Capitale – il tempio ipogeo di Su Benatzu

Introduzione.
Su queste pagine si criticano spesso gli archeologi isolani, sia perché essi offrono sempre nuovi spunti, sia perché sono riluttanti ad abbandonare quei difetti che hanno ereditato: ben noti nell’ambiente, ma più spesso ignorati dal grande pubblico. Con ciò non s’intende qui affermare che il loro mestiere sia di quelli facili. Non si vuole deliberatamente ignorare il sacrificio, lo studio, la dedizione di molti. Né si vuole sminuire la cultura di tutti.
È però giusto sostenere che dalla conoscenza enciclopedica e dall’estesa e profonda cultura debbano prima o poi – scaturire deduzioni corrette e utili insegnamenti incontrovertibili circa la ricostruzione del passato storico e preistorico. E questo è proprio ciò che non accade in Sardegna, dove tali ricostruzioni e rielaborazioni consistono purtroppo ancora in infondate e fantasiose favolette ottocentesche.
Ed ecco la domanda: tale situazione è responsabilità degli archeologi sardi?

Materiali e Metodi.
Più di mezzo secolo fa, il 22 giugno 1968, alcuni giovani speleologi dell’ASI erano giunti alla piana “Su Benatzu” (“terreno acquitrinoso”) per la grotta di Pimpini presso Santadi, che era stata annunciata, con esagerazione guascona, “profonda più di 500 metri”: si rivelò invece subito una deludente cavità superficiale e di nessun interesse. Su indicazione di un abitante locale, furono allora dirottati a un’altra grotta, nella quale nessuno era mai entrato. Che fosse sita poco più elevata del paese era noto agli abitanti del luogo e alcuni residenti vi si erano anche avventurati, ma tutti erano stati scoraggiati dopo i primi pochi metri da evidenti ostacoli, che richiedevano esperienza e attrezzatura. Era stata utilizzata per l’acqua di stillicidio, che si raccoglieva in alcune vaschette site nel tratto accessibile. Il resto di questa avventura è stato documentato direttamente per iscritto dai principali protagonisti, diretti testimoni e primi responsabili di una scoperta di valore culturale sensazionale.
Purtroppo, il tarlo dell’Invidia ha prodotto su questa splendida meraviglia quegli enormi e irreparabili danni, con cui la maldicenza e le false accuse riescono talvolta a guastare per sempre un irripetibile patrimonio culturale comune. Per sempre.
La vicenda è anche stata riportata a suo tempo in un libro ben argomentato e rigorosamente documentato, dal giornalista e cronista dell’Unione Sarda Angelo Pani. Purtroppo, l’esito della storia non è felice. Esserne informati è un preciso dovere civile e culturale, di noi tutti. Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore ed il piacere d’intervistare di persona l’ultimo sopravvissuto dei protagonisti di questa storia: il geologo Antonio Assorgia, ex docente dell’Università di Cagliari, che oggi vive serenamente a Baunei e che a suo tempo ha messo per iscritto la sua esperienza speleologica: “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (GrafPart 2019), dedicandolo ai suoi compagni d’avventura, oggi scomparsi, Franco Todde e Sergio Puddu.

