Costruzione della diga ed effetti socio-economici. Lungo le sponde del fiume Tirso, in località S. Chiara (Comune di Ula Tirso), si estende uno dei più grandi bacini artificiali d’Europa: il Lago Omodeo,1 così denominato in ricordo dell’ingegnere Angelo Omodeo che ne fu l’ideatore.
La diga venne costruita, dopo un tratto pianeggiante e aperto a monte, su un sito che presenta una angusta strozzatura, con caratteristiche geologiche e idrologiche adatte. Il profondo dirupo ove fu elevata la diga addentellata alla montagna, fu testimone, durante i lavori, dello sforzo di sedicimila lavoratori italiani e stranieri che per un decennio – dal 1914 al 1924 – lottarono contro le insidie della malaria e della natura.
Durante la costruzione perirono circa quaranta operai (compreso un ingegnere). Tutti i lavori, con l’utilizzo della dinamite, vennero svolti manualmente (è sufficiente notare che tante donne, provenienti specialmente dal vicino paese di Busachi, trasportarono le pietre occorrenti per la costruzione con canestri poggiati sulle spalle).
Le motivazioni storiche che condussero alla realizzazione della nuova diga risalgono al 1907, in ottemperanza alla legge per lo sviluppo del Mezzogiorno, proposta dal senatore sardo e ministro dell’agricoltura Cocco Ortu (governo Giolitti) che mirava, in particolare, a una politica di potenziamento delle strutture produt- tive (capitale, lavoro, terra) mediante la produzione di energia elettrica per la Sardegna e l’irrigazione agricola del Campidano oristanese.
La costruzione dell’opera fu affidata alla direzione dell’ingegnere Dolcetta e venne inaugurata il 28 aprile 1924 alla presenza del re Vittorio Emanuele III e di una moltitudine di persone… LEGGI L’INTERO ARTICOLO NEL N° 49 IN EDICOLA
Poco oltre la periferia, Sud-occidentale di Olbia, alle spalle dell’aeroporto e del castello Pedres, si può osservare ciò che resta di una bella, grandissima, tomba di giganti più spesso detta di Monte de S’Ape (ma è meglio dire S’Abe!).1 Si raggiunge facilmente, unitamente al nominato castello, dalla strada che da Olbia conduce a Loiri. Del monumento sepolcrale si osserva l’esedra lunata, ampia e incompleta come un sorriso segnato da incidenti, realizzata con una dozzina di lastre ortostate di diversa misura.
Il lungo corridoio tombale è reso con analoghe lastre e appare coperto solo molto parzialmente da pochi grossi blocchi residui, cilindroidi, in disposizione dolmenica e appaiati; esso è chiuso con una bella lastra fondale inusitatamente rotondeggiante e accuratamente lavorata nel contorno (con evidente incongruenza rispetto alla funzione rivestita), eccessiva per dimensioni e, infine, sensibilmente distante dal giro conclusivo dell’abside.
La tomba fu privata della sua bellissima stele che, certamente molto alta, l’ornava in facciata; la si deve immaginare canonica: ricurva in alto e segnata da cornici ai bordi e con un’analoga banda al centro.
Di essa resta solo lo spazio vuoto nel centro dell’esedra (come la cicatrice di un antico delitto) ad indicare una colpevole ignoranza e un’ingorda miopia, vagamente riconducibile agli inizi del secolo scorso, se non prima. Si osserva in quel tratto centrale, appena più interno nel detto varco, il basso avvio del consueto corridoio d’accesso, curiosamente sovrastato da un piccolo architrave, incongruente con l’insieme e, per sua stessa postura, assai stridente, nella cui faccia inferiore è una concavità liscissima: un’areola di tipo ben noto, che per le sue peculiarità e per l’originaria funzione sacrale definisco “preghiera”.
Considerando l’insieme di tutti gli elementi concordi sopra indicati, quali lo stile dolmenico nell’esedra e nella camera, la grande stele arcaica in facciata (ora asportata, ma presente in antico: residua in un piccolo frammento basale in situ), si può certamente ascrivere questa tomba di giganti a quelle di realizzazione più antica e, pertanto, collocabile genericamente al Nuragico Arcaico.
