Giacobbe Manca

Torri del silenzio

Finora è stato visto come sia particolarmente difficile – e spesso impossibile – ricostruire, con i soli strumenti dell’archeologia, le pratiche rituali e il pensiero filosofico-religioso, dei diversi popoli antichi, di cui non sono giunte tradizioni.

Non per giungere ad una verità, ma solo per individuare ipotesi plausibili riconducibili alla ricerca paletnologica, è opportuno rivolgersi alle diverse fonti dell’Antropologia.

Analogamente, il problema dell’interpretazione o della collocazione culturale, si pone anche per quei monumenti “nuovi”, insoliti e persino unici, che fortunatamente si possono ancora rinvenire, come l’allineamento di Ittiri oggetto di queste riflessioni.

Come detto nella prima parte, l’interpretazione quale raro “luogo del silenzio” del ben vistoso, ma finora inosservato, monumento a grossi poliedri ortostati di Sa Figu parrebbe trovare un forte sostegno nella realtà attuale dei Parsi, un’antica popolazione residente tra la Persia e l’India, dove s’insediò a seguito dell’avanzare dell’islam nel loro territorio d’origine.

Il nome “Parsi” deriva da Persi o Persiani e li individua come i discendenti di quell’antico e ben noto popolo del Vicino Oriente, la cui religione improntata al culto di Mitra (Mitra era il Sole e il fuoco), mostra ampie convergenze con i contenuti della mistica di Zarathustra (Zoroastro per i Greci) che si esprime nel culto alla sacralità degli elementi costituenti la Natura.

La componente messianica di questa religione finì anche per avere marcate ascendenze in una larga parte del popolo ebraico nella fase in cui fu deportato nella Babilonia di Nabuchadrezzar (o Nabucodonosor), (dal 586 al 538 a.C.), ma certo anche dalla lunga dominazione Assira (dal 538 al 332 a.C.).

Mappa di Babilonia secondo un’illustrazione della Encyclopaedia Biblica (Wikipedia)

Da quell’influsso, presente in un’importante componente dell’ebraismo, quella messianica della grande fucina mistica di Qumram, presso il Mar Morto, si avranno sensibili conseguenze nella predicazione cristiana. Analogamente, particolari contenuti della religione mitraica avranno esplicite e sorprendenti convergenze contenutistiche nella teologia cristiana.

Attestato estesamente in antico, il rito della scarnificazione – nelle sue diversificazioni potrebbe sembrare un fatto lontanissimo dalle consuetudini del terzo millennio e, ove sopravvivesse ancora, una pratica sconveniente di anacroni stici gruppuscoli, ancora agganciati alla preistoria.

La potente, chiusa ma moderna etnia dei Parsi vive a Bombay, dove ha una florida condizione economica basata su tecnologie avanzate. Detengono ampie aree boscate dove praticano la loro singolare prassi funeraria, secondo il loro credo religioso, il cui fondamentale imperativo è il rispetto della purezza degli elementi divini Terra, Fuoco, Aria e Acqua, quali fattori fondamentali della Natura e della vita.

Per questo la dissoluzione dei cadaveri non deve contaminare alcuno di questi componenti. La soluzione coerente è che i corpi dei defunti siano esposti alla solerzia dei numerosi avvoltoi – oggi allevati di proposito(4) , i quali per antichissima consuetudine sono richiamati ai bordi delle mura d’alte torri circolari.

Le dachmars, in occidente definite “torri del silenzio”, sono costruite al culmine di un’altura, e consistono sostanzialmente in un recinto lastricato, chiuso con pareti tali da impedire la vista di una così greve manifestazione, durante la quale, con una ben nota celerità determinata in concreto dal consistente numero di rapaci (meglio se oltre cento), le parti molli del defunto e non poche ossa minori ritornano direttamente a far parte del ciclo biologico della Natura, nel pieno rispetto della sua regola e della sua “purezza divina”.

Incisione di una torre del Silenzio zoroastriana (Wikipedia)

La collocazione in una dimora definitiva delle ossa avanzate avverrà in cimiteri preposti, dove tutti i componenti del gruppo umano si ricongiungono ai propri antenati e dove, i vivi abbiano un luogo dove “incontrare” e compiangere i defunti.


Immaginando anche contesti diversi e molto più lontani nel tempo, si può anche ipotizzare che non tutte le ossa fossero restituite dal frenetico e rissoso banchetto tenuto dagli avvoltoi e da altri rapaci, giacché è noto che alcune varietà di essi inghiottono le più piccole o spezzano le più grosse facendole cadere sulle rocce, per poi attingere al midollo o agli stessi frantumi.

É da credere che da un tale trattamento avanzino il cranio – se pure veniva esposto e non prelevato in precedenza per riservargli un rito specifico ,(5)
le ossa lunghe più pesanti, come i femori e le placche del bacino, oltre a parti della colonna vertebrale e molte costole…

Giacobbe Manca

L’articolo nel numero 32
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[Recensione] Mito di Mamoiada Archeologia, Pietre magiche, Antropologia

Come il titolo e il sottotitolo lasciano intuire, questo libro è suddiviso in più parti.