Risultati.
Gli speleologi si trovarono a scendere in una grotta di non grandi dimensioni, che presentava quattro ingressi a partire da una dolina di crollo.
Il percorso non è facile, ma neppure molto lungo: dopo appena 120 metri ci si trova in una cavità ampia – circa 10 per 12 mt, con un’altezza variabile dai 2,5 ai 4 mt – che è stato chiamato “tempio”. (Si veda la figura) Tale denominazione è giustificata dal fatto che questa “sala” era ingombra di un’enorme quantità di vasi anneriti e concrezionati (saldati tra loro e con il pavimento), posati come alla rinfusa, alcuni piccoli dentro ad altri più grandi, semi-immersi in un fondo nerastro di cenere, acqua e sedimenti. I vasi sembravano contenere cenere. Erano grossolanamente raccolti in tre grandi mucchi: il più grande, prossimo all’ingresso della sala, era diviso in due sotto-unità distinte, allungate su uno spazio di circa 5 metri ed era composto di ceramiche di piccole dimensioni; il secondo mucchio era più modesto ma composto di ceramiche di foggia più varia, alcuni decorati ed altri incisi – costeggiava una vasca naturale e giungeva fino a circondare quasi una particolare stalagmite, che è stata definita “altare”, alla cui base si trova una vaschetta artificiale, circolare, contenente acqua e un manufatto in metallo, che fu denominato “barchetta con testa d’ariete”. Il terzo mucchio, più piccolo, si trovava in prossimità di un residuo di cenere coperto di concrezioni calcaree che è stato chiamato “focolare sacro”.
La visione era spettacolare e stupefacente, senza precedenti: una scena rara, strana e affascinante, senz’altro mai vista prima da occhi moderni.

E qui – si deve ammetterlo – entra in gioco l’ignoranza della legge da parte dei giovani speleologi: prelevarono qualche campione e – purtroppo – ritennero giusto affidarlo alla custodia del professor Carlo Maxia, per averne una prima valutazione.
Maxia era sia direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Cagliari, sia presidente dei Centri speleologici sardi. Credevano fosse una scelta giusta fare riferimento al loro presidente, che era anche a capo di un Istituto Universitario. Quest’ultimo prese in consegna quei reperti (cui ne aggiunse altri: da un’ispezione personale alla grotta, ne prelevò un totale di 194 ceramiche e 81 oggetti di metallo, stando ai documenti d’archivio) e “autorizzò” gli speleologi a proseguire nelle loro ricerche: va detto che – a rigore – egli non aveva alcun titolo per conferire tale permesso, né per eseguire personalmente scavi e ricerche in loco…

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La scarnificazione rituale

Dopo il dolore e lo sgomento causato dalla morte di una persona cara alla comunità, restava l’ingombrante necessità di “disfarsi delle spoglie”.
Da sempre l’umanità ha concepito modi e riti per esorcizzare quell’incompreso momento di passaggio tra la vita e le conseguenze della morte – certo per effetto di una tremenda (ancorché ineludibile) magia negativa.
Infinite sono, infatti, le testimonianze che tramandano, con chiara e spesso drammatica crudezza, le diversissime attenzioni al mondo del soprannaturale e al divino. Non solo erano pratiche diffuse ma esse sicuramente permeavano anche tutti gli aspetti della spiritualità, per cui la vita e la morte erano parte del quotidiano.
Anche la nostra Isola, come si osserva nell’ampio mondo mediterraneo che l’attornia, è disseminata di testimonianze archeologiche che rimandano a quel comune mondo magico-rituale. Pensiamo, per esempio, a quelle lastre istoriate – stele, menhir – unitamente alle superfici naturali prossime ai luoghi di culto, che almeno dal neolitico trasmettono misteriosi e pertanto affascinanti petroglifi, coppelle, concavità dette “preghiere”, cerchi, bastoncelli, schematizzazioni di vulve ecc., portatori di messaggi religiosi, cultuali ed escatologici.

