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LA GUERRA PIÙ ANTICA

Premessa Alla domanda: “Qual è la guerra più antica?”, la risposta più corretta sembrerebbe essere: “Quella del 2.700 a.C., vinta da Sumer contro l’Elam, in cui Enembaragesi, re di Kish, spogliò gli Elamiti di tutti i loro possedimenti”.
Fu certamente una guerra tra due popolazioni ricche e stanziali ormai da vari millenni. Ma fu solo la prima riportata per iscritto dagli annalisti: e certamente fu preceduta da mille altre…

L’evidenza archeologica di “guerra” più antica in assoluto appartiene al sito di Jebel Sahaba, nell’odierno Sudan settentrionale ed è datata attorno ai 12.000 anni prima di Cristo. Quegli antichi resti d’esseri umani uccisi in azioni violente di guerra, ottennero un’accurata sepoltura nel vicino cimitero di Qadan: ciò lascia intuire che una popolazione già stabilizzata e non più nomade, ebbe modo e tempo di provvedere a sepolture tradizionali. Ciò conferma la “regola” della sedentarietà che causerebbe la guerra.

Il problema In questi ultimi anni, si assiste ad un tambureggiante crescendo rievocativo delle presunte grandezze culturali, marinare e militari dei Sardi del passato.
Più spesso si tratta d’iniziative d’entusiasti “non addetti ai lavori” (come chi scrive questo articolo, s’intende!), ma talvolta persino di aventi diritto, con tanto di titolo d’archeologo.
Si può fare un po’ di chiarezza?
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LA CENA DELLE ANIME

Un’osservazione filmica della tradizione sarda nella Notte dei Morti
di Ignazio Figus

“La notte del 2 novembre si mangiano di prammatica “sos macarrones de sos mortos” (i maccheroni dei morti).

Prima di porsi a letto le famiglie preparano sulle mense un gran piatto di questi maccheroni, che sono destinati ai defunti parenti.
Le anime entrano alla mezzanotte nelle case, girano intorno alle mense imbandite, e se ne partono quindi saziate dal solo odore delle vivande.

Se invece non si prepara alcun piatto, i morti se ne vanno via sospirando…” .

Questo scriveva nel 1834 il poeta, giornalista e folklorista, Giuseppe Calvia Sechi nella Rivista delle tradizioni popolari a proposito delle usanze familiari logudoresi in occasione della commemorazione dei defunti.

Nelle note relative a questa descrizione lo studioso ci informa che: “È un ricordo evidente del culto dei morti in Grecia e in Roma…” e ancora “Pare di assistere alla scena di Tiresia e delle anime vaganti attorno al fosso scavato da Ulisse, e descritto da Omero nell’XI dell’Odissea…


Questa relazione vivi – morti evidenziata dal Calvia, sembra dunque sottolineare una ricerca di risposte a interrogativi eterni che riguardano la vita e la morte e il nostro rapporto con esse.

I defunti, in qualche modo, non sono separati dalla comunità, ma continuano a farne parte ed è necessario sfamarli, oltre che imparare ad ascoltarli traendo insegnamenti per il prosieguo della nostra vita.


Il culto dei morti è un elemento centrale nella cultura popolare della Sardegna. Rappresenta indubbiamente uno dei temi classici dell’antropologia e trova nell’Isola (e nel meridione d’Italia) espressioni ancora vitali e analizzabili…


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Ottusangoli e fole

Per il progresso dell’Archeologia sarda
di Giacobbe Manca

“Auspicato Profeta:… ma”
L’archeologo scozzese Duncan Mackenzie visitò almeno tre volte la Sardegna, tra il 1906 e il 1912, producendo quattro scritti per i quaderni della British School di Roma: solo il contenuto del primo fu proposto in italiano per la rivista culturale romana Ausonia; altri tre resoconti, mai giunti agli allievi sardi in archeologia, praticamente reperibili solo a Roma, restano ancora in lingua originale.


Per il centenario, il CSCM concepì di editare la traduzione e ’attualizzazione del terzo scritto (1910), ritenuto molto interessante proprio per l’apporto che si ritiene abbia dato all’Archeologia isolana.