Nella prima, dopo le indicazioni territoriali, si procede dall’antichissimo giungere di un popolo del Neolitico medio nella valle di Mamojada che in questo “Eden” s’insedia stabilmente per dare origine ad una vicenda antropica, da un lato, singolare e in pari tempo parallela a quelle accaduta in altre contrade dell’Isola (come, si narra, dovette verificarsi lungo le valli del Tirso e del Cedrino, nelle valli ogliastrine o lungo altri importanti corsi d’acqua isolani).

Ciò che distingue quel popolo delle origini è la sua consuetudine di erigere stele e menhirs istoriati con simboli (cerchi concentrici, bastoncelli”, “preghiere” e coppelle tonde e vulvari) che l’autore, con un felice neologismo, definisce “fertilistiche”, in virtù della loro antica funzione magico-rituale.

Le seconda parte del libro ha un carattere internazionale, giacché segnala tutti i confronti oggi disponibili fra le pietre istoriate di Mamojada (le famose pietre magiche richiamate nella precedente opera dello stesso autore) con altre realtà europee e persino africane.

Dalla Scozia al Marocco, passando per il Northumberland (e con qualcosa di significativo anche in Nigeria), dall’Irlanda alla Svizzera, attraverso la Spagna e il Portogallo sono segnalati monumenti istoriati, strettamente confrontabili con questi sardi di Mamojada e dintorni.

La terza parte del libro è una ricca documentazione iconografica a colori (una sostanziale narrazione parallela e spunto per un futuro museo del paese) che annovera monumenti e oggetti archeologici, anche inediti, rinvenuti sia nella valle di Mamoiada sia nel resto dell’Isola e dell’Europa, a conforto dell’ipotesi di un’antica religione fertilistica, la cui individuazione in Barbagia, pone la Sardegna in un perfetto parallelo culturale col resto del mondo mediterraneo: altro che i ritardi culturali predicati da autorevoli pulpiti! 

Ancora, il testo è corredato da diverse appendici con indicazioni sui monumenti, risorgive ed altre realtà mamojadine, utili sostegni della narrazione globale del libro.

Infine, quattro mappe territoriali archeologiche a colori, con tavola cronologica dell’autore, offrono una diretta immagine dell’ubicazione dei monumenti presenti nella regione, distinti con differenti simbologie e colori, ascrivibili a tutte le epoche, dal Neolitico (fase delle origini documentate) fino al Medioevo.

Si tratta, dunque, di un libro composito, nel quale la narrazione scientifica è veicolata da una scrittura chiara e piacevole, affinché sia fruibile da tutti, dove i tecnicismi dell’archeologia lasciano il posto alla documentata visione antropologica: quello che dovrebbe essere il vero scopo dell’archeologia, frequentemente disatteso dalla generalità degli archeologi che spesso se non sempre si limitano a leggere i “cocci” e le ambigue stratigrafie o a dare generiche descrizioni di monumenti, talora vaghe e inadeguate.

Si legge come un romanzo ma è un libro di archeologia di nuova concezione, dove non è il monumento o l’oggetto scientifico al centro dell’attenzione, ma le persone e la loro vita sociale, economica e religiosa: tutto ciò che quei documenti importantissimi, giunti fino a noi, hanno saputo indicare.

Le “maglie” della narrazione sono più fitte e stringenti per i periodi più antichi e più larghe col procedere verso i periodi punico e romano, con cenni fino al Medioevo.

Dunque questo libro non è solo un’ennesima iniziativa editoriale indirizzata “al paese del cuore”, ma è un’impegnativa prova di paletnologia (ovvero di paleo-etnologia) dalle valenze generali, che in distinte parti affronta altrettanti aspetti, diversi ma strettamente correlati: dalla ricerca delle società antiche alle parentele europee delle affascinanti pietre istoriate, oggi attribuite ad una cultura barbaricina.

Da quell’argomentare discende che nella visione archeologica isolana non è più giustificabile una teoria dove l’Isola è chiusa in se stessa (tutto ciò che del Neolitico mostra una decorazione, ad esempio, veniva rimandato alla nostrana cultura di Ozieri), ma si hanno molti motivi per guardare ad orizzonti europei, ben più ampi, cosa già intuita per differenti elementi culturali del Bronzo Antico, quali la cosiddetta cultura Beacker e non solo.

La nuova opera di Giacobbe Manca è, in buona sostanza, la logica continuità culturale, in prioritaria chiave antropologica, del noto libro “Pietre magiche a Mamojada” (del 1999), che divulgò, fra l’altro, la grande novità delle pietre istoriate barbaricine o “fertilistiche”, ampliando in modo imprevisto e imprevedibile il quadro della preistoria isolana ed europea.

In chiusura propongo una notazione sul titolo, così sintetico e significativo insieme: Mito di Mamojada, sta per il percorso culturale individuato alla ricerca di un popolo che ha saputo conservare più di ogni altro nell’isola, retaggi di antichissime ritualità folkloriche.

É la ricostruzione sia pure parzialmente e necessariamente ipotetica (siamo in campo preistorico), ma ampiamente documentata della lunghissima e articolata epopea di un popolo mitico fin dalle sue origini, come l’archeologia dimostra.

In sintesi è un omaggio sia ai mamojadini e ai loro importanti antenati, sia ai Sardi nel loro insieme.

Franco Romagna

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