Alcuni degli elementi sopra notati, però, lasciano fondatamente pensare che la tomba sia stata edificata (un fatto ricorrente anche in antico) nello stesso sito dove già esisteva un precedente monumento funerario, i cui componenti ricomposti (almeno alcuni, per quanto oggi osservabile) non lasciano dubbi.
Richiamo l’attenzione sulla notata, non proprio congruente, lastra fondale di camera, sulla sua notevole distanza dal muro absidale e, infine, sul piccolo menhir segnato da “preghiera” quale improbabile architrave del basso corridoio d’accesso alla camera: chiari elementi di riutilizzo.
Non potendo meglio sondare le strutture dell’edificio ci si limita a questi tre elementi, che personalmente ritengo molto significativi, ancorché mai siano stati osservati prima, né dall’archeologa che a suo tempo condusse lo scavo archeologico e non solo, né da quanti la “studiarono” in seguito o, meglio, ne ripeterono pedissequamente la planimetria e il riepilogo dei poveri risultati di scavo3 (che diede esiti romani e moderni, non meglio circostanziate ceramiche di “tipo nuragico” (?) e piccole anse “di tipo Bunnanaro”).
Altre pubblicazioni espressamente dedicate alla Gallura esprimono, nello specifico rimando ai monumenti funerari nuragici e, dunque, anche a Monte de S’Abe, posizioni assai epidermiche e annichilite sul dato quantitativo, con inadeguati e assai impropri rimandi bibliografici.4
Ha dell’infantile, ad esempio, l’osservazione “da luminare” circa fatti architettonici sovrapposti (e l’imman- cabile ripetizione pedissequa [vedi la nota precedente] per cui si avanza una comune sorte fra la tomba di Monte de S’Abe (Olbia) a quelle di Coddu ‘Ecchju e Li Lolghi (entrambe di Arzachena).
In quello scritto, si legge, infatti, che tutte sarebbero accomunate da aggiunte architettoniche su cosiddette allées couvertes originarie (sostanzialmente si dice che le camere delle tombe in origine sarebbero state dolmen allungati) trasformate in tombe di giganti: ma questo non è proprio vero e i tre monumenti tombali richiamati hanno in comune solo lo stile dolmenico delle camere, oltre la richiamata connotazione (e quindi la cronologia) di tombe arcaiche (si ricorda, ad esempio, la cosiddetta stele “centinata” e l’esedra a ortostati).
In realtà quell’attribuzione di struttura composita notata è chiaramente corretta solo per la tomba di Coddu ‘Ecchju (che nel cuore custodisce una cosiddetta allée couverte) ma non per le altre due. La tomba di Li Lolghi conserva “aggregato” nel tratto absidale l’intero dolmen allungato originario (in nessun modo trasformato in corridoio di tomba di giganti, che ad esso viene invece addossata davanti, nel quadrante meridionale).
Ancora, il sepolcro di Monte de S’Abe ha caratteristiche del tutto diverse, mai messe in luce da cotanti analisti esperti – maldestri ripetitori di pensieri e opere altrui.
Le peculiarità notate in quest’ultima, infatti, depongono certamente per una continuità nell’uso funerario del sito, ma con un totale rifacimento degli edifici più antichi, supposti e sfuggenti (fra cui non necessariamente una allée couverte), i cui esiti non sopravvivono “inglobati nel cuore”, come genericamente si vorrebbe, ma in mimetici elementi componenti, diversamente riutilizzati nel tempo (menhir come architrave, lastra di copertura riusata come ridondante pietra fondale) e con uno spazio/iatus troppo ampio tra quest’ultima e il giro absidale.
Questa insolita disposizione è spiegabile solo se si ammette che in quel tratto, in antico, poteva facilmente essere presente un piccolo dolmen (come a Li Lolghi (?) o magari una cista litica con peristalite (di cultura gallurese): tutto ormai spazzato via dall’antico rifacimento (e forse anche da altre manovre “scientifiche” ben successive), i cui elementi dovettero essere riutilizzati nella nuova tomba monumentale, quella che già è stata ascritta al Nuragico Arcaico (come anche molti altri esempi di tombe di giganti concorrono a confermare, oltre ogni dubbio). Continua nel numero 40
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Volendo ripercorrere lo studio delle domos de janas [d’ora in poi anche domos d j.], è anche opportuno riprendere le peregrinazioni e le riflessioni del noto ma trascurato Domenico Lovisato: un geologo della seconda metà dell’Ottocento, che “s’ammalo” di Paletnologia in Sardegna proprio da quando, per ventura, incontrò le domos dj. e non riuscì a esorcizzarne il fascino.