L’iniziativa è andata a rilento per cause diverse, come la difficoltà obbiettiva di ottenere una voltura affidabile (stanti le contraddizioni e la “legnosità” dell’autore) e la necessaria rivisitazione di tutti i monumenti ivi analizzati. Intanto furono proposti diversi articoli in Sardegna Antica C.M.: in essi si analizzano monumenti molto importanti per la letteratura di settore e si evidenziano diversi svarioni contenuti negli scritti dell’inglese.


Alla luce di odierne analisi tecniche applicate ai monumenti “chiave”, furono proposte in particolare nuove interpretazioni degli stessi, ben più fondate e ciò fu riconosciuto (scambi personali) anche dall’allora indiscusso “facitore” dell’Archeologia isolana che, in un attimo di “incertezza privata”, ritenne di dover attribuire le colpe degli errori “non visti” … al Mackenzie.


Intanto, un’inusitata iniziativa editoriale, ben lontana dall’esegesi disciplinare, apparve qualche anno fa, retorico, senza motivazioni pedagogiche, né analisi o indagini specifiche. In essa sono pesanti limiti nella traduzione pedissequa del testo inglese, nell’evidente oblio dei monumenti descritti, e lungi dall’imperativo della necessaria attualizzazione dei contenuti, anche alla luce dei nuovi e numerosi apporti scientifici già divulgati ma ignorati in toto.


In concreto, salvo il catalogo dei siti, l’opera di Mackenzie è scientificamente irrilevante, eppure oggi egli assurge, per i cattedratici, ad autore “di alto e… profetico riferimento” stando a cotanta editoria. Nella detta pubblicazione si leggono vieppiù, valutazioni del tutto erronee e/o gratuite.
In ogni caso, emerge quanto – dal secondo dopoguerra a oggi – l’accademia sarda si è pedissequamente “appropriata” delle esternazioni del Mackenzie.

Infatti, nei manuali della disciplina, “imposti” agli studenti non si registra alcuna nota, chiara e inequivocabile, che rimandi all’inglese le intuizioni: le scoperte sarebbero, dunque, merito esclusivo dei “grandi” docenti-mito, trovatisi in carriera “proprio a seguito dei vasti vuoti culturali determinati… dalle leggi razziali”. Ciò spiega bene la forte reticenza e la sconnessa difesa dello status quo da parte di archeologi sistemati, ora orfani. ¡

Non fu solo Mackenzie a sbagliare, come il “potente facitore” pretendeva! ma tutti quelli che ne accettarono e ancora ne accettano, irrazionalmente, gli apporti: orbi carrieristi e “omertosi” in primis.

Preliminari e simil conclusioni

Ai tempi in cui Mackenzie venne nell’Isola, la Sardegna era vista da molti come un’anacronistica sopravvivenza antropica di semiselvaggi, palestra per etno-patologi alla Niceforo: tutto assai poco attinente con la Preistoria.

L’esplorazione attraverso quelle curiosità antropologiche, all’insegna dell’innatismo, ricercate nell’Isola dalla detta scuola inglese, gemmata nella recente capitale del potere piemontese, sembra riecheggiare la spinta indagatrice di certo pregiudizio allora seguito, sull’onda degli acclamati studi del torinese, influente e longevo, C. Lombroso (1803 – 1909).

L’attenzione “scientifica” di quest’ultimo riguardava il cretinismo e la propensione alla delinquenza – estesa, manco a dirlo, in specie alla Sardegna – le cui cause egli riconduceva alla “stirpe”.
Per tutti, in seguito, le scienze antropologiche fecero molti progressi concreti – non altrettanti quella archeologica, in verità.


In quell’ottica s’avviò in Sardegna la ricerca della British School at
Rome e in quell’avvio del 1906 si affiancò, si riporta, la curiosità archeologica dello scozzese, favorito dall’ambasciatore Egherton.


In tre autunni consecutivi egli esplorò, molte contrade della Sardegna, dal Capo di sopra all’altopiano del Guilcier e all’Iglesiente. Per i rilievi fu coadiuvato dall’architetto Newton, ottimo disegnatore di edifici preistorici; “sui monti” fu bene accolto da buoni indigeni che lo guidarono ai monumenti.

Tutto si svolse sotto una buona stella, come lui stesso scrisse.
Tornando al Mackenzie, tuttavia, bisogna riconoscere che quelli d’inizio Novecento erano tempi in cui gli studiosi ricercatori per comprendere andavano davvero a vederli… i monumenti.