Queste testimonianze antichissime di una visione del mondo ultraterreno, sono presenti in moltissimi monumenti funerari a testimoniare che la morte era considerata un aspetto della vita e viceversa. Alcuni monumenti sepolcrali antichi come domos de janas e le successive tombe di giganti sono, per loro struttura, inadatti a ricevere salme se le stesse non abbiano prima subito un precedente trattamento, che ne asporti le carni e lasci la semplice struttura ossea.
Gli inconvenienti della decomposizione, tutt’altro che trascurabili se non fosse stata esorcizzata con precedenti pratiche, nei monumenti detti, ne rendevano impossibile il seppellimento diretto.
Era quindi logico pensare che le necessità pratiche, informate da contenuti religiosi, filosofici ed escatologici, esprimessero pratiche rituali tese alla scarnificazione dei corpi con diverse metodiche: dall’esposizione agli agenti atmosferici o all’auspicato intervento di animali necrofagi che provvedessero a ripulire le ossa. Ciò avrebbe consentito l’utilizzo delle strutture preposte, appunto, alla cosiddetta deposizione secondaria, che si sostanziava in una raccolta delle sole ossa, dalle quali si possono talvolta ricevere importanti informazioni antropologiche.
Per esempio si può addurre l’esito dello scavo archeologico effettuato dalla dottoressa A. Foschi Nieddu, che nel 1974 ricevette l’incarico di studiare i reperti provenienti dalla tomba I di Filigosa presso Macomer. Oltre numerosi reperti fittili attribuiti alla cultura eneolitica proprio in questa tomba individuata e denominata Filigosa, dallo scavo provenivano, appunto, una gran quantità di ossa umane, che erano state esaminate dall’anatomo-patologo Franco Germanà.

Egli, da un’analisi preliminare osservava che una parte di queste ossa era combusta sino al midollo, mentre in altre aveva notato tracce di scarnificazione, segnalate dalle profonde scalfitture restate sulla loro superficie. Alla luce di tale autorevole parere, si potrebbero azzardare diverse conclusioni.
In primo luogo, si può osservare che i metodi di scarnificazione utilizzati erano almeno due: il fuoco e l’esposizione dei cadaveri all’azione di uccelli e animali necrofagi. Infatti, le profonde scalfitture osservate escludono l’intervento umano, secondo l’esperto parere di F. Germanà.
Lo stesso monumento suggerisce rispetto e attenzione a questi riti. Infatti nella cella A sono presenti un letto funebre e il focolare. Se ne può quindi dedurre che un’eventuale operazione di scarnificazione non sarebbe mai stata affidata a mani così maldestre da produrre le “scalfitture” improprie.
Il territorio dove è ubicata la tomba si presta facilmente ad attuare dei trattamenti sui cadaveri per opera di grifoni, corvi, falchi e altri animali necrofagi. Ci troviamo infatti ai piedi delle ultime propaggini della catena del Marghine dove le numerose balze basaltiche costituiscono l’habitat naturale di diverse specie di uccelli rapaci. Una roccia che sovrasta l’abitato di Birori è detta “Sa Rocca de Niu Corbu”: la roccia del nido del corvo.

A questo proposito è utile citare il particolare sito di Carraxioni, sulla montagna di Aritzo dove, davanti alla tomba di giganti omonima, a una sufficiente distanza è stata collocata ad arte una grande lastra, su un affioramento roccioso, che segna il crinale del luogo. Un distinto gradone mette ancor più in rilievo la lastra e va chiaramente incontro all’esigenza di favorire il decollo dei grandi rapaci, anche se appesantiti.

La ricerca di queste rare ma importantissime emergenze, ha dato risultati molto interessanti: alcuni di questi siti sono stati segnati in modo chiaro e indelebile da coppelle, coppelline, cerchi concentrici, e motivi angolari diversi, come chevron contrapposti a formare dei rombi: simboli analoghi in numerosi altri contesti non necessariamente legati ad ambienti funerari. Non deve stupire che i petroglifi, nella loro grande varietà, fossero considerati simboli di fertilità e rigenerazione e quindi logicamente presenti anche in momenti di vita: di fatto dimostrano che la morte fosse uno degli aspetti inscindibili dalla vita.
Uno di questi luoghi, che riassume forse tutte le caratteristiche opportune per la scarnificazione dei cadaveri, si trova all’interno di un’emergenza rocciosa in località Lottoniddo (Dorgali), nella vallata di Isalle: nella roccia è stata realizzata una cavità – forse sfruttando precedenti vuoti naturali – cavata e acconciata al modo di una camera di domo de janas, accomodata nelle pareti laterali alla maniera delle grotticelle artificiali neolitiche. Il pavimento granitico superstite è ricoperto dai citati segni cultuali.

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