Volle capire cosa fossero, conoscerne la vicenda culturale e cronologica, anche oltre i problemi logico-geologici che pure si ponevano e che per taluni ancora si pongono.
Egli sconfinò in una scienza in cui altri contemporanei avrebbero dovuto mostrare piglio scientifico, in assenza del quale fu spinto, quasi “costretto” a pronunciare il suo pensiero logico.
Molti addetti alla paletnologia sarda credono che ormai si sappia molto o quasi tutto di quanto sia concreto attendersi per questi monumenti così “prodigiosamente” scavati negli affioramenti rocciosi e detti domos de janas (: casa delle janas: piccole fate streghe).
Dai poveri e ben superati manuali proposti/imposti agli studenti si evincono certezze – inguaribile presunzione degli uomini – sia sulla loro destinazione (furono per certo sepolture), sia sulla posizione culturale e cronologica (furono fatte da popoli del Neolitico – almeno dal Medio in poi – per tutto il Calcolitico e fino al Bronzo Antico, se non oltre); ancora. sono presenti a ogni latitudine dell’Isola, con la sola eccezione della regione Gallura.
In realtà, pero, sono pochi gli indizi e ancor meno le prore utili a determinare un’affidabile seriazione tipologica necessaria per porre in relazione le molte specificità dei monumenti con distinte fasi culturali o popoli ascrivibili al lungo periodo su accennato.
Insomma, le cosiddette domos dj. esprimono una grande variabilità nella forma, nella dimensione e negli apprestamenti interni e ciò deve avere un senso. In esse si osservano rilievi, decorazioni con ocre policrome, simbologie, banconi, loculi, rialzi, cornici, semicolonne e altri elementi architettonici a bassorilievo, semplici o stupefacenti trabeazioni, ora con soffitti piatti o diversamente curvilinei e variamente lisciati o segnati da coppelle rituali.
Domus di Isportana – Dorgali
Talvolta le pareti sono lisce, talaltra lavorate a cavità. solchi e chiare costolature di varie larghezze.
Le cavità hanno dimensioni molto variabili: da un ambiente a vani multipli disposti in planimetrie altrettanto diverse. Ora contengono uno spazio piccolo quanto un’urna, ora una stanzina angusta, ora ambienti numerosi e grandi, anche molto ampi,”regolari” (circolari e/o quadrangolari) disposti in modo simmetrico; altre volte le camere sono molto iregolari, a lobi e nicchie o spazi diversi.
Contengono colonne semplici o istoriate con ocre o semirilievi diversi, banconi e divisori. Anche i portelli d’accesso originali, prima di eventuali modifiche per riutilizzi, appaiono diversi per forma, dimensione e disposizione: rilevati o a livello di suolo, verso tutti i quadranti del cielo.
Concentrate in quantità o disseminate su ampi territori. si ritrovano in esemplari singoli, in due o più unità vicine, fino a insiemi giustamente definibili “necropoli”, dove si contano anche decine di domos dj., talora tutte diverse tra loro.
Insomma, tutte queste varietà di forme, dimensioni e particolarità devono pure avere un senso logico che, in buona parte, deve essere ancora compreso.
Se si ritiene che tutto ormai si sappia, come sopra accennavo, penso non avrebbe più senso concreto il persistere con scritti intrisi di pedisseque e banali ripetizioni, anche quando “l’auspicata novità” consista ancora in cocci o oggetti ubicati in “stratigrafie ripetitive”, a reiterare conferme.
Vedo, piuttosto, che nessuna utile estensione dell’indagine, di fatto, sia concessa ai “contenitori” oltre una vaga descrizione, così che, le indagini restano monche. Torniamo indietro nella storiografia, dunque, a quando il complesso delle conoscenze su queste cavità artificiali era pari al chiarore di un luna, e in un antro del tutto buio o poco meno.
“Debbo segnalare agli studiosi il grandissimo interesse che ha Dorgali: la bellezza del territorio dalle montagne dolomitiche superbe, dalle foreste incantevoli, dai golfi pieni d’incantevole azzurro, di misteriose grotte sottomarine, di antri dove sfilano come in processione di ceri le stalattiti più sorprendenti. Ma soprattutto è la gente schietta, ospitale, lavoratrice, ingegnosa, che lascia in cuore la nostalgia del ricordo, quando non incatena con le malie dell’amore”.
Così il Taramelli sintetizza, in uno scritto del 1933, il suo sincero amore per l’ameno villaggio di Dorgali e per la sua gente. L’irrefrenabile scavatore dall’ instancabile piccone, con la punta sempre lucida, aveva “scoperto” Dorgali nel 1927 e da allora mostrò un evidente legame emotivo con questo territorio e con la sua gente.
Può essere utile confermare ancora oggi come l’incanto del territorio in questione permanga immutato e altrettanto può dirsi delle qualità umane di chi lo abita. Taramelli, spartano studioso di Preistoria, dovette lasciare più che un pizzico di cuore a Dorgali, giusto come per altre insondabili strade era successo anche al grande Alberto della Marmora, che nel maggio del 1823 si rifugiò presso il parroco di questo paese, dopo aver subito una grassazione ed essere scampato ad un grave pericolo di vita nella piana d’Isalle, per scoprire che due dei molti malviventi erano nipoti proprio di quel curato, che confessandone l’identità, in pari tempo glieli raccomandò perché impetrasse clemenza per loro, che erano buone anime, in fondo.
Come in un romanzo ottocentesco, appunto, quel potente magnanime intervenne a Cagliari presso il Viceré perché il reato fosse condonato e i legami umani si rinsaldarono viepiù, giacché il Della Marmora tenne a battesimo il primogenito del giovane ex bandito, che nel frattempo si era sposato.
Aveva intuito, il Taramelli, di là dalle incontrollabili pulsioni dell’animo, lo straordinario potenziale archeologico del vario e vasto, anzi vastissimo, territorio di Dorgali. Se fosse confermata la presenza dell’uomo paleolitico nella Valle di Lanaitto (Oliena-Dorgali), proprio ai piedi della Cordiglia di Tiscali (Dorgali), o altrove, lungo la costa (Grutta de Tziu Santoru?), si potrebbe affermare che ogni epoca preistorica è testimoniata in questo straordinario territorio, dipinto dai fascinosi calcari, dai diversi graniti e dal basalto a placche o a singolari colonne poligonali delle eruzioni quaternarie.
Egli stesso aveva segnalato diversi monumenti, alcuni di grande rilievo, come il Nuraghe Mannu, a picco sulla Codula Fuili e dominante su tutto il suggestivo Golfo di Orosei, da Capo di Monte Santo a Sud alla Marina di Cartoe e Osalla.
Finora è stato visto come sia particolarmente difficile – e spesso impossibile – ricostruire, con i soli strumenti dell’archeologia, le pratiche rituali e il pensiero filosofico-religioso, dei diversi popoli antichi, di cui non sono giunte tradizioni.
Non per giungere ad una verità, ma solo per individuare ipotesi plausibili riconducibili alla ricerca paletnologica, è opportuno rivolgersi alle diverse fonti dell’Antropologia.
Analogamente, il problema dell’interpretazione o della collocazione culturale, si pone anche per quei monumenti “nuovi”, insoliti e persino unici, che fortunatamente si possono ancora rinvenire, come l’allineamento di Ittiri oggetto di queste riflessioni.
Come detto nella prima parte, l’interpretazione quale raro “luogo del silenzio” del ben vistoso, ma finora inosservato, monumento a grossi poliedri ortostati di Sa Figu parrebbe trovare un forte sostegno nella realtà attuale dei Parsi, un’antica popolazione residente tra la Persia e l’India, dove s’insediò a seguito dell’avanzare dell’islam nel loro territorio d’origine.
Il nome “Parsi” deriva da Persi o Persiani e li individua come i discendenti di quell’antico e ben noto popolo del Vicino Oriente, la cui religione improntata al culto di Mitra (Mitra era il Sole e il fuoco), mostra ampie convergenze con i contenuti della mistica di Zarathustra (Zoroastro per i Greci) che si esprime nel culto alla sacralità degli elementi costituenti la Natura.
La componente messianica di questa religione finì anche per avere marcate ascendenze in una larga parte del popolo ebraico nella fase in cui fu deportato nella Babilonia di Nabuchadrezzar (o Nabucodonosor), (dal 586 al 538 a.C.), ma certo anche dalla lunga dominazione Assira (dal 538 al 332 a.C.).
Mappa di Babilonia secondo un’illustrazione della Encyclopaedia Biblica (Wikipedia)
Da quell’influsso, presente in un’importante componente dell’ebraismo, quella messianica della grande fucina mistica di Qumram, presso il Mar Morto, si avranno sensibili conseguenze nella predicazione cristiana. Analogamente, particolari contenuti della religione mitraica avranno esplicite e sorprendenti convergenze contenutistiche nella teologia cristiana.
Attestato estesamente in antico, il rito della scarnificazione – nelle sue diversificazioni potrebbe sembrare un fatto lontanissimo dalle consuetudini del terzo millennio e, ove sopravvivesse ancora, una pratica sconveniente di anacroni stici gruppuscoli, ancora agganciati alla preistoria.
La potente, chiusa ma moderna etnia dei Parsi vive a Bombay, dove ha una florida condizione economica basata su tecnologie avanzate. Detengono ampie aree boscate dove praticano la loro singolare prassi funeraria, secondo il loro credo religioso, il cui fondamentale imperativo è il rispetto della purezza degli elementi divini Terra, Fuoco, Aria e Acqua, quali fattori fondamentali della Natura e della vita.
Per questo la dissoluzione dei cadaveri non deve contaminare alcuno di questi componenti. La soluzione coerente è che i corpi dei defunti siano esposti alla solerzia dei numerosi avvoltoi – oggi allevati di proposito(4) , i quali per antichissima consuetudine sono richiamati ai bordi delle mura d’alte torri circolari.
Le dachmars, in occidente definite “torri del silenzio”, sono costruite al culmine di un’altura, e consistono sostanzialmente in un recinto lastricato, chiuso con pareti tali da impedire la vista di una così greve manifestazione, durante la quale, con una ben nota celerità determinata in concreto dal consistente numero di rapaci (meglio se oltre cento), le parti molli del defunto e non poche ossa minori ritornano direttamente a far parte del ciclo biologico della Natura, nel pieno rispetto della sua regola e della sua “purezza divina”.
Incisione di una torre del Silenzio zoroastriana (Wikipedia)
La collocazione in una dimora definitiva delle ossa avanzate avverrà in cimiteri preposti, dove tutti i componenti del gruppo umano si ricongiungono ai propri antenati e dove, i vivi abbiano un luogo dove “incontrare” e compiangere i defunti.
Immaginando anche contesti diversi e molto più lontani nel tempo, si può anche ipotizzare che non tutte le ossa fossero restituite dal frenetico e rissoso banchetto tenuto dagli avvoltoi e da altri rapaci, giacché è noto che alcune varietà di essi inghiottono le più piccole o spezzano le più grosse facendole cadere sulle rocce, per poi attingere al midollo o agli stessi frantumi.
É da credere che da un tale trattamento avanzino il cranio – se pure veniva esposto e non prelevato in precedenza per riservargli un rito specifico ,(5) le ossa lunghe più pesanti, come i femori e le placche del bacino, oltre a parti della colonna vertebrale e molte costole…
Fra le feste “de ispantu” che rendono la Sardegna ricca di tradizioni quella dei Candelieri di Nulvi occupa una posizione di grande rilievo.
Tanto per cominciare è una festa all’antica: ha la sua vigilia, la sua festa vera e propria e otto giorni dopo conserva ancora s’ottava che ne sancisce la chiusura.
Piatto forte de s’ispantu i suoi candelieri che candelieri non sono. Candeliere infatti per tradizione è una struttura che regge una candela e a Nulvi non c’è niente di tutto questo. A sfilare, con tanta devozione e sacrificio, tre giganteschi “altari” di legno scolpito, di tre colori diversi: giallo il candeliere dei contadini, verde quello dei pastori, azzurro quello degli artigiani.
La tradizione è antica di secoli e dovrebbe essere nata al tempo dei pisani. Stando al condizionale, di quella antica tradizione, Nulvi, in quanto a forma, ne dovrebbe essere il testimone più autentico rispetto agli altri candelieri che sfilano in Sardegna.
Gli statuti pisani del 1200 e del 1300 prevedevano la consuetudine dei candelieri, decretavano il tanto di cera da esporre sugli stessi e indicavano la forma che le “macchine” dovevano avere. Il “candelo” doveva essere a “tabernacolo” e sullo stesso dovevano apparire immagini di santi e di angeli in “cera nuova”.
La cera, alla fine, veniva asportata e fusa per ottenere candele. Prima osservazione: a Nulvi di “quell’asportare” fino a pochi decenni fa era rimasto un labile segno di memoria passiva, l’usanza di distruggere, a fine festa, le facciate in cartapesta dei candelieri.
Le “reliquie” venivano contese e conservate un anno intero, poi bruciate e le ceneri disperse nei campi per renderli fecondi. Il voto pisano, comunque, era quello di offrire ogni anno un tanto di cera alla Madonna del “mezo mese di Gosto”, con o senza pestilenze da esorcizzare o lenire. A Sassari e a Ploaghe gli attuali candelieri sono a “fioretto”. Perché questa sostanziale differenza con Nulvi vista la probabile stessa origine devozionale? Pura disobbedienza alla regola imposta dai padroni?
Mistero! Quelli di Iglesias, essendo di recentissima ricostruzione, non possono rientrare nella disputa che riguarda la forma. Va detto però che loro sono candelieri per davvero in quanto ne hanno la struttura e in cima recano le candele. Oltremodo diverso il discorso di Siurgus Donigala.
In questo paese, ai primi di settembre, inizio d’anno “dell’era agraria”, per la natività della Madonna sfilano enormi candele di cera trasportate a braccia da singoli offerenti. Di questa usanza ne avevo parlato tanti anni fa in questa stessa rivista.
Come allora la stessa domanda: erano quelli i candelieri votivi prima che arrivassero i pisani? E sono sempre state candele di cera a sfilare oppure erano altro? Nuovo mistero!
1.2.2 – Civiltà ebraica Secondo il libro della Genesi, la patria originale di Abramo era la città di Ur, nella Mesopotamia, dove forse visse all’epoca in cui la civiltà sumerica godeva degli ultimi bagliori di gloria.
Abramo, con il padre Terach, la moglie Sara e il nipote Lot, lasciò Ur per andare nel paese di Canaan , dove si stabilì dopo una breve puntata in Egitto, tra il secolo XX e XVI a.C. . Circa due secoli dopo il popolo ebreo trasmigrò in Egitto, chiamatovi da Giuseppe, figlio di Giacobbe.
Dall’Egitto tornò verso la Palestina nel secolo XIII a.C. sotto la guida di Mosè e di Giosuè. La conquista della terra di Canaan iniziò con il guado del fiume Giordano. La prima località raggiunta dalla tribù ebraica fu Galgala, a est di Gerico.
Alla morte di Salomone (sec. X a.C.) la monarchia unitaria genera due regni, Israele a nord e Giudea a sud. La scissione è accompagnata dalla decadenza, seguita poi dalla schiavitù di Babilonia.
Successivamente si ebbero fasi alterne di indipendenza (con rinascita dei due regni) e di dominazione straniera. Con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 d.C., termina la storia millenaria dell’antico popolo ebraico in Palestina.
1.2.2.1 Sistema economico ebraico. La natura del suolo palestinese (tranne alcuni lembi particolarmente fertili come la valle di Isreel, ai piedi del massiccio del Monte Gelboe) non permise agli ebrei di dare sviluppo soprattutto all’agricoltura, danneggiata dalla natura arida del suolo (contrariamente ai fertili terreni egizi e mesopotamici).
Le colture furono varie: frumento, orzo, fave, lenticchie, viti, olivo, melograno, mandorle, fico, sicomòro. Il fabbisogno alimentare veniva soddisfatto principalmente mediante la pastorizia e l’allevamento. Gli animali allevati furono in particolare buoi, cavalli, asini, cammelli, capre, pecore.
La scarsa disponibilità di generi alimentari impedì la specializzazione del lavoro nel settore terziario, quale l’artigianato, che rimase poco sviluppato rispetto ai popoli confinanti. Gli agglomerati urbani erano contraddistinti da una diffusa povertà. Lo stesso Tempio di Gerusalemme era un edificio di dimensioni inferiori rispetto alle grandi opere mesopotamiche o egizie.
Il re Salomone fu costretto ad avvalersi della cooperazione dei fenici, sia per procurarsi i materiali più pregiati (in particolare legno), sia per ottenere efficaci collaboratori sul piano tecnico. Fu necessario importare metalli da Cipro, dall’Anatolia, dall’Arabia, l’esportazione riguardò soltanto le eccedenze di grano, vino, olio.
Il regno di Israele non possedeva la conoscenza tecnica necessaria allo sviluppo del commercio marittimo su larga scala. Il nominato re, per far viaggiare le sue “navi di Tarsis” (tipiche imbarcazioni larghe, adatte per lunghi viaggi in alto mare) chiamò in aiuto gli esperti di Chiram, re di Tiro. Tarsis, situata nel Mediterraneo era probabilmente la Sardegna, dalla quale gli israeliti importarono argento, ferro, stagno, piombo.
Nel complesso l’economia del popolo ebraico (tranne la breve parentesi della prosperità ai tempi di Salomone e di David) si rivelò come una tra le più modeste di quelle dell’Antichità. Nel corso dei secoli, fino all’era precristiana, la vita lussuosa fu riservata ai ceti nobili.
L’accumulazione dei beni, seppure praticata da un ristretto gruppo sociale di persone, non faceva parte della cultura del popolo ebraico, pervaso dalla presenza divina. Tutte le norme tramandate dall’Antico Testamento confermano l’immagine di una società tesa al raggiungimento di un equilibrio etico – sociale , piuttosto che a quello dell’accumulo di ricchezze.
Nel vecchio Testamento e nelle successive raccolte di leggi e di interpretazioni, che costituiscono l’originale pensiero ebraico, si rispecchia la lotta tra la società tribale, caratterizzata da una proprietà comunitaria e da un’attività economica primitiva, e il processo economico impersonale di una società più complessa, divisa in classi e caste, basata in gran parte sulla proprietà privata.
Attraverso l’influenza spirituale dei profeti, si ebbero dei mutamenti nella struttura economica, con la condanna degli eccessi delle nuove classi commerciali, degli usurai (venne proibita la riscossione dell’interesse; tuttavia, la norma comportamentale della remissione dei debiti nell’anno sabbatico venne aggirata e annullata con la crescita dell’attività creditizia), dei predatori di terre.
| Arte dei Metalli di Giacobbe Manca e Karmine Piras | Origine dei bronzetti sardi – seconda parte di Maurizio Feo | La visione del purgatorio di Gian Gabriele Cau | Le incisioni di Craminalana di Nicola Dessì | Curren Vardia di Franco Stefano Ruju | La civiltà Negletta – seconda parte di Andrea Muzzeddu | Economia delle antiche civiltà mediterranee di Giovanni Enna | Pere Garcia, vescovo di Ales di Roberto Lai | È meglio morire che… di Elena Nichiporchik | Terremoti in Sardegna di Nicola Borghero | Misfatto a Monte Baranta di Giacobbe Manca | Contestualizzazione dell’arte rupestre dipintadi G. Nash, D. Meozzi, P. Arosio
Come il titolo e il sottotitolo lasciano intuire, questo libro è suddiviso in più parti.
Nella prima, dopo le indicazioni territoriali, si procede dall’antichissimo giungere di un popolo del Neolitico medio nella valle di Mamojada che in questo “Eden” s’insedia stabilmente per dare origine ad una vicenda antropica, da un lato, singolare e in pari tempo parallela a quelle accaduta in altre contrade dell’Isola (come, si narra, dovette verificarsi lungo le valli del Tirso e del Cedrino, nelle valli ogliastrine o lungo altri importanti corsi d’acqua isolani).
Ciò che distingue quel popolo delle origini è la sua consuetudine di erigere stele e menhirs istoriati con simboli (cerchi concentrici, bastoncelli”, “preghiere” e coppelle tonde e vulvari) che l’autore, con un felice neologismo, definisce “fertilistiche”, in virtù della loro antica funzione magico-rituale.
Le seconda parte del libro ha un carattere internazionale, giacché segnala tutti i confronti oggi disponibili fra le pietre istoriate di Mamojada (le famose pietre magiche richiamate nella precedente opera dello stesso autore) con altre realtà europee e persino africane.
Dalla Scozia al Marocco, passando per il Northumberland (e con qualcosa di significativo anche in Nigeria), dall’Irlanda alla Svizzera, attraverso la Spagna e il Portogallo sono segnalati monumenti istoriati, strettamente confrontabili con questi sardi di Mamojada e dintorni.
La terza parte del libro è una ricca documentazione iconografica a colori (una sostanziale narrazione parallela e spunto per un futuro museo del paese) che annovera monumenti e oggetti archeologici, anche inediti, rinvenuti sia nella valle di Mamoiada sia nel resto dell’Isola e dell’Europa, a conforto dell’ipotesi di un’antica religione fertilistica, la cui individuazione in Barbagia, pone la Sardegna in un perfetto parallelo culturale col resto del mondo mediterraneo: altro che i ritardi culturali predicati da autorevoli pulpiti!
Ancora, il testo è corredato da diverse appendici con indicazioni sui monumenti, risorgive ed altre realtà mamojadine, utili sostegni della narrazione globale del libro.
Infine, quattro mappe territoriali archeologiche a colori, con tavola cronologica dell’autore, offrono una diretta immagine dell’ubicazione dei monumenti presenti nella regione, distinti con differenti simbologie e colori, ascrivibili a tutte le epoche, dal Neolitico (fase delle origini documentate) fino al Medioevo.
Si tratta, dunque, di un libro composito, nel quale la narrazione scientifica è veicolata da una scrittura chiara e piacevole, affinché sia fruibile da tutti, dove i tecnicismi dell’archeologia lasciano il posto alla documentata visione antropologica: quello che dovrebbe essere il vero scopo dell’archeologia, frequentemente disatteso dalla generalità degli archeologi che spesso se non sempre si limitano a leggere i “cocci” e le ambigue stratigrafie o a dare generiche descrizioni di monumenti, talora vaghe e inadeguate.
Si legge come un romanzo ma è un libro di archeologia di nuova concezione, dove non è il monumento o l’oggetto scientifico al centro dell’attenzione, ma le persone e la loro vita sociale, economica e religiosa: tutto ciò che quei documenti importantissimi, giunti fino a noi, hanno saputo indicare.
Le “maglie” della narrazione sono più fitte e stringenti per i periodi più antichi e più larghe col procedere verso i periodi punico e romano, con cenni fino al Medioevo.
Dunque questo libro non è solo un’ennesima iniziativa editoriale indirizzata “al paese del cuore”, ma è un’impegnativa prova di paletnologia (ovvero di paleo-etnologia) dalle valenze generali, che in distinte parti affronta altrettanti aspetti, diversi ma strettamente correlati: dalla ricerca delle società antiche alle parentele europee delle affascinanti pietre istoriate, oggi attribuite ad una cultura barbaricina.
Da quell’argomentare discende che nella visione archeologica isolana non è più giustificabile una teoria dove l’Isola è chiusa in se stessa (tutto ciò che del Neolitico mostra una decorazione, ad esempio, veniva rimandato alla nostrana cultura di Ozieri), ma si hanno molti motivi per guardare ad orizzonti europei, ben più ampi, cosa già intuita per differenti elementi culturali del Bronzo Antico, quali la cosiddetta cultura Beacker e non solo.
La nuova opera di Giacobbe Manca è, in buona sostanza, la logica continuità culturale, in prioritaria chiave antropologica, del noto libro “Pietre magiche a Mamojada” (del 1999), che divulgò, fra l’altro, la grande novità delle pietre istoriate barbaricine o “fertilistiche”, ampliando in modo imprevisto e imprevedibile il quadro della preistoria isolana ed europea.
In chiusura propongo una notazione sul titolo, così sintetico e significativo insieme: Mito di Mamojada, sta per il percorso culturale individuato alla ricerca di un popolo che ha saputo conservare più di ogni altro nell’isola, retaggi di antichissime ritualità folkloriche.
É la ricostruzione sia pure parzialmente e necessariamente ipotetica (siamo in campo preistorico), ma ampiamente documentata della lunghissima e articolata epopea di un popolo mitico fin dalle sue origini, come l’archeologia dimostra.
In sintesi è un omaggio sia ai mamojadini e ai loro importanti antenati, sia ai Sardi nel loro insieme.