Forti di ampie conoscenze pragmatiche (vedi gli archeofili tra Ottocento e primi del Novecento) li interpretavano, eseguivano o ne ispiravano il rilievo – sempre in loro presenza – e ne davano una “lettura” diretta – ben coscienti, credo, che essa fosse valida ma solo fino a maggiori progressi.


Tempo dopo, nei decenni del secondo periodo postbellico, in Sardegna si cominciò a vivere di assemblaggio e rendita (per esempio: i rilievi e le analisi del Della Marmora, del Taramelli, del Nissardi, del Pallottino, del Newton/Mackenzie ecc. furono (e sono) utilizzati, sia perché ritenuti più che accettabili sia, soprattutto, perché nessuno degli archeologi succedanei ai detti capi mitici mostrò di dover verificare, studiare o, ancor peggio, aggiornare (non dico ridisegnare – ¡Dio aiuti!).

Infatti, da allora tutto era (ed è) dato per certo e acquisito: ¡definitivamente e pedissequamente, per la beata umanità bisognosa di miti e sale da te!

“Tout de bot”, un noto articolo del 1910 di Mackenzie appare tradotto in italiano: non un saggio d’archeologia: la sola traduzione senza apporti culturali; lo premette una scarna biografia (pp.17-18).1

“Duncan Mackenzie, I Dolmens, le tombe di giganti e nuraghi della Sardegna”, Condaghes, 128 pagine; brossura BN, traduzione dell’articolo The Dolmens, Tombs of the Giants, and Nuraghi of Sardinia, (Papers of the British School at Rome, Vol. V, 2; London 1910).

Credo valga la pena soffermarsi, in breve, su alcuni aspetti: metodi, contenuti e pieghe mentali o culturali inferibili dalla detta traduzione. Il prodotto editoriale concerne, dunque, uno scritto di oltre cento anni fa: uno dei quattro dello scozzese riguardanti la Sardegna.

Risulta che il valente “archeologo preistorico”, lavorò per alcuni decenni in Egeo: a Cnossos (Creta), a Philacopy (Melos) e conosceva, oltre la sua Europa, anche il vicino Oriente.

Fu un valido aiuto di Evans, anch’egli una sorta di “mito” inglese, al quale diede certamente il suo destro, ma anche di più – dice taluno: “fornì” riflessioni e valutazioni non proprio riconosciutegli (fatti ricorrenti), forse a causa di mai chiariti umori tra lui e il famoso capo.

Dell’opera in questione e di alcuni contenuti/intuizioni del Mackenzie ho già scritto in Sardegna Antica C. M., n. 34, del 2008, nel sintetico articolo “Duncan Mackenzie e i dolmen sardi: cento anni di crepuscolo”, che ebbe qualche migliaio di lettori, ma che certo non è stato visto o inteso nel divino mondo stipendiato della “archeologia isolana”, statica e salottiera. A. Evans fu, più propriamente, un imprenditore colonialista dell’archeologia, come in quel momento storico usavano gli inglesi e non solo: era un “cacciatore” di oggetti per sé e per la “corona”, dal che ottenne il titolo di Sir: perciò non era un vero archeologo ancorché, come tanti, agì come tale.

Si sussurra che Mackenzie fu allontanato per la sua condizione di alcolista, ma si dice pure che il motivo “vero”, forse più umano, riguardava la bella compagna di Evans; altri ventilano sintomi di pazzia o sofferenze che causavano prostrazione fisica e mentale.

Molto resta vago riguardo a Mackenzie, ma nelle brume anglo-scozzesi è saggio non rimestare pettegolezzi e ci si attiene maggiormente alla scienza.

Preconcetto e maldicenza restano i lividi retaggi coltivati in orizzonti culturali e geografici angusti, come certa accademia isolana, dove la paura di un confronto scientifico è palpabile e si esorcizza talvolta con stizzose “liste di proscrizione”, lancio di melma e pugnali… alle spalle, naturalmente.

Mackenzie, lucido forestiero

Mackenzie aveva, dunque, ampie conoscenze specifiche: dal mondo megalitico delle sue contrade e della Francia, a quelle, assai più vaghe, della Corsica e delle Baleari;

come detto, ben conosceva anche diverse realtà dell’Egeo. Alle soglie dei cinquant’anni, con la sua vasta esperienza, si apprestava a conoscere l’oscura, peculiare preistoria della Sardegna.

Torno all’articolo, tradotto con intuibile impegno ma portatore di diverse pecche: ai molti passi non chiari o privi di significato, si aggiunga – come detto – la mancata attualizzazione di “certa” parte obsoleta dell’Archeologia di Sardegna. Insomma, un’occasione “perduta” per approdare a un’utile analisi bibliografica e contenutistica.

È, soprattutto, l’occasione mancata per riflettere, finalmente, sulla colpevole acquiescenza pluri generazionale verso contenuti solennemente erronei: quelli che gli orfani da mito sono ancora interessati a santificare… ab aeterno.

In tal segno, altro sconcerto deriva dalle “emanazioni” della cosiddetta Presentazione, che vorrebbe essere una premessa allo scritto in questione, ma proprio non ci riesce. Il libro ha in appendice il testo originale (trascritto… con mancanze), quasi utile per sciogliere i molti dubbi che affiorano dalla lettura.

Quanti leggeranno quella versione, dotata di “cotanta Presentazione”, tengano comunque per certo che, per l’Archeologia isolana, lo scritto del Mackenzie è proprio “preistorico”: è più che superato, solo valido per una salutare riflessione sugli errori del passato; magari è occasione per la rivisitazione dei monumenti descritti a distanza di oltre un secolo e un lustro.

Ora è pure una testimonianza indiretta delle pieghe psichiche di “studiosi” locali (dal secondo dopoguerra a oggi), che credettero di “appropriarsi” appieno delle opportunità lucide, straniere e gratuite – manna dal già defunto Mackenzie. Ancora oggi la tifoseria del Nuragico militarista ne subisce l’abbaglio (e la conferma diretta è nella “dotta” Presentazione): i dogmi emanati dai “capi-mito”, per taluni che ne sentono la dipendenza appaiono come un irrinunciabile oppio obnubilante


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SU PADRU ‘E LASSIA (Birori) una tomba per archeologi

di Roberto Manconi

Anche a giudicare dai soli poveri resti superstiti, era certo una tomba di giganti notevole, non tanto per le dimensioni quanto per l’importanza scientifica.

Consistenza della tomba


Attualmente, blocchi sporadici e pochi ortostati evocano un cenno dell’arco frontale che delimita l’esedra e alle spalle ciò che resta del tumulo; frammenti della stele frontale con cornice, sparsi lì davanti – non coerenti – attestano la sua arcaicità, mentre un grosso parallelepipedo ben lavorato, dall’apparente ruolo d’architrave “caricaturale”, mostra al centro della base un incavo: una sorta di archetto scalpellato, basso e appena marcato, la cui posizione richiama l’accesso alla camera.

Al suo colmo, nello spessore, l’insolito blocco appare lavorato con una lieve cuna nella lunghezza e nella larghezza, evidentemente predisposta per accogliere blocchi sovrastanti di forma congruente, così come si vede nelle tombe “a filari” ben lavorate.


Il parallelepipedo ha lati arrotondati e appare ricollocato in modo approssimativo. Ora è inclinato verso il retro e poggia al suolo sulla terra: dunque non è in situ come taluno ha ritenuto; inoltre la sua presenza attesta una vicenda non univoca del monumento arcaico, che fu ripreso con diverse tecniche in antico e ancora spogliato forse per effetto delle chiudende dalla prima metà dell’Ottocento.


Per intendere il basso varco indicato come l’ingresso alla camera, è necessario ipotizzare anche dei sottostanti e combacianti piedritti di stipite, magari affossati. In verità, al disotto di questo blocco essi non ci sono e dunque tutti i dubbi sono confermati e accrescono il pensiero sulla incongruenza di questo concio con l’ultimo ingresso apprestato nella tomba.

L’incavo è certo in linea con l’asse della camera tombale retrostante e tuttavia, dalla casistica e dalla logica, è lecito credere che l’apparato d’ingresso doveva, comunque, essere attrezzato diversamente, sia nella fase arcaica sia nelle successive ipotizzate, come si può ben desumere dalla situazione superstite e dalla casistica conosciuta